Letteratura  -  Redazione P&D  -  11/10/2024

La misiura è colma - La quasi favola giuridica di Amalio Estremio (anche in difesa di Ciccio Gazza)

1. La vita di Amalio

Una calda mattina dell’estate 2024, Amalio si svegliò da un sonno agitato. Era stata una notte convulsa: norme, opinioni e pronunce si erano dimenate senza sosta nel povero giovane, aspirante magistrato e aspirante accademico. Tale dualismo aveva condotto i suoi amici a ribattezzarlo l’“Eroe dei due immondi” per ragioni che si chiariranno di qui a un attimo. 

Il tapino aveva appena finito di scrivere la tesi di dottorato, con discreta soddisfazione. Con minore soddisfazione, si era rimmerso nella irrespirabile aria agostana a studiare, in vista degli scritti del concorso in magistratura. Le prove erano state fissate la seconda settimana di settembre. 

Il primo pensiero di Amalio, destatosi in un letto di sudore, fu dedicato alla ottima salute di cui avrebbero dovuto godere i dirigenti e i funzionari dell’Ufficio concorsi del Ministero della Giustizia, nel frattempo verosimilmente in vacanza, assieme a buona parte dei futuri, eventuali colleghi magistrati. Con il concorso tenutosi a gennaio 2024, l’Ufficio concorsi aveva già dato il suo “Santo Natale” ai concorsisti. Con quello di settembre 2024, aveva offerto loro un tour letto-scrivania indimenticabile. 

Amalio non poteva capacitarsi di come la Magistratura spendesse fiumi di pronunce sul danno non patrimoniale, declinandolo nei modi più fantasiosi, ma tacesse sulle condizioni di salute dei miseri aspiranti magistrati, dovute al concorso stesso.

Sotto una doccia fresca, Amalio corse con la mente al suo amico e collega Beppino, che aveva rinunciato all’abbonamento allo stadio per un abbonamento dallo psicologo, a causa di ansia e depressione; all’amica Gilda, una volta conosciuta come Madame 30 per la sua riconosciuta eccellenza nel percorso universitario e oggi meglio nota come Madame 3, per il numero di bocciature inspiegabilmente già collezionate; al collega universitario Magnolio, dapprima il signor Nessuno dei corsi universitari, studioso mediano se non mediocre, poi divenuto Miracleman per un 12-12-12 che si colloca solo su una certa ruota della fortuna.

Eppure, pensava il nostro Eroe, «anche i Magistrati di oggi furono i tapini di ieri. Si può diventare maestri nella gestione tecnica di sopravvenienze normative e fattuali; forse, però, non è altrettanto agevole avere a che fare con le sopravvenienze esistenziali... La memoria è corta».

Sfortunatamente, il tempo correva: impossibile concedersi troppo tempo a pensare. Così, Amalio, già tornato a sudare, si mise in mutande (non tutti gli aspiranti magistrati potevano permettersi l’aria condizionata a casa) e si sedette alla scrivania della sua cameretta; anche Amalio, come buona parte degli aspiranti magistrati, era ancora costretto dalla necessità economica a vivere nei luoghi dell’infanzia. Meccanicamente, accese il pc e verificò se non vi fosse una qualche straordinaria ed epocale novità giurisprudenziale; come quasi tutte le mattine, uno sbadiglio chiuse la prima fase del lavoro. 

2. Nessuno tocchi Ciccio

La pigrizia passò di colpo quando notò, navigando su internet, dei curiosi attacchi a uno dei suoi Maestri di diritto e di vita. Amalio lo chiamava con devozione e affetto Ciccio Gazza, come egli stesso soleva appellarsi in alcuni scritti minori, ma di non minore spessore. Il Manuale di Ciccio era stato per Amalio un compagno di viaggio insostituibile nella vita recente. Le Prefazioni avevano destato in lui un senso di ribellione e Giustizia che, a causa del torpore mediamente presente nei flaccidi accademici di oggi, era quasi morto nel corso degli studi universitari e postuniversitari. Lo stile dei Capitoli, a tratti ermetico, a tratti pungente, aveva riacceso una curiosità per il diritto civile ormai sbiadita. 

