Letteratura  -  Redazione P&D  -  10/07/2022

Testamento lografo - Massimo Paradiso

L’atteggiamento combattivo con cui la donna si avanzò nell’aula delle udienze, dopo il rituale invito del segretario, mise in allarme il buon Sancho: sarebbe stato un osso duro, anche per i suoi denti. Era una donna volitiva, di circa 40 anni, vestita con colori sgargianti, certo poco consoni alla sua età e alla sua complessione: grassoccia e piuttosto tarchiata. Ma agitati apparivano pure gli altri due, un uomo e una donna, che si fecero avanti dappresso a lei: più giovani nel sembiante e d’aspetto contadino, s’indovinava nella donna una qualche somiglianza con la virago che li aveva preceduti. 

Questa non fece complimenti e aprì bocca immediatamente: «Chiedo giustizia, Eccellenza, contro le soperchierie di questi due che pure sono sangue del mio sangue, perché sono io che li ho messi al mondo, e contro quel furfante di mio marito, pace all’anima sua che nel suo testamento m’ha dato e m’ha tolto. Dico meglio, m’ha lasciato tutti i suoi beni ma ha fatto in modo di complicarmi la vita. Questi due spudorati poi – disse accennando ai due giovani – tentano di togliermi una bella fetta parte di quel ch’è mio per volontà di mio marito ...buon’anima», aggiunse dopo una breve pausa, forse parendole eccessivo l’epiteto di furfante appena rivolto a colui che, a sentir lei, le aveva lasciato “tutti i suoi beni”. «Dite dunque che cosa v’ha lasciato il vostro defunto marito e come vi ha complicato la vita, e che cosa poi il “sangue del vostro sangue”, come dite voi, sta tentando di portarvi via»: così il giudice, che tentava in tal modo di dare un ordine al discorso successivo. Ma l’intento non andò a buon fine perche la donna riprese a divagare.

«Eccellenza, il mio defunto marito mi era molto affezionato, anzi stravedeva per me. Era geloso, sapete?, e non poteva tollerare che altri uomini mi guardassero o mi facessero un po’ di corte. Cose innocenti, intendiamoci, ma insomma mio marito vedeva un rivale in ogni altro uomo che incrociava la nostra vita. Del resto io ho studiato, a differenza di mio marito, e la mia condizione sociale era superiore alla sua; e insomma ci siamo sposati perché mio padre... Insomma, sorvoliamo su tutto questo e veniamo a noi. Il mio defunto marito perciò è morto facendo testamento...». 

«Spiegatemi un po’ – intervenne Sancho, che non voleva rinunciare a sorridere di qualche risvolto faceto nelle lagne che era costretto a sentire –. Se il vostro era già un “defunto marito”, come avete appena detto, com’è che poi venne a morire? Non era morto a sufficienza quando aveva assunto la qualità di “defunto”? Oppure, quando dite “è morto facendo testamento” dite che è passato a miglior vita per la fatica di testare?». La donna, sarà stata pure istruita, dacché “aveva studiato”, ma restò confusa e non seppe che dire. Intuiva, confusamente, che doveva essersi imbrogliata nel discorso, come il suo Garcia le rimproverava spesso. Ma insomma, pensava, quanto sono stupidi gli uomini! Tutti, tutti che s’attaccano alle parole e non capiscono mai quello che uno vuol dire. 

«Insomma – riprese – mio marito nel suo testamento ha scritto, me l’ho imparato a memoria: “a mia moglie la nomino erede di tutti i miei beni, stabile, instabile, mobili, fondi, danaro, diritti, terre, come mi appartengono”. Così ha scritto. Proprio così, parola per parola, glie lo giuro su tutti i santi. E ora questi due, che non ho più il coraggio di chiamare figli, mi dicono che non c’aveva nessuna proprietà: né stabile né instabile, né mobili né fondi, e neppure danaro, diritti o terre che gli appartenevano, e perciò ora a me non mi appartiene niente. Così, dicono». Tacque un attimo e riprese: «Anzi no! Qualcosa mio marito l’aveva, dicono. Poca roba in verità, ma questa roba se la sono presa loro!». «E cioè?» indagò il giudice. «Poca roba, dicevo, ma è pur sempre roba mia: la casa rustica per allevare il bestiame e le quattro corde di terra confinanti con un vallone, oltre alle due stanze che stanno sopra la stalla e due corde di terra a confine con gli eredi Montoya». 

