Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  03/05/2023

Le eccezioni alla regola del consenso del paziente - Cecilia De Luca

In questa sede è necessario, per una più profonda comprensione, trattare brevemente di alcune eccezioni in presenza delle quali, nonostante il dissenso del paziente, è lecito l’intervento del medico, il quale è esonerato dall’obbligo di acquisire il consenso informato: lo stato di necessità, i trattamenti sanitari obbligatori e l’incapacità del paziente di esprimere un valido consenso o dissenso, l’ultimo dei quali risulta essere fondamentale ai fini della nostra trattazione . Secondo una consolidata impostazione giurisprudenziale, anche quando il medico viola la regola del consenso informato, il trattamento terapeutico è lecito se ricorrono gli elementi costitutivi della scriminante dello stato di necessità, ossia nei casi in cui la prestazione medica è necessaria per salvare il paziente “dal pericolo attuale di danno grave alla persona”, il quale non sia stato volontariamente causato dal professionista, “né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo” (art. 54 c.p.). L’ interpretazione tradizionale, e tuttora prevalente, di questa disposizione spiega che la mera “indicazione” del trattamento dal punto di vista clinico-scientifico, in assenza di imminente pericolo di un danno grave alla persona, non solleva da responsabilità il medico che abbia omesso di informare il paziente e di acquisirne il consenso. I requisiti, infatti, di attualità del pericolo ed inevitabilità del danno inducono a prediligere l’applicazione restrittiva dell’art. 54 c.p., come riferito a situazioni estreme in cui vi sia la necessità di un intervento tempestivo, che dovrà essere comunque ridotto a quanto indispensabile per evitare esiti infausti. L’accertamento della sussistenza in concreto dell’urgenza deve essere condotto ex ante, ossia senza considerare le evoluzioni della situazione intervenute dopo la condotta di cui la liceità è valutata alla luce del parametro codicistico richiamato. Ogni elemento deve essere valorizzato e relazionato con gli altri nell’ambito della fattispecie pratica, dalle caratteristiche nosografiche del processo morboso, alla qualifica del medico; dalle condizioni del tempo del suo operare, all’eventuale concorso di collaboratori ed ausiliari; dallo strumento disponibile, alle esigenze terapeutiche del caso, ecc., ma questa minuziosa ricostruzione dei dati di fatto deve essere riferita e limitata al momento nel quale vennero formulati i giudizi diagnostici e prognostici, onde stabilire se essi si presentavano all’epoca corretti. Una parte della dottrina ritiene, tuttavia, che quest’istituto non possa trovare applicazione nell’ambito dell’attività sanitaria. Infatti, lo stato di necessità medica, inteso come “pericolo medicalmente accertato per la vita o danno irreversibile per la salute”, non può coincidere necessariamente con l’istituto di matrice codicistica, in quanto la doverosità dell’intervento in caso di urgenza non può essere dedotta da parametri precostituiti di natura prevalentemente giuridica, ma deve essere valutata “per induzione dai dati biologici concretamente obiettivati”. Dunque, seguendo questa tesi, nell’ambito dell’art. 54 c.p. non possono essere ricompresi automaticamente tutti i casi di emergenza medicalmente accertata, e a tal fine si evidenzia l’inidoneità del criterio del “pericolo attuale di danno grave alla persona” ad orientare il medico, poiché insoddisfacente dato che è indubbio che il sanitario sia obbligato ad intervenire, ma in discussione sono i presupposti dell’attualità del pericolo e della gravità del danno. Un primo motivo di ostilità per la tesi che applica al trattamento sanitario lo stato di necessità ex art. 54 c.p. deriva dall’adesione alla dottrina della liceità in sé dell’attività medica, anche se chirurgica. Infatti, l’applicazione della scriminante dello stato di necessità è coerente solo con la concezione della prestazione terapeutica come fatto illecito che, per poter essere eseguito, necessità appunto di una causa di giustificazione. La tesi della necessità medica appare invece più compatibile con la liceità in sé del trattamento medico, a meno di volere individuare nella necessità medica una