La Corte d'assise d'appello passa il verdetto alla Corte costituzionale ritenendo che il giovane abbia diritto a una quantità di attenuanti maggiore rispetto a quelle previste dal codice penale. Assolto in primo grado, ora per lui il pm ha chiesto una condanna a 14 anni
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Non è stata legittima difesa ma un omicidio volontario. Ma sono troppi 14 anni di carcere per un ragazzo che ha reagito a una situazione di oppressione durata anni e proprio per questo gli è stato riconosciuto un vizio parziale di mente. Sarà la Corte costituzionale quindi a dover sciogliere un nodo così delicato: i giudici dell’appello ritengono che A abbia diritto alle attenuanti generiche e a quelle della provocazione, ma non possono applicargliele per via dell’aggravante di aver ucciso un congiunto. La riforma del codice rosso impedisce infatti il bilanciamento.
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È questo il verdetto che stoppa momentaneamente il processo d’appello per una delle vicende che più hanno toccato l’opinione pubblica: un ragazzo di appena 18 anni che la sera del 30 aprile 2020 ferì a morte suo padre GP durante l’ennesima lite tra l’uomo e la moglie, madre dell’imputato. Trentaquattro coltellate inferte con sei coltelli diversi dopo una vita passata a difendere sua madre, dalle continue aggressioni del marito. E proprio per questo A, che ha scelto di cambiare cognome e porta ora quello di MC, era stato assolto in primo grado: legittima difesa. Il pm Alessandro Aghemo aveva chiesto una condanna a 14 anni.
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Giuseppe Pompa era un uomo ossessionato dalla gelosia. Quel giorno aveva spiato la moglie mentre era al lavoro come cassiera in un supermercato e l'aveva vista sorridere a un collega che le aveva appoggiato una mano sulla spalla. L’aveva chiamata 101 volte e l’aveva aspettata a casa covando un crescente rancore. Dopo cena la lite era scoppiata furibonda. La madre di A, seguendo un copione ormai assodato, si era chiusa in bagno per togliersi dalla vista del marito. Tra il ragazzo e suo padre il litigio degenera: A aveva preso un primo coltello e aveva colpito il genitore davanti agli occhi del fratello Loris, che però racconterà di non ricordare nulla perché sconvolto dalla vista del sangue si sarebbe sentito male.
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In primo grado la Corte d'Assise lo aveva assolto per legittima difesa: secondo i giudici aveva dovuto scegliere “se vivere o morire". Nel corso dei processi l’avvocato difensore Claudio Strata aveva fatto ascoltare buona parte delle 400 registrazioni delle liti furibonde che da anni ogni giorno risuonavano tra le mura domestiche. A registrarle di nascosto le sfuriate del padre nei confronti della madre erano sempre A e suo fratello. L’uomo, spesso anche ubriaco, insultava e inveiva contro la moglie accusandola pesantemente. “Ogni sera andavo a dormire abbracciando i miei figli come fosse l’ultima volta, temendo che il mattino dopo non li avrei più rivisto- aveva spiegato la madre- se A non mi avesse difeso sarei stata l’ennesima vittima di un femminicidio”.
Il giovane e suo fratello Loris avevano trascorso gli ultimi anni a darsi il cambio per rimanere sempre in casa con la madre nel terrore che potesse accaderle qualcosa di grave. “A causa di un padre violento non ho potuto vivere la mia adolescenza. Se ora passerò la mia vita in carcere, potrò dire di aver veramente vissuto?”: con questo interrogativo, in un appunto scritto nel 2020 da Alex in un diario l’avvocato aveva chiuso la sua arringa in aula.
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Dopo l'assoluzione A, che quando ancora era ai domiciliari si è diplomato, si è iscritto alla facoltà di S: studia e lavora e adesso sta facendo l'Erasmus a omissis.