«Bene – intervenne il giudice –. Abbiamo capito che cosa vostro marito v’avrebbe lasciato e che cosa il “sangue del vostro sangue sta cercando di togliervi. Dite ora: come vi ha “complicato la vita”, secondo voi dite?». «Ho detto complicato, ma avrei dovuto dire “amareggiato”. Eccellenza, quel furfante mi ha vietato di riprendere marito. Io già l’ho detto che da vivo era gelosissimo, ma insomma, anche da morto...». «E dunque, che cosa chiedete a questo giudice?» intervenne il segretario. «Chiedo tutti i beni che m’ha lasciato il mio marito defunto e mi piacerebbe potermi sposare di nuovo, visto che ormai sono sola al mondo..., sola come un cane visto che anche i miei figli mi hanno ripudiato!», e nel dir così la voce le si incrinò, tirò fuori un fazzoletto colorato e finse di asciugarsi una lacrima. «Comunque... – aggiunse dopo una pausa, perché facesse effetto il suo lamento di donna sola al mondo – Nel testamento è scritto che devo fare voto di non sposarmi se no perdo tutta l’eredità. Ebbene, Eccellenza, a dimostrazione che amo ancora mio marito anche se è defunto e ancora geloso, ho subito fatto voto solenne davanti al mio curato: quando vuole lo possiamo chiamare a testimonio». Tacque alfine, tutto sommato contenta di aver ben esposto il suo caso.

«Sentiamo adesso l’altra campana – intervenne il giudice – Che cosa avete da dire? Il testamento dice proprio così?»: sembrava infatti al giudice di aver rilevato una nota stonata, ma non riusciva a capire quale. «Eccellenza – rispose il giovane – In effetti, nostro padre nel testamento le assegna i beni che ha detto, ma...». «Sentito, signor giudice? – intervenne la donna – Il vostro tempo è prezioso, Eccellenza. Mandi subito via questo furfante e mi faccia dare l’eredità di mio marito defunto». Ma il giovane intanto completò: «Non crede, Eccellenza, che sarebbe bene leggere quel che c’è scritto nel testamento? Ho qui la copia autenticata dal notaro». «Mi sembra ovvio», replicò il buon Sancho consegnando la scheda al segretario perché la leggesse ad alta voce.

Testamento lografo di me medesimo Pedro Serrano fu Antonio agricolo, figlio e nepote di agricoli, luci­do di mente e capace di testarmi. Della mia intentità personale è certezza a me medesimo e a tuttì che mi canoscono e perciò faccio questo testamento prima che muoio.

Al mio figlio maschio Josè, detto fu Pedro do­po che sarò morto, gli lascio la casa rustica per alleviare il bestiame e le quattro corde di terra, dico quattro (numero 4) confinante con un vallone da un lato, dall’altro e da sotto. Però mi spiego meglio. Mi deve far dire 15 messe lette insino alla morte sua. 

Io a mia figlia Teresa, lascio dono e appadrono a vita le due stanze quadrate sopra la stalla con l’ingresso dalla strata posteriore, e le due corde di terra dico due (numero 2) confinante con gli eredi Montoya da sopra. E le lascio per riconoscenza di affetto e divozione alla mia persona, per serietà di costume e portamento religioso. Essa per mia volontà diventa patrona di tutto quello che io possiedo, tutto incluso e nulla escluso, perché è onesta, amorata, casalina e buona cuciniera. 

A mia moglie che si chiama Dolores per quanti me nà dati, e pure se ma lasciato e se né andata a stare in città, la nomino erede di tutti i miei beni, stabile, instabile, mobili, fondi, danaro, diritti, terre, come mi appartengono, ma per fine che non si ammarita. Mi spiego che può godere di tutti i beni ma prima deve subito fare voto solenne che non si marita più. Se poi si marita, dico si ammarita in chiesa o si tira in casa un’altro uomo e specie suo compare Garcia, lascia tutto come si ratrove e non prende nulla, nemmeno un soldo. Se invece si marita significa che il marito lo fa per l'interesse di avere la proprietà mia, nulla più. Perché anche se si crete gio­vane, essa è vecchia e scoffata. 

Voglio e pretendo solo che sia fatto quello che ho ben spiegato. Dopo che la mia salma è stata esposta e prima di interralla, nella bara speciale coi buchi che mi sono fatto per l’occa­sione dovete metterci due litri d’acqua nel caso che mi sveglio dalla morte apparente, come già mi è successo una volta mentre ero sul letto mortuario, e cioè mi spiego meglio, dopo che la mia salma è stata esposta e prima di interralla, nella bara speciale coi buchi che mi sono fatto per l'occa­sione dovete metterci due litri d’acqua nel caso che mi sveglio dalla morte apparente, come già mi è successo una volta mentre ero sul letto mortuario. E se no perdete tutta l’eredità. 