scriminante non codificata, come abbiamo già ampiamente discusso, categoria, quest’ultima, particolarmente controversa. Un altro argomento a sostegno dell’irrilevanza dell’art. 54 c.p. nell’ambito dell’attività sanitaria può essere rintracciato nella funzione dello stato di necessità pensato dal legislatore, la quale appare incompatibile con lo stato di necessità medica. Infatti, mentre la situazione di urgenza clinica pone in capo al medico l’obbligo, e non la mera facoltà, di intervenire, la concomitante sussistenza dei presupposti dell’art. 54 c.p. rende non punibile, ma nient’affatto obbligatoria, la condotta del professionista. Del resto, la doverosità dell’intervento non può essere messa in discussione in alcuni casi perché lasciare al medico la sola facoltà di agire determinerebbe un paradosso nel consenso informato, il quale pur essendo funzionale alla tutela della libertà di autodeterminazione del paziente, finisce con il permettere la medico di scegliere se intervenire o meno nelle ipotesi in cui il malato non possa esprimere la sua volontà. Inoltre, l’applicazione dell’istituto dello stato di necessità si rivela insoddisfacente anche alla luce della sua disciplina civilistica. Infatti, la previsione di un indennizzo a favore del soggetto che subisce l’altrui azione necessitata ex art. 2045 c.c. appare rivolta alla ricerca di un bilanciamento di interessi compromesso da condotte ben diverse dalle prestazioni sanitarie, che sono per definizione dirette al recupero o alla conservazione della salute. Un ulteriore motivo di inapplicabilità dell’art. 54 c.p. alle prestazioni terapeutiche sembra rintracciabile nel rapporto tra stato di necessità e consenso del paziente. Infatti, se si applicasse l’istituto codicistico, sarebbe lecito per il medico intervenire disinteressandosi di conoscere la volontà del paziente anche nel caso in cui, nonostante l’attualità del pericolo, fosse possibile acquisirne il consenso informato. Dunque l’applicazione dell’articolo in questione si risolverebbe in uno svuotamento di tutela della libertà di autodeterminazione ex art. 32, comma 2, Cost. e si verificherebbe anche in caso di rifiuto del trattamento da parte del paziente. Applicando, difatti, la scriminante ex art. 54 c.p. l’intervento diventa lecito nonostante sia stato validamente rifiutato dalla persona su cui viene eseguito. Al contrario, la categoria dello stato di necessità medica appare pienamente compatibile con la libertà di autodeterminazione del paziente, perché obbliga il medico ad intervenire senza consenso solo quando, in base alle condizioni cliniche del malato, i tempi richiesti dalla procedura di acquisizione del consenso informato lo espongano al pericolo di un danno permanente. Dunque, nel conflitto tra salute e libertà di scelta del paziente, la tutela della prima prevale solo quando sia impossibile realizzare entrambi i diritti del malato. Inoltre, non rientrando nell’art. 54 c.p., lo stato di necessità medica non esclude la rilevanza del valido rifiuto del paziente. Queste sollecitazioni dottrinali trovano il loro eco anche nella giurisprudenza, secondo cui l’attività terapeutica, essendo autorizzata dall’ordinamento in quanto finalizzata alla protezione della salute ex art. 32 Cost., è scriminata da uno stato di necessità ontologicamente intrinseco, senza che sia necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate”. Inoltre, lo stato di necessità esplica la propria efficacia scriminante anche nei casi in cui la sussistenza dei presupposti rilevanti ex art. 54 c.p. sia erroneamente supposta dal medico, purché tale errore non sia determinato da colpa. Tale ipotesi è stata prospettata nel caso di una paziente ricoverata per perdite ematiche e sottoposta dal primario ad intervento chirurgico di laparotomia per sospetta gravidanza extra-uterina. Sebbene l’intervento avesse accertato la presenza di una normale gravidanza intrauterina, il primario, senza acquisire il consenso della paziente, ha proceduto ad “annessiectomia sx”, essendo l’annesso “di volume più che doppio e di aspetto micropolicistico”. Dopo pochi giorni è stato “necessario svuotare la cavità uterina, con perdita del feto”. Si è pervenuti così alla conclusione che il primario fosse stato “fuorviato, nell’errata