Danni  -  Redazione P&D  -  31/12/2020

Sofferenza morale e danno psichico - Mariagrazia Caruso

Il danno morale soggettivo è la più antica voce di danno non patrimoniale derivante dalla tradizione romanistica; costituisce la voce di più facile individuazione ricomprendente il c.d. “pretium doloris”, inteso come transeunte turbamento soggettivo dello stato d’animo della vittima: un dolore, un disagio, una sofferenza psico-fisica che si manifesta come danno-conseguenza all’evento lesivo appunto di natura transitoria destinata ad essere riassorbita in un breve lasso di tempo senza lasciare conseguenze di tipo patologico, così come viene definito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233/2003. In questo caso si parla di un danno secondario che rende difficoltoso un momento particolare della vita della persona senza comprometterne il prosieguo nei suoi aspetti principali. L’accertamento del danno morale viene comprovato dalla presenza di due elementi, uno oggettivo, il fatto dannoso, il secondo soggettivo, lo stato d’animo negativo conseguente al danno.

Nel nostro ordinamento tradizionalmente la risarcibilità del danno morale era prevista solo se l’evento causa del danno costituiva reato (art. 2059 c.c.); nel 2003 arriva la svolta con le sentenze della Corte di Cassazione (8827-8828) e della Corte Costituzionale n. 233 sopra richiamata ed il danno morale diventa risarcibile, anche se il fatto non costituisce reato, tutte le volte in cui l’evento ha inciso sull’intangibilità degli affetti, la famiglia e sulla libera esplicazione della libertà della persona umana venendo in considerazione quelle forme di danno alla persona per natura diverse dal danno patrimoniale.

Il risarcimento del danno morale viene liquidato dal giudice in via equitativa e non, come avviene per i danni patrimoniali ,per restituito in integrum  in considerazione delle sofferenze patite dall’offeso e di      tutte le circostanze peculiari del caso concreto, dando all’uopo ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni (in termini da ult. Cass. Civ. sez. III n. 9057/2018).

Per utilizzare una espressione del prof. Cendon, il danno morale può farsi rientrare nella categoria del danno abiologico.

Il danno psichico, invece da un punto di vista giuridico, costituisce, un "danno biologico” consistente nella alterazione o soppressione delle facoltà mentali. 

Come è noto il danno biologico, si prospetta come danno alla salute (art. 32 Cost.), una lesione dell’integrità psico-fisica, implicante una valutazione non strettamente medica suscettibile, comunque, di accertamento medico-legale, inteso, però, in senso lato, ben oltre la categoria del danno patrimoniale che sottintende l’attitudine dell’individuo a produrre reddito. 

Secondo un insegnamento risalente e consolidato della medicina-legale. (cfr. da ult. Cass. civ. Civile Ord. Sez. 3 Num. 18056 Anno 2019 dep. il  05/07/2019): “Le conseguenze d'una lesione dell'integrità psicofisica, non aventi ripercussioni patrimoniali, sono quelle che incidono sulla validità dell'individuo”.

La validità dell'individuo è la sua efficienza sociale, ovvero l'idoneità a svolgere una qualsiasi attività - lavorativa o meno - coerente con la sua età, il suo sesso, le sue conoscenze.

Fra le infinite attività che un individuo valido è in grado di svolgere vi è il lavoro produttivo di reddito.

L'idoneità a svolgere un lavoro remunerato è anche definita efficienza lavorativa, la quale si inscrive, come circonferenza di minor raggio, nella generale efficienza sociale di cui s'è appena detto.

Essa è tradizionalmente designata come capacità o abilità, lemmi che etimologicamente esprimono l'idea dell'homo habilis, ovvero dell'individuo in grado di manipolare il mondo esterno per trarne un vantaggio.

Ecco spiegata la ragione per la quale i concetti di validità (biologica) e di capacità (lavorativa) si sono detti, poc'anzi, vincolati da un nesso di implicazione unilaterale: la capacità lavorativa presuppone infatti la, e si fonda sulla, validità biologica, mentre non è vera la reciproca.

Una persona invalida potrà infatti pur sempre conservare una residua capacità di lavoro (si pensi ad un lavoratore sedentario che patisca l'amputazione d'un arto inferiore); mentre una persona divenuta inabile al lavoro, nel senso sopra indicato, è per ciò solo biologicamente invalida.

Tornando al concetto di danno biologico di natura psicologica, o danno psicologico, può ben ritenersi che lo stesso “consiste in una patologia psichica, che insorge dopo un evento traumatico o un logoramento sistemico di una certa entità e di natura dolosa o colposa; che si manifesta attraverso sintomi e che si stabilizzano, a seconda del tipo di evento, in un periodo variabile da uno a due anni” (Pajardi, Macrì, Merzagora Betsos, 2006). 

L’introduzione del danno non patrimoniale e nello specifico del danno biologico di natura psicologica colma le lacune del danno morale che per il suo carattere “transuente” non considera eventuali modificazioni permanenti dell’equilibrio psico-fisico della vittima del reato. 