La complessità del Manuale fu croce e delizia di Amalio; dall’Opera, egli credeva di aver tratto alcuni insegnamenti, da valorizzare in qualsiasi percorso professionale avesse intrapreso. Il primo fu l’umiltà: non pensare mai di aver capito fino in fondo qualcosa, perché, ad ogni rilettura, si capiva di non aver capito abbastanza la volta precedente. Il secondo fu la dialettica: si doveva dar conto della tesi contraria alla propria, motivando la critica; ciò persino con un solo periodo, il che rendeva indubitabilmente lo studio del Manuale difficile, talvolta bisognoso di ricerca e approfondimento nelle fonti indicate e, per tutto ciò, formativo. Il terzo fu il coraggio: un’opinione minoritaria non era un’opinione di serie B e, quand’anche isolata, manteneva dignità scientifica, se argomentata adeguatamente.

La riverenza di Amalio, autoproclamatosi il 26esimo lettore di Ciccio, era tale da indurlo a sospendere per qualche ora lo studio “ufficiale”. Iniziò così un viaggio parallelo, che lo condusse, anche nelle settimane successive, a meditare sulle plurime tappe della curiosa vicenda. 

A proposito della vicenda, in realtà, Amalio fu sin da subito profondamente colpito dall’entità della questione e degli argomenti utilizzati. Un amico, già magistrato, gli disse che sulle chat dei Magistrati circolava la foto di una sola (!) pagina del Manuale; che si additava Ciccio di essere il più cattivo dei cattivi, retrogrado e irrispettoso, specie verso il gentil sesso (se ancora così si può dire); che Egli non citava sufficienti sentenze, ma una sola Nota a sentenza per argomentare il passo (quasi) incriminato; che, con queste premesse, dovesse essere ostracizzato, se non Ciccio stesso, almeno il suo Manuale.

Nel corso dei giorni successivi, quando il batacchio della campana delle 20 segnava metaforicamente la fine del prosciugamento da caldo afoso, Amalio si alimentava di pane e polemiche. Leggeva con la consueta ammirazione le acute repliche di Ciccio a interventi vari di Magistrati - alcuni cortesi, con eleganza meneghina, e altri assai meno cortesi, quasi ululati, stilisticamente dubbi. 

Più Amalio leggeva, maggiore sdegno maturava. Mentre Ciccio si divertiva a difendersi, come suo solito, da attacchi più o meno gravi, Amalio trovava gusto a difenderlo in chiacchierate con colleghi di studio, accademici, magistrati e aspiranti tali. Se non avesse dovuto sostenere quelle benedette prove scritte, avrebbe probabilmente scritto qualcosina, un pezzullino, ma pensò di rinviare l’occasione al tempo successivo al temuto concorso. 

La speranza era trovare un commentatore che dicesse l’unica cosa da dire: non si può giudicare un’Opera da un inciso di una pagina. Questa omissione, pensava Amalio, dava ragione a Ciccio Gazza su tutta la linea: nessuno dei Magistrati più o meno indignati aveva letto (o capito) granché dell’Opera.

I riferimenti alle sentenze criticabili erano tantissimi e, ovviamente, si trovavano nella Parte dedicata alla famiglia e alla filiazione. Era impensabile che Ciccio si mettesse a indicare tutti i numeretti, a mo’ di contabile aziendale.