diagnosi di gravidanza extra-uterina, da un precedente errore dell’ecografista, oltre che da una sintomatologia coerente con l’ipotesi formulata, essendovi perdite ematiche e dolenzia”. Per la Suprema Corte tale conclusione è compatibile con il proprio orientamento secondo cui l’art. 2236 c.c. non trova applicazione per “i danni conseguenti alla violazione, per negligenza, del dovere di informazione del paziente (…) al quale egli è tenuto in ogni caso”. Infatti la mancata informazione ed acquisizione del consenso del paziente è dipesa non da negligenza od imprudenza  del primario, “ma, al più, da imperizia non rilevante ex art. 2236 c.c.”. Quindi il giudice ha fondato sull’art. 2236 c.c. la sua pronuncia che l’errore del primario sulla sussistenza dello stato di necessità fosse esente da colpa. Proseguendo, oltre allo stato di necessità, la mancanza del consenso informato non espone il professionista a responsabilità nei casi di trattamenti sanitari obbligatori espressamente previsti dalla legge, purché nei limiti dell’indispensabile rispetto per la persona del paziente, come impone l’art. 32, comma 2, Cost., il quale costituisce un importante presupposto di legittimità, trovando conferma nella legge n. 180/1978 poi ripresa dalla 833/1978, che accomunano sotto la medesima disciplina sia i trattamenti che gli accertamenti sanitari. L’intervento del medico si legittima nella libera e consapevole accettazione del diretto interessato, il quale è il solo deputato ad operare le scelte in ordine alla propria vita, sia per quanto riguarda la qualità che la durata. Le eccezioni a questo principio, che può essere definito “volontaristico”, per essere compatibili con il nostro ordinamento giuridico devono essere espressamente previste dalla legge dello Stato. Di conseguenza, nessun trattamento sanitario può essere dichiarato obbligatorio da un decreto ministeriale, né da una legge regionale. Tale riserva di legge si spiega in considerazione dell’importanza che il legislatore riconosce alla libertà di autodeterminazione e della rilevanza pubblica generalizzata delle ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio. Infatti, solo esigenze di sanità pubblica, che ricorrono nei casi di malattie mentali, vaccinazioni obbligatorie, AIDS, prevenzione, cura e riabilitazione dalla tossicodipendenza, ecc., permettono nell’interesse della collettività di prescindere dal consenso del diretto interessato. Tuttavia, anche in queste situazioni il medico deve attenersi al limite invalicabile del rispetto della persona, ex art. 32, comma 2, Cost., adeguarsi il più possibile alla volontà del paziente, nonché astenersi dall’offendere i suoi diritti civili e politici costituzionalmente garantiti, ex art. 1, comma 2, legge n. 180/1978. In dottrina si distingue tra trattamenti sanitari meramente obbligatori e trattamenti sanitari coattivi, nel senso che limitano la libertà personale, garantita ex art. 13 Cost. Dunque, quando il trattamento sanitario diventa coattivo, perché eseguito contro la volontà del paziente, la liceità dell’intervento medico presuppone non già la sola riserva relativa di legge ex art. 32 Cost., rinforzata per l’ulteriore limite dato dall’ineludibile rispetto della persona, bensì la riserva assoluta di legge e la riserva giurisdizionale, volute dall’art. 13, comma 2, Cost. per tutte le restrizioni della libertà personale. Questa tesi trova sostegno negli artt. 14 e 16 Cost. Il primo, infatti, stabilendo che la legge può limitare la libertà di circolazione “per motivi di sanità e di pubblica sicurezza”, dimostra che l’art. 32 Cost. è estraneo alla disciplina delle restrizioni obbligatorie alla libertà di circolazione dettate da motivi di sanità, alle quali, appunto, è dedicato l’art. 16 Cost. Dunque, poiché l’art. 32 Cost. non riguarda neanche tutte le limitazioni obbligatorie di libertà, “a fortiori nell’art. 32 Cost. non possono trovare fondamento o giustificazione restrizioni addirittura coercitive”. L’art. 14 Cost. inoltre stabilisce che le ispezioni, le perquisizioni ed i sequestri domiciliari possono essere eseguiti anche in mancanza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, purché ricorrano “motivi di sanità e pubblica incolumità”. Conseguentemente, poiché l’art. 13 Cost. non