Deboli, svantaggiati  -  Gemma Brandi  -  07/11/2022

Epidemia suicidaria nelle carceri italiane

Lettera aperta al Signor Ministro della Giustizia Carlo Nordio

Chiarissimo Signor Ministro,

non Le scrivo allo scopo di tirarLa per la giacchetta e di chiederLe di approntare su due piedi una soluzione che riduca il problema suicidario che fronteggiano le prigioni italiane. Sarebbe sciocco e pretestuoso, visto che si tratta di un problema lasciato crescere negli anni senza interrogarsi in modo onesto e intellettualmente aperto sulle ragioni che lo sostengono. Sono stata testimone del varo di procedure antisuicidarie tese più ad individuare dei responsabili che a promuovere analisi argomentate e conseguenti valide risposte.

La prego solo di cogliere come questa ascesa si colleghi strettamente alla diastasi tra Salute e Sicurezza in ambito penitenziario, laddove il DL 230/99, con il DPR 1 aprile 2008, non ha provocato quella collaborazione interistituzionale che avrebbe potuto portare acqua al mulino di una pena davvero medicinale con la confluenza della Sanità Penitenziaria nei Sistemi Sanitari Regionali. In realtà questi ultimi non hanno di fatto arricchito il patrimonio della cura intra moenia, o almeno non lo hanno arricchito quanto e come obiettivamente serve, finendo per non offrire al cittadino recluso le stesse opportunità di salute previste per il cittadino libero. L’impoverirsi della assistenza sanitaria dedicata a tutta la cittadinanza e l’esplosione pandemica hanno fatto il resto. Oggi la Salute Pubblica svolge in carcere il compito (assegnatole senza risorse aggiuntive e dopo tagli andati avanti per un decennio -tra il 1999 e il 2008- di quelle che la Giustizia stanziava per il Sistema Sanitario Penitenziario, pertanto transitate in netta diminuzione ai Sistemi Sanitari Regionali), ebbene svolge questo compito come un onere indigesto.

Nel settore della Salute Mentale poi, grazie anche alla contemporanea chiusura degli istituti di internamento giudiziario, le risorse furono in principio scarse, a partire dai posti nelle REMS, e gli adattamenti post riforma, a partire dalla realizzazione di reparti psichiatrici almeno in un istituto per Regione, troppo modesti. Si è assistito a una dequalificazione, oltre che alla dequantificazione, delle risposte di salute mentale intra moenia, anche per quei soggetti internati che rimangono sequestrati in carcere. A ciò si somma il fatto che la Salute Mentale in Italia, per i cittadini liberi, è sempre meno disposta a farsi carico di persone sofferenti e non compliant, considerandosi estranea alla gestione di problemi che, senza adeguate risposte di salute, diventano giocoforza problemi di ordine pubblico. Non dimentichiamo al riguardo la questione dello stalking che un tempo gli psichiatri definivano erotomania e consideravano una loro competenza, tra le più ardue da curare. Né diamo per affrontata la piaga della tossicodipendenza, in aumento nonostante i servizi messi in campo, servizi che vanno dunque onestamente ripensati.

Lei potrà facilmente constatare come la maggior parte dei suicidi nelle carceri italiane riguardino persone portatrici di una sofferenza psichica difficile da trattare e forse di fatto malgestita. Avrà anche colto, da osservatore attento delle dinamiche criminali, come molti reati di sangue dipendano dal discreto scetticismo terapeutico che affligge la Salute Mentale nel Belpaese, visto che le vittime e gli autori di fatti di sangue, quelli delle ultime settimane ad esempio, si erano ripetutamente recati in luoghi di cura senza ricevere una risposta di contenimento, apparsa ex post necessaria.

La invito a prendere in esame quanto il Ministro della Giustizia avrebbe detto alla Conferenza Nazionale della Salute Mentale nel 2021, qualcosa che suonava come un campanello di allarme: “Se non ci pensate voi, ai problemi di salute mentale in carcere, ci penseremo noi…”. Non so cosa ne sia stato di questa promessa che a me parve piena di speranza per la popolazione detenuta e per gli operatori penitenziari.

Né va dimenticato che molti di questi suicidi riguardano stranieri, gli stessi stranieri che si aggirano per le nostre contrade come gens sans aveu e senza speranza, che turbano la quiete pubblica e che si fa finta di non vedere. Il problema si ricollega quindi anche a quello di una immigrazione non governata di fatto. 

Non mi permetterei di fare simili considerazioni, se non avessi lavorato per quarant’anni nella Salute Mentale Pubblica sul territorio e in carcere. Né Le farei perdere tempo, se non pensassi che la prevenzione e la cura siano possibili anche in campi apparentemente impossibili. Nei settori di cui sono stata responsabile ne ho dato ampia e incontestata dimostrazione. Servono competenze, interdisciplinarità, comprensione dei problemi, convinzione circa le strategie e i percorsi da costruire, definizione di azioni davvero utili e il necessario impegno operativo. Non sono bazzecole, ma occorre cominciare da un angolo della casa in disordine, se si vuole riordinarla davvero. Il carcere è un buon angolo da cui cominciare, perché è il luogo che concentra e distilla i problemi di una società, precorrendone la esplosione e permettendone quindi la prevenzione.

 




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