Letteratura  -  Redazione P&D  -  19/06/2023

Una recensione all'"Orco in canonica" di qualche tempo fa - Maria Assunta Piccinni

Porto il mio punto di vista di appassionata lettrice dei testi giuridici e letterari del prof. Cendon, ex bambina (ma profondamente ancora “fanciullina”, in termini pascoliani) e poi ragazza/giovane adulta frequentante l’ambiente cattolico. Almeno fino ai 30 anni sono stata parte attiva della parrocchia, attraverso l’impegno associativo negli scout.

Richiamo letterario adeguato all’età che il romanzo mi ha portato a rivivere. La storia infinita di Micheal End: come se avessi un dovere di continuare a leggere il più in fretta possibile per accompagnare Anna nella sua sofferenza, con la speranza di arrivare finalmente al fondo e di poter iniziare con lei la risalita. Ed è stata una discesa faticosa, sofferta, incredula, sgomenta… e quando finalmente è iniziata la risalita: davvero, un grande sollievo.

Mi ha colpito moltissimo la verosimiglianza del racconto.

La prospettiva del narratore, un improbabile professore universitario che sembra però molto vicino al Prof. Cendon, si interseca con il racconto fatto in prima persona da Anna stessa, e questa narrazione sembra davvero profondamente autentica. Le descrizioni mi hanno ricordato gli ambienti parrocchiali da me vissuti negli anni ottanta come ambienti di assoluta “sicurezza” e “fiducia”; certo con le fatiche legate al crescere, ma davvero con una gioia e spensieratezza di base. La chiesa, il patronato, le strade di quartiere dalla casa alla parrocchia, le case dei campi estivi.

E quegli stessi ambienti, a me così familiari in positivo, la “casa di Dio” (intesa come Chiesa di persone; oikos ecc.), si trasformano per Anna nella “casa dell’orco”.

La riflessione più scontata è l’ovvio giudizio negativo rispetto all’orrore dato dal “tradimento” della comunità, che dovrebbe proteggere ed invece diviene luogo di esposizione al pericolo; se i danni si possono, forse, quantificare, le ferite mi sembrano irreparabili. E ad impressionare non è solo l’orco, il giovane cappellano autore e regista delle violenze, ma la stessa canonica, che dovrebbe essere luogo di aggregazione, di continua conversione, della comunità, e diventa, invece, luogo di perversione.

C’è però un livello più faticoso di riflessione: mi riferisco alla fatica fatta da chi si sente parte “protetta” e “al sicuro” di quella comunità; mi riferisco alla difficoltà – che rischia sempre di trasformarsi in incapacità di riconoscere ed accettare la realtà – nel vedere, comprendere, e, quindi, agire per riparare al torto subìto dalle vittime.

Ed è forse la stessa fatica che ho fatto anche io come lettrice all’inizio: vale davvero la pena entrare nella canonica? Addentrarsi, scendere in una realtà così terribile? Chi me la fa fare? Incubi notturni; angosce per il presente dei bambini a me cari e di tutti i bambini in generale; retro pensieri la domenica a messa sul significato dell’essere comunità cristiana; delusione. E, costantemente in agguato, un retro pensiero insidioso e costante, dal sapore consolatorio/liberatorio: NON può essere vero! Non ci credo!

Le manifestazioni di solidarietà a don Fulvio organizzate dalla comunità parrocchiale sono forse quello che mi ha dato più disagio della seconda parte del romanzo, anche più della copertura istituzionale. Se avessi dovuto scegliere chi perdonare e chi condannare, tra gerarchie e comunità dei fedeli, sarei stata in forte imbarazzo…

In effetti, nell’ultima parte del romanzo, accanto alla catarsi processuale, c’è una catarsi per così dire spirituale, che si svolge in questo dialogo essenziale, ma solido tra Anna ed il professore/narratore. Una specie di serissimo gioco del bianco e nero: chi Anna perdona e chi no.

E forse, mi sono detta, rispetto alla Chiesa, intesa sia come comunità che come istituzione, non è quello del giudizio il metro più fecondo. Forse è più utile quello della “comprensione”. Comprendere i meccanismi alla base di questo schema di autodifesa della Chiesa; forse lo stesso usato da me, lettrice, e da Anna, che pure lei, per lungo tempo, RIMUOVE.

Comprendere non per giustificare, ma per superare la difficoltà e sviluppare una Chiesa, ed in generale, COMUNITA’ più solide, che permettano ai più di vedere e dunque prevenire e, nei speriamo sempre più rari casi in cui alcuni sbagliano, anche isolare, neutralizzare e riparare.

“Una giusta riparazione”: così si è espresso papa Francesco in una coraggiosa prefazione ad un libro [Daniel Pittet, La perdono padre, ed. Piemme, del 2017, tradotto in italiano nello stesso anno] che racconta di un bimbo che ha subito violenze.  

La riparazione presuppone però un riconoscimento di responsabilità e può, dunque, diventare forma di liberazione autentica della vittima (come Anna, e con lei il narratore, che la ascolta, mi paiono intuire già nelle prime pagine del romanzo), ma forse lo è anche del reo e della stessa comunità.

Ed in fondo è quello che sembra accadere anche in questa storia. Anna “esce dal buio del passato”, mentre il buio, le ombre continuano ad avvolgere l’”orco” e la “canonica”…

 

 




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