La fine di un rapporto di convivenza more uxorio determina una risoluzione non sempre agevole di conflitti patrimoniali.
Pertanto, stante la diffusione dei rapporti c.d. di fatto, è necessario comprendere le sorti delle elargizioni patrimoniali effettuate durante il periodo di convivenza.
Innanzitutto, si premette che la convivenza è stata definita dalla Corte Costituzionale come l’unione tra due persone caratterizzata da stabilità e dalla comunione di vita materiale e spirituale, espressione della libera scelta di non costituire vincoli formali. Ne deriva che la convivenza di fatto può essere costituita da due persone maggiorenni, libere di stato, tra le quali sussista un legame affettivo e di reciproca assistenza morale e materiale, e tra le quali non sussistano legami di parentela, adozione o affinità. Gli interpreti hanno ritenuto che la famiglia di fatto goda di una tutela costituzionale all’art. 2.
Sul fronte della legislazione ordinaria, si rileva che il legislatore è intervenuto nel 2016 (con la legge n. 76) per introdurre il contratto di convivenza, ossia uno strumento che consente alle parti di autoregolamentare gli aspetti sia patrimoniali che personali scaturenti dalla relazione sentimentale.
Tuttavia, proprio quella libertà di non costituire vincoli formali - che è alla base dei rapporti di convivenza - ha determinato l’insuccesso del suddetto contratto, che non viene quasi mai formalizzato.
Stante lo scarso utilizzo dello strumento del contratto di convivenza, è necessario ricavare la disciplina delle elargizioni effettuate durante la convivenza, per poi comprendere in quali casi possano essere restituite.
Per lungo tempo, infatti, le attribuzioni patrimoniali effettuate dal convivente more uxorio sono state ritenute non ripetibili in quanto effettuate in adempimento di un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034 c.c._
Un tanto trova fondamento nella circostanza che tali obbligazioni costituiscono l’adempimento di quei doveri di solidarietà e assistenza reciproca sanciti all’art. 2 Cost. e caratterizzati da una dimensione prettamente morale, con la conseguenza che se il debitore, da un lato, non è tenuto ad eseguire la prestazione, dall’altro, qualora decida spontaneamente di eseguirla non può chiederne la restituzione.
Sul punto, si sono registrate diverse pronunce in cui la giurisprudenza di legittimità aveva motivato che “le unioni di fatto, nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale si associa l'assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono, costituiscano il terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l'effetto della "soluti retentio", così come previsto dall'art. 2034 c.c.” (Cass. Civ., Sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277).
Tuttavia, tale impostazione presenta innumerevoli profili di criticità laddove le attribuzioni patrimoniali siano ingenti perché causano uno squilibrio. Pertanto, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale più recente ha precisato che le elargizioni effettuate da un convivente in favore dell’altro configurano l’adempimento di un’obbligazione naturale soltanto a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens poiché, in caso contrario, si verificherebbe un arricchimento ingiustificato.
In tale direzione, l’orientamento giurisprudenziale oggi prevalente ritiene che “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e adeguatezza” (ex multis, Cass. Civ., Sez. III, Ord., 12 giugno 2020, n. 11303; Cass. Civ., Sez. III, Ord., 7 giugno 2018, n. 14732).
Facendo buon governo dei principi enucleati dalla Suprema Corte, deve ritenersi che, in tema di restituzione delle spese effettuate da un convivente in favore dell’altro, sia necessario innanzitutto distinguere le spese ordinarie dalle spese straordinarie.
Le spese ordinarie, infatti, sostenute per il normale vivere domestico, non sono oggetto di restituzione poiché anche per le coppie di fatto sussiste quel dovere di solidarietà che impone ai conviventi di provvedere ai bisogni comuni (e dell’altro) in proporzione alle proprie capacità economiche, con la conseguenza che le suddette elargizioni costituirebbero una donazione ovvero un adempimento di un’obbligazione naturale, in entrambi i casi non ripetibili. Costituiscono un esempio di spese ordinarie le bollette, l’affitto, la spesa quotidiana nonché le spese inerenti la manutenzione della casa.
In relazione, invece, alle spese straordinarie di ingente valore (ad es. il versamento sul conto corrente di un’ingente somma di denaro), le quali esulano dal normale dovere di contribuzione, deve ritenersi che l’ex convivente debba restituirle all’altro se non sono state oggetto di una specifica donazione.
Tali spese, infatti, per la loro natura sono estranee alle necessità familiari e, pertanto, vanno restituite.
La questione si complica ulteriormente quando si tratta di procedere alla divisione di un immobile di cui gli ex conviventi risultano comproprietari.
Accade di sovente nella prassi che uno dei due comproprietari abbia offerto un apporto maggiore nel momento dell’acquisto dell’immobile ovvero per il pagamento delle rate del mutuo ed è opportuno verificare se questi possa chiedere all’altro la restituzione degli importi versati in eccesso.
Sul punto si sono registrate pronunce della giurisprudenza di merito tese a qualificare la suddetta fattispecie come donazione fondata sul generale dovere di contribuzione che deriva dal rapporto di convivenza ma tale ricostruzione è stata recentemente smentita dalla giurisprudenza di legittimità.
Non solo. In alcuni casi la giurisprudenza di merito ha qualificato come adempimento di un’obbligazione naturale le spese sostenute da uno solo dei conviventi per la ristrutturazione di immobili di proprietà del partner, in quanto tale non ripetibile laddove non vi sia la prova dell’intesa raggiunta dalle parti in ordine all’obbligo di restituzione (il riferimento è a Corte d’Appello di Bari, sentenza dell’11 ottobre 2022).
I giudici della Suprema Corte, a contrariis, hanno motivato che, nelle ipotesi in cui gli oneri per l’acquisto dell’immobile o per il pagamento del mutuo siano stati sostenuti in modo maggiore da parte di uno dei due comproprietari, andrebbe provato l’animus donandi perché la convivenza di per sé non costituisce un elemento idoneo a giustificare il maggiore apporto - al momento dell’acquisto o al momento del pagamento delle rate del mutuo - per spirito di liberalità.
L’obbligazione solidale, infatti, alla luce dell’art. 1298 c.c. e se non risulta diversamente, va divisa in parti uguali nei rapporti interni tra condebitori, con la conseguenza che il coobbligato che ha pagato l’intero è titolare del diritto di ripetere dall’altro la metà di quanto pagato al comune creditore (Cass. Civ., Sez. II, Ord., 14 luglio 2021, n. 20062).
Concludendo, nonostante le coppie di fatto siano caratterizzate dalla volontà di non costituire vincoli giuridici, il venir meno della convivenza comporta importanti conseguenze patrimoniali che necessitano di trovare una regolamentazione secondo i principi di diritto comune. A tal fine, è di cristallina evidenza che nel corso degli anni è stato scardinato l'orientamento giurisprudenziale che riteneva non ripetibile qualsiasi elargizione patrimoniale effettuata durante il periodo di convivenza poiché riconducibile allo schema della donazione o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. Ad oggi, invece, la giurisprudenza più accorta distingue le elargizioni ordinarie - ossia effettuate nell'ambito del ménage familiare, le quali non saranno oggetto di restituzione - dalle elargizioni straordinarie, che, per la loro caratteristica di travalicare i limiti di proporzionalità e adeguatezza, costituiscono un arricchimento ingiustificato e vanno pertanto restituite.