Mi firmo e sono vostro padre Pedro Serrano fu Antonio da voi tanto amato come spero.

* * *

Mentire, non ha mentito, considerava tra sé il buon Sancho. O almeno non ha detto il falso. Ma la verità è uscita solo parziale dalle parole di questa donna: e, come ormai ho capito, una mezza verità è più parente della menzogna che della verità tutt’intera. Ad es., non ha detto che ha abbandonato marito e figli e se n’è andata in un’altra città, dove quasi certamente convive con questo Garcia, e non ha detto poi che ai due giovani sono stati lasciati per testamento i beni che essi si rifiutano di consegnare. Dunque, restano solo gli altri beni. E di questi chiese conto al giovane.

«Eccellenza – rispose questi – ma chi mai li ha visti questi altri beni? Nostra madre s’è illusa che ve ne siano altri sol perché se n’è andata via 15 anni fa. E perciò ha creduto alle parole del testamento. Mi creda, Eccellenza, oltre ai beni lasciati a mia sorella e a me, ci sono solo debiti. Tutti in paese lo sanno, siamo quasi alla fame, altro che “beni stabili e instabili, mobili, fondi e danaro, diritti e terre». 

Già durante la lettura la donna aveva smaniato e si era trattenuta a stento; adesso, dopo le parole del figlio, era rimasta di sasso: non c’erano altri beni! Quindi sbottò: «Eccellenza, finora avevo taciuto per amore dei miei figli, ai quali avrei comunque lasciato i beni loro assegnati per amor di madre. Ma adesso mi vedo costretta a far valere la volontà di mio marito defunto: nel testamento si chiede di fare dei buchi nella bara prima di seppellirlo, pena la perdita dell’eredità Ebbene, io che non ho potuto partecipare al funerale perché ero fuori paese, mi sono informata col becchino. Eccellenza! Non c’erano buchi nella bara! Quindi questi figli, che pretendono di essere eredi, hanno seppellito il loro padre senza essere sicuri se era vivo o se era morto. Perciò hanno perduto l’eredità, come è stabilito nel testamento. E su questo non transigo!». 

Detto questo tacque perché un gesto deciso del giudice le strozzò in gola il fiume di parole pronto a uscire e, non potendo fare altro, restò in attesa. Il giudice sorrideva sornione, avendo compreso il tiro mancino che il defunto marito aveva giocato alla moglie fedifraga. Volle allora completare la beffa e, consultatosi col segretario, disse.

«Ascoltate le ragioni delle parti, questo giudice così sentenzia. Nel testamento si nomina la moglie “erede di tutti i beni”: questi però sono indicati genericamente, e vanno perciò esclusi quelli specificamente assegnati ai due figli: su di essi la vedova non può perciò accampare diritti. Quanto agli altri beni sui quali la vedova vuol far valere i suoi diritti, essa è libera di farlo, pur non risultando agli atti che altri beni vi siano. In ogni caso, è compito di chi ne afferma l’esistenza darne prova e, se del caso, reclamarne il possesso da chi li detiene. Quel che agli atti risulta, invece, è che la vedova è stata nominata erede e ha poi accettato l’eredità. Pertanto, come erede, è tenuta a pagare i debiti ereditari. Lei sola, visto che i figli non sono stati nominati eredi». Nel dir così, il nostro si volse verso il segretario per averne un cenno di conforto. Avutolo, tacque, godendosi lo spettacolo del pallore sul viso della donna, che con un filo di voce mormorò: «Ma allora...?, niente eredità e niente matrimonio, e in compenso devo pagare i debiti...». Restò poi in silenzio e sarebbe caduta a terra se la figlia, prontamente, non l’avesse sostenuta e poi abbracciata.

Quel gesto di pietà filiale commosse il buon Sancho, che si rammentò di quanto gli aveva raccomandato il suo signore: nel dubbio si attenesse alla misericordia piuttosto che al rigore. In quel caso dubbi non ve n’erano, ma si impietosì lo stesso e disse alla donna. «Riconfortatevi e non piangete. Sappiate che, se non ci sono altri beni, gli eredi sono i vostri figli e sono loro a dover pagare i debiti. Se no..., troppo comodo sarebbe ereditare e non pagare dazio! Quanto al vostro voto di non rimaritarvi, parlate col curato: da questi voti si può ottenere dispensa abbastanza facilmente. Dunque rasserenatevi e andate con Dio». 

La donna uscì al braccio della figlia, il giovane parlava con alcuni conoscenti che si rallegravano con lui per l’esito della causa, il giudice represse a stento uno sbadiglio, ma gli sembrava di aver ben operato quel giorno.

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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