Sotto altro profilo può certamente evidenziarsi come mentre nel danno biologico di natura psichica è possibile riscontrare un elemento patologico-psichico, nel danno esistenziale si evidenzia un disagio psichico che non sfocia nella malattia. Con la sentenza della Cass. n. 2050/2004 della quarta sezione penale (pres. Olivieri, rel. Brusco) si precisa appunto che il “il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito”

Secondo il recente monito della Suprema Corte il danno psichico costituisce, tuttavia, una “semplice”categoria descrittiva e non giuridica, così come - ad esempio -, se si parlasse di "danno neurologico" o di "danno cardiovascolare" (Cass. Civile Ord. Sez. 3 Num. 18056 Anno 2019 pubblic. Il 05/07/2019).

La nozione di danno psichico, viene citata per la prima volta in materia giuridica con la sentenza del 1986 (Corte Cost. 184/1986) con la definizione di “lesione all’integrità psico-fisica della persona”, che sottolinea non solo la dimensione fisica del soggetto leso, ma anche quella psichica. 

Anche il danno psichico, pertanto, come qualsiasi altra lesione della salute, va accertato in corpore con criteri medico-legali, e va valutato in punti percentuali in base ad un accreditato baréme medico-legale a differenza del danno morale che, ut supra, va liquidato in via equitativa.

“Ove, poi, una lesione della salute psichica venga a cumularsi con un evento stressogeno quale il lutto, spetterà al giudice di merito stabilire in concreto se il dolore causato dalla perdita d'un familiare sia o non sia degenerato in una sindrome di rilievo neurologico: accertamento, quest'ultimo, da compiere con  metodo accurato e scientificamente valido, consistente nel far somministrare al danneggiato adeguati test psicologici; nel sottoporlo a reiterati colloqui con uno specialista psichiatra; e finalmente nel comparare la sintomatologia presentata dalla vittima con le descrizioni nosografiche delle malattie psichiche contenute nei testi scientifici, e principalmente nell'universalmente utilizzato Diagnostic and Statiscal Manual of Mental Disorders, o "DSM-5".

Nel compiere tali operazioni, il giudice di merito ovviamente dovrà astenersi sia dal ritenere che la stima del danno morale causato dalla morte d'un congiunto possa ristorare di per sé anche l'eventuale malattia psichica patita dal superstite; sia - all'opposto - dall'indulgere a frettolose "panpsichiatrizzazioni" d'ogni moto dell'animo, pervenendo a concludere che qualsiasi turbamento costituisca per ciò solo un danno alla salute” (Cass. Civile Ord. Sez. 3 Num. 18056 Anno 2019 pubblic. Il 05/07/2019).

E ancora la persona che, ferita sopravviva quodam tempore, e poi muoia; a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale.

Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarietà quale concetto giuridico.

Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.

Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sé e non il suo patrimonio.

Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):

-  ha fondamento medico legale;

-  consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità;

-  sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente.

Il secondo, invece:

-  non ha fondamento medico legale;

-  consiste in un moto dell'animo;

-  sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.

Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente. 

Naturalmente, una volta accertata la sussistenza di un danno biologico temporaneo provocato da una lesione mortale, esso sarà risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia avuto, dal momento che quel pregiudizio consiste nella oggettiva perdita delle attività quotidiane (Sez. 3 - , Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 2564 del 22/02/2012, Rv. 621706 - 01).

La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, può poi patire, come accennato, un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire.

Questa sofferenza potrà essere multiforme, e potrà consistere nel provare - ad esempio - la paura della morte; l'agonia provocata dalle lesioni; il dispiacere di lasciar sole le persone care; la disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; il tormento di non sapere chi si prenderà cura dei propri familiari, e così via, secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino può riservare al genere umano. Si tratta, insomma, di quel tipo di sofferenza che più e meglio d'ogni giurista seppe descrivere Luigi Pirandello nella celebre novella “Il marito di mia moglie”.

L'esistenza stessa, e non la risarcibilità, del pregiudizio in esame, al contrario del danno alla salute, presuppone che la vittima sia cosciente.

Se la vittima non è consapevole della fine imminente, infatti, non è nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.

In questa seconda ipotesi, poiché il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività cui la vittima si sarebbe dedicata, se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, la durata della sopravvivenza (a differenza di quanto accade per l’invalidità temporanea che deve avere una durata di almeno 24 ore) non è un elemento costitutivo del danno, né incide necessariamente sulla sua gravità.

Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre - al contrario - una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; nonché Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 - 01).

Così, ad esempio, i passeggeri del volo GermanWings, che il 24.3.2015 la lucida follia d'un pilota condusse a schiantarsi sui Pirenei, trascorsero solo sei minuti in cui ebbero la chiara percezione che il velivolo su cui si trovavano stava precipitando, e non v'era scampo: ma nessuno oserebbe negare che il timor panìco da essi provato in quella manciata di minuti non costituisca, per il nostro ordinamento, un danno risarcibile.

