“Perché le idee sono come farfalle che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali
Perché le idee sono voci di madre che credevano di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo
Continua a scrivere la vita, tra il silenzio e il tuono, difendi questa umanità che è così vera in ogni uomo
In questo disperato sogno tra il silenzio e il tuono difendi questa umanità anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore, chiamami sempre amore perché noi siamo amore”
(passaggi tratti da Roberto Vecchioni, “Chiamami ancora amore”)
Il libro di racconti del Prof. Paolo Cendon (come tutta la sua sterminata produzione scientifica a tutela dei più deboli) pone al centro del diritto la persona, la sua interiorità con l’impegno a restituire a ciascuno una vita decorosa.
Non parla nel linguaggio giuridico in senso stretto ma nel linguaggio dei sentimenti e della filosofia anche se dietro ogni racconto si possono leggere le tutele giuridiche che nel tempo sono state approntate, o che ancora devono essere approntate, a tutela di ogni singola esperienza di vita descritta.
I racconti vanno così a fondo nell’ombra umana che alla fine di ogni racconto questa ombra, da ombra, diventa luce in cerca di ascolto.
Racconti profondamente umani nei quali si narra di gesti, di silenzi, di sguardi e di espressione dei volti e qui la narrazione si fa via via più intensa sino ad esprimere sentimenti di dolore ma anche di speranza. Sono vellutati, perché intendono tracciare, tessere, un colloquio con il lettore.
Si può scoprire un Paolo Cendon non solamente giurista ma abilissimo narratore che ci fa comprendere che anche la solitudine, la fragilità, il dolore, la follia, e le disabilità in ogni loro forma (ludopatia, anoressia, droga, alcool) possono volgere al positivo.
Tutta l’opera di Cendon in difesa dei fragili origina da Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano del quale quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita: tutto inizia dalla chiusura dei manicomi, per curare la follia, per non lasciare i malati di mente soli, per legare, stringere una relazione empatica con loro, alla ricerca della tenerezza.
Da lì si dipana tutta la Sua produzione scientifica a tutela delle varie e variegate forme di disabilità e Cendon pare voglia insegnarci che non si sanno scegliere le parole ed i diritti che curano e le parole ed i diritti che salvano, se non si è capaci di introspezione e di immedesimazione: noi siamo di continuo responsabili delle parole che diciamo e di quelle che dovremmo dire e non diciamo ma anche dei silenzi che sono più delle parole e Cendon traduce tutto questo nel suo libro.
L’alterità, il rispetto della condizione dell’altro, soprattutto quando soffre, è il terreno del confronto per rimuovere e superare la solitudine e l’ombra dell’anima.
Potremmo definire il Prof. Cendon, quando tratta dei diritti dei deboli, come poeta della fragilità, fragilità come ombra in cerca di ascolto, appunto.
Ha scritto Emily Dickinson: “Una parola muore appena è detta dice qualcuno. Io dico che comincia appena a vivere quel giorno”, se la sappiamo ascoltare, aggiungo io.
Eh sì, perché le parole contenute nel libro raccontano di esperienze umane che trascinano con loro angoscia, tristezza, solitudine, dissociazione e smarrimento ma ogni parola può essere, di volta in volta, quella decisiva, quella che crea fiducia nella soluzione di queste situazioni grazie alle tutele giuridiche che la dottrina ha nel tempo creato sfruttando i principi contenuti nella nostra Carta costituzionale.
Un’opera capace di emozionare e restare nel cuore perché, come tutti i grandi giuristi, Paolo Cendon ci spiega i fatti ed i diritti ad essi collegati, in modo semplice e chiaro.
Ogni episodio narrato è una esperienza vissuta dall’Autore e da ogni esperienza egli trae un insegnamento ed uno sprone per aiutare i personaggi descritti nei singoli racconti e ricordarci che quei personaggi, un giorno, potremmo essere noi stessi.