Per altro, fuori del Manuale, persino un aspirante magistrato che non si fosse limitato a masticare massime (da sputacchiare qua e là all’occorrenza) sarebbe stato in grado di scorgere alcune anomalie negli obiter dicta della giurisprudenza più recente. Amalio si ricordò così, per caso, della recente sent. Cass. S.U. n. 35383/2023; credeva di aver letto, al punto 6.4 di un considerato in diritto decisamente verboso e stracolmo di richiami a principii di ogni sorta: «costantemente si ripresenta, soprattutto nella materia del diritto di famiglia, l’esigenza che la giurisprudenza si faccia carico dell’evoluzione del costume sociale nella interpretazione della nozione di “famiglia”, concetto caratterizzato da una commistione intrinseca di “fatto e diritto”, e nell’interpretazione dei vari modelli familiari». Se il concetto in sé aveva già accresciuto i dubbi di Amalio sul ruolo della giurisprudenza in tema familiare, l’iniziale avverbio “soprattutto” l’aveva persino fatto sussultare. Fin dove avrebbe potuto spingersi il giudice in diritto civile? Allora, pensò, non esagerava Ciccio Gazza. Forse una lettura attenta del Manuale, specie in relazione all’applicazione diretta dei principii costituzionali (trattata in diversi punti dell’Opera), avrebbe condotto la Consigliera Est.[ensora?] (così in chiusura di sentenza) a riflessioni diverse – sempre che tale obiter fosse realmente necessario ai fini della decisione. 

3. Mirabilie dell’accesso alla magistratura

Sennonché Amalio, reduce da anni di ricerca, si era ormai abituato a un certo modo di discutere dei giorni presenti: spesso superficiale e attento, per lo più, alla salvezza del quieto vivere. Sull’esempio del mitico Ciccio, decise di compiere un atto “eversivo”. Si disinteressò del concorso in magistratura, che aveva prosciugato del tutto le risorse intellettuali e idriche del poveretto troppo in anticipo rispetto alla metà di settembre; si mise un costume da bagno (vincendo, per la cronaca, quel giorno stesso il concorso per il bagnante più catarifrangente della spiaggia); così, si mise a riflettere.

L’occasione fu una chiamata di Uguccio, che, per sua fortuna, faceva l’ingegnere. Esordì dicendo: «Come se la passa il nostro Eroe dei due immondi?». Come ogni persona con la sciagura della puntigliosità, Amalio rimase in silenzio nel ripensare alla domanda, con sommo dispetto di Uguccio, che quasi subito riattaccò.

Come se la passava? Perché “dei due immondi”? Amalio cominciò a spaziare con il pensiero. 

La prima tappa fu il concorso in magistratura, a partire dall’accesso allo stesso. Lo sventurato Amalio apparteneva a una delle generazioni condannate a buttare due anni di vita per l’ottusità del legislatore: per anni, infatti, l’accesso era stato subordinato al possesso di un titolo ulteriore rispetto alla laurea, che comportava, in media, la spendita (qualcuno avrebbe detto perdita) del biennio. Amalio, che era stato uno studente di una prestigiosa università con media voti prossima al 30, scelse la strada del tirocinio ex art. 73 d.l. n. 69/2013, conv. con mod. dalla l. n. 98/2013. Il tirocinio gli donò quantomeno la possibilità di conoscere un Giudice eccezionale e a cui rimase affettuosamente legato. 

Poco dopo la fine di tale esperienza, il legislatore eliminò la necessità del titolo ulteriore, aprendo il concorso a tutti i laureati. Naturalmente, non valorizzò in alcun modo quei titoli di accesso che, fino al giorno prima, avevano forse una minima importanza. Così, Amalio, ormai persi due anni di studio pieno, cominciò a interrogarsi sul silenzio che, nella magistratura, aveva accompagnato la riforma. Fu spiazzato nel constatare che, forse, la calma era frutto di un certo egoismo della categoria, che rispondeva alla logica “a me (ormai) non tocca”. 

Nel frattempo, spinto da alcuni amici e dai consigli di molti, Amalio s’informò sull’esistenza di cd. corsi di preparazione al concorso in magistratura. D’un colpo, il nostro Eroe si catapultò nei ricordi infantili e pensò a quando il nonno, contadino, lo portava con sé al mercato delle vacche: “guarda, figliolo, com’è grassa quella vacca! E quella lì, benché magrolina, come muggisce bene… è in ottima salute! Eppure, figliolo, devi star attento ai prezzi… le vacche di oggi costano assai di più di trent’anni fa! All’epoca, al massimo si vendeva una vacca, ma buona e a prezzo accessibile! Oggi, invece, le cose vanno diversamente…”. 