Come ribadito da Cass. Civ. 18056 del 5.7.2019 va evidenziato come nella valutazione del danno psichico dovranno tenersi distinti gli aspetti del risarcimento del danno organico (neurologico, cranio-encefalico, fisico), che avvengono tramite l’applicazione di tabelle percentuali, dagli aspetti del danno propriamente psicologici e psicopatologici, quali conseguenze dell’evento traumatizzante in relazione ai quali si pongono le maggiori problematiche essendo di difficile apprezzamento e quantificazione non solo la realtà e l’entità del trauma ma anche e soprattutto la risposta soggettiva.

Infatti, mentre le lesioni “fisiche” sono, in linea di massima di più facile valutazioni, maggiori problematiche comporta la valutazione di quelle psichiche dove, certamente, la soggettività dell’osservato ed anche dell’osservatore non sono eludibili.

Ben note risultano, infatti, agli addetti ai lavori le problematiche connesse a tali tematiche a partire dalla corretta definizione e delimitazione della nozione di disturbo mentale risultando la possibilità stessa di definire le malattie mentali un problema ritenuto dai più irrisolvibile; per altro verso fondamentale risulta, comunque, l’esigenza di “obiettivare”, “etichettare” e “misurare” secondo consolidati schemi nosologici la sintomatologia riferita pur tenendo conto del diverso valore e significato psicolesivo che gli attribuisce il danneggiato.

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Se da un lato la valutazione del danno psichico vede una diatriba storica fra diritto e scienze psichiatriche, dall’altro il diritto deve costantemente confrontarsi con l’evoluzione della cultura sociale in relazione alla sensibilità che la società mostra rispetto a tematiche emergenti: richieste di risarcimento acustico e ambientale, mobbing sul lavoro, errori di natura medico-chirurgica e incidenti stradali, che costituiscono la casistica di risarcimenti più numerosa.

E mentre alcune categorie concettuali vanno compiutamente definendosi in sede giurisprudenziale (per es. per quella del danno esistenziale può ben dirsi con il prof. Cendon che la nottata è certamente passata) si profilano all’orizzonte ulteriori figure di danno di matrice psicoanalitica 

E’ questo certamente il caso del c.d. “dolore sociale”  un termine usato nella ricerca sociale cognitiva, in cui la risonanza magnetica funzionale per immagini (functional Magnetic Resonance Imaging – fMRI – ) ha evidenziato come le stesse regioni cerebrali che vengono attivate durante episodi di dolore fisico siano attive anche nel corso di esperienze in cui i soggetti studiati dicevano di sentirsi rifiutati, ostracizzati o esclusi (Eisenberger et Al, 2006; Eisenberger, Lieberman, 2005; Eisemberger et Al., 2003; Lieberman, Eisenberger, 2005). 

Il termine “dolore sociale” si usa per distinguerlo dal dolore fisico ma soprattutto per sottolinearne il contesto relazionale. 

Di dolore sociale idoneo ad innescare profili risarcitori può senza dubbio parlarsi in tema di mobbing, e tutte le volte in cui possono più genericamente ipotizzarsi vessazioni in ambito lavorativo; vi rientrano certamente le ipotesi di wrongful life, ossia le ipotesi di danno connesse alla vita fetale e in generale le ipotesi connesse a responsabilità professionale medica, nonché le ipotesi connesse alla violazione delle norme in materia di privacy. 

Come per il dolore fisico, le reazioni al dolore sociale conseguenti a situazioni di rifiuto o di esclusione sono automatiche e inconsapevoli scatenando, è assodato, un aumento dell’aggressività e una diminuzione della capacità di controllare gli impulsi: sfuggire ad una intensa sofferenza affettiva, in particolare se derivante da un rifiuto interpersonale, dall’umiliazione o da una perdita insopportabile, è ciò che, secondo Gilligan (1996/2000) sta alla base dei più gravi atti di violenza interpersonale. Gilligan, come Thomas, giunse a questa conclusione dopo anni di lavoro clinico nei penitenziari degli Stati Uniti.

Già Darwin (1872), nei suoi scritti sulle emozioni, prefigura il collegamento che faranno poi i ricercatori dei nostri giorni tra il dolore sociale e le esperienze riferite a vergogna, umiliazione e imbarazzo e così pure tra dolore sociale e risposte fisiologicamente osservabili: rossore, aumento del battito cardiaco, postura  incurvata, sguardo sfuggente, capacità cognitive ridotte.

E però non tutti gli atti di aggressione e di violenza che scaturiscono dal dolore sono rivolti verso l’esterno. Alle volte sono rivolti a se stessi, come chi si procura un taglio per ridurre un dolore sociale insopportabile, o chi recrimina aspramente contro se stesso come risposta al fatto di essere ostracizzato. 

Altre volte, invece, esperienze di dolore sociale e di esperienze determinano l’effetto di imporre il controllo sociale con l’effetto per la vittima di conformarsi con supina rassegnazione.

A prescindere, però, dalle ricadute sociali è evidente come tutte le problematiche sopra esposte relative alla individuazione a quantificazione del danno morale e psichico emergano proprio in ordine a tale tipologia di dolore come sopra descritto con tutte le difficoltà pratiche a ciò connesse in relazione alla possibilità di inserirle all’interno delle categorie presistenti.




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