contiene un’analoga eccezione al divieto di limitazione di libertà personale, il raffronto tra le due disposizioni porta a ritenere che le restrizioni della libertà personale necessitino sia dell’espressa previsione di legge, sia del provvedimento giurisdizionale motivato, anche quando siano dettate da motivi di sanità. In senso contrario, si sostiene che tutti i trattamenti sanitari, obbligatori e coercitivi, debbano sottostare alle garanzie previste dall’art. 32 Cost., comma 2, e non a quelle sancite dall’art. 13 Cost., perché la prima rappresenta una norma speciale rispetto alla generale disciplina delle limitazioni alla libertà personale contenuta nell’art. 13 Cost. Dunque, ogniqualvolta la restrizione della libertà personale sia dettata da una finalità sanitaria, deve trovare applicazione l’art. 32, comma 2 Cost. Una conferma di questa conclusione sembra ricavabile dall’art. 13, comma 3, Cost., che, attribuendo solo all’autorità di pubblica sicurezza, e non anche all’autorità sanitaria, il potere di adottare provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale, induce a ritenere che tale articolo prenda in considerazione solo le restrizioni della libertà personale dettate da esigenze di ordine pubblico, e non da motivi sanitari. Appare allora logico e coerente che  nell’art 13 Cost.,diversamente dall’art. 14 Cost., manchi il riferimento ai motivi di sanità; quindi, tale mancanza non può essere utilizzata per dimostrare che le limitazioni alla libertà personale dovute a motivi sanitari rientrino nell’art. 13 Cost. La mancanza, nell’art. 32 Cost., della riserva di giurisdizione si spiega con la natura tecnico-scientifica e discrezionale della valutazione che è alla base della scelta di imporre un determinato trattamento sanitario, essendo necessario stabilire se quella patologia costituisca un pericolo per la salute del singolo e/o della collettività. Infatti la partecipazione dell’organo giurisdizionale avrebbe potuto contribuire ben poco in questo genere di decisioni, non avendo l’indefettibile competenza clinica, ed anzi avrebbe potuto portare a risolvere in maniera contrapposta casi analoghi. Tuttavia, tale mancanza della riserva di giurisdizione non sembra comportare il rischio di una carenza di garanzia per la libertà di autodeterminazione. Infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che l’imposizione ex lege di un trattamento sanitario, per essere compatibile con l’art. 32 Cost., deve essere diretta “non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, e purché esso non incida negativamente – salvo che in misura temporaneo e tollerabile – sullo stato di salute del soggetto. Dunque, l’elemento comune a tutte le fattispecie legali di trattamento sanitario obbligatorio è la sussistenza di un interesse collettivo per la cui tutela è necessario eseguire un determinato trattamento sanitario sul singolo paziente o sulla comunità, a  seconda dei casi. Anche secondo la dottrina essendo la salute un diritto della persona ed interesse della collettività ex art. 32 Cost., l’obbligatorietà del trattamento sanitario presuppone che quest’ultimo realizzi non solo l’interesse dell’individuo, ma anche l’interesse collettivo finalizzato ad evitare un pericolo per i consociati. Inoltre il carattere obbligatorio del trattamento non esclude completamente la tutela della libertà di autodeterminazione del paziente, dovendosi l’attività sanitaria comunque svolgere nel rispetto dell’art. 32 Cost. e delle singole leggi che nel tempo hanno sancito l’obbligatorietà di determinato trattamenti. Infatti, se non sussistono i requisiti di liceità del trattamento sanitario obbligatorio eseguito nel caso concreto, la regola del consenso torna ad avere piena efficacia ed a fondare la responsabilità del medico, come stabilito dalla giurisprudenza in materia di trattamento delle malattie psichiatriche, di cui si tratterà in seguito. Tra le principale fattispecie di obbligatorietà sono rappresentate le vaccinazioni obbligatorie (l. 292/1963), il trattamento delle malattie sessualmente trasmissibili, tubercolosi e e lebbra (l. n. 897/1956), e le malattie mentali (artt. 34 e 35 l. 833/1978; l. 180/1978).

In allegato il saggio completo di note


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