Pensare lentamente consente, magari d’estate e con qualche affanno in meno, di accorgersi di ciò che ci sta vicino, ma che ignoriamo, o di ciò che ci spaventa, e sopravvalutiamo. Alludo, per un verso, al buon senso dell’uomo della strada, alla necessaria umanizzazione del diritto, che però ci risulta forse anche scomoda; per l’altro, ad alcune allarmanti prese di posizione della giurisprudenza, anche di merito, che sembrano andare nel verso dell’annichilimento della misura della persona, all’annullamento dei suoi valori non patrimoniali.
Non penso, ben inteso, solo allo scivolone dell’ormai superata esperienza buia delle sezioni (dis)unite sull’auspicato appassimento del danno esistenziale (invece vivo e vegeto), ma alla fatica che, ogni giorno, giuristi non dimentichi del senso del loro compito impiegano per farsi ascoltare al di la delle formule dietro le quali invece spesso si nascondono i burocrati del diritto; quelli, per intenderci, che sono responsabili anche del triste tentativo di trasformare il giurista in un contabile dei codici, in una calcolatrice senza memoria (storica) e cultura della persona oltre che del diritto.
Ebbene, questa fatica può risultare più lieve se si scorgono le cose semplici, se si ascolta chi soffre ed implora attenzione senza avere alle calcagna sentenze e codici, se ci si sveste dell’alterigia dello spocchioso avvocato di successo per chiedere al buon senso di parlare, alla coscienza di suggerire. Che cosa? Beh, magari che una portiera non può “costare” più della perdita di facoltà realizzatrici; che una marmitta non può, per quanto elaborata, “valere” più della perdita della falange di una mano (nemmeno se di un dito poco “funzionale” sebbene della mano sinistra in un destrimane ! Notoriamente poco utile!); che le tabelle medico legali per la valutazione dei postumi permanenti non sono state ideate da profeti dotati del tocco dell’infallibilità e che, quand’anche tendenzialmente obiettive, abbisognano di adattamenti meditati e non mediati al bar tra un “Ma la prossima volta mi tratti bene pure tu eh!” o un altro “Questa volta proprio avevo indicazione di essere severissimo, ma la prossima ti accontento, dai!”.
E’ così che lo stesso numero, che pur significa invalidità permanente, e non transeunte, non necessariamente può voler significare sempre la stessa misura di pregiudizio: un trentacinque (per cento) per l’amputazione parziale di un arto non può essere paragonato allo stesso trentacinque che le tabelle assegnano ad un’ipotesi d’incontinenza totale da errore professionale (l’allusione è, anche qui, a casi veri, non supposti). Perché le facoltà realizzatrici che sono pregiudicate definitivamente, nel secondo caso, sono nettamente più numerose di quelle, pur validissime, che si deducono dal primo. E allora, se anche il vostro contraddittore –chiunque esso sia, qualsiasi ruolo rivesta- vi canzonerà, perché non è in grado di fare di più, pensate con l’orgoglio e l’avventatezza di un uomo qualsiasi che, applicando il buon senso, vi darebbe ragione, quella ragione che prima o poi vi sarà concessa, e che solo perché non intesa immediatamente dal sistema non può essere abbandonata.
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“Riflessi e ritorni”– di Nicola TODESCHINI
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Umanizzare il diritto significa non abbandonare mai l’anelito di coraggiosa rilettura delle regole e il loro “calore”, la loro forza di essere indirizzate alla persona, ai suoi bisogni.
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Danno esistenziale, facoltà realizzatrici, tabelle medico legali