Tutti gli insegnamenti del nonno balenarono alla mente del povero (in tutti i sensi) Amalio. Non era facile permettersi una formazione post-universitaria tanto esosa, a meno di non essere figli della migliore società. Il quadro offriva uno scenario incerto: un chiaroscuro, ove si ponevano in contrasto la tenera generosità dei formatori, che perdevano tempo e salute per dedicarsi ai loro (talvolta) migliaia di allievi, e la loro avidità. Il tutto era adornato da autoproclamati “manuali”, questi sì una sorta di bignami (quanto meno per chi avesse speso qualche tempo su monografie e trattati seri), nonché da raccolte di leggi e codicilli. Tuttavia, pensò Amalio, non era possibile che la magistratura tacesse su un sistema così iniquo. In specie, non era possibile che alcuni gruppi della magistratura, tanto sensibili alle esigenze sociali nelle loro sentenze, fossero tanto disattenti. Men che meno era possibile che i magistrati più giovani, passati per quel mercato delle vacche, si fossero d’improvviso dimenticati, come per magia, della sensazione di disgusto che ispirava l’odore di quelle stalle. Anche in tal caso, invece, si stupì. Il quieto vivere aveva prevalso, ancora una volta; proposte e propostine si rimpallavano qua e là, ma nulla mutava. Amalio cominciò a dubitare sempre più della bontà d’animo della gran parte della magistratura.

Tuttavia, Amalio credeva in un sogno più elevato. La Giustizia era il suo obbiettivo. Così, fu risoluto e iniziò a studiare. A dispetto degli sforzi, fu bocciato la prima volta, sicuramente per demerito; lui non aveva dubbi. Invece, nutriva molti dubbi sulla bontà di altre bocciature illustri. 

Il primo pensiero andò a Gilda, l’ex Madame 30, che aveva ricevuto voti altissimi in due materie su tre. Spesso, i cd. formatori post-universitari avevano affermato che la promozione dipendeva, oltre che dalle conoscenze, soprattutto dalla linearità logica e dalla forma quanto più semplice possibile. Tuttavia, se ciò era vero, Amalio si chiedeva come Gilda potesse essere una eccellente studiosa, con ottima capacità argomentativa, per due giorni di prove, mentre il terzo giorno si risvegliasse con un discreto tasso di ignoranza e analfabetismo. Da moltissimi magistrati amici, Amalio aveva sentito dire che almeno una traccia su tre era loro ignota: ciò suggeriva che la (mancata) conoscenza di un argomento non avrebbe dovuto essere il vero scoglio e che il concorso, almeno tendenzialmente, avrebbe dovuto accertare l’acquisizione di metodologie varie (formali, ermeneutiche, etc.).

Tale modo di pensare, per altro, era stato fatto proprio, in sostanza, da una sentenza illuminata del Consiglio di Stato del 2023, n. 6216; naturalmente, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 19253/2024) rigettò prontamente le tesi con le solite formulette pigre, che dissimulavano, più che altro, una logica corporativistica di difesa dei magistrati componenti di commissione. Ad esempio, Amalio si chiedeva se l’illustre estensore credesse davvero che “[l’] assegnazione del voto numerico o [la] mera valutazione d’inidoneità […] consente al candidato di comprendere appieno i motivi e al giudice di ricostruire l’iter logico che ha condotto la commissione ad attribuire quel voto”. Sul punto, i pensieri di Amalio sarebbero tornati a breve. 

In effetti, pensò Amalio, il concorso in magistratura non dava massima prova di trasparenza. Troppi episodi gli ronzavano per la testa. I fatti di cronaca lo lasciavano allibito (per tutti, il caso del concorso a 500 posti, bandito nel 2021, che aveva visto finire sotto processo un commissario e un candidato, il quale candidato aveva a disposizione i contatti di ben due commissari, ma aveva inviato copia della cd. brutta al commissario sbagliato). A tal proposito, la (nuova) prassi concorsuale di lasciar portare le cd. brutte degli elaborati dei candidati a casa, dopo la prova, lasciava Amalio anche più perplesso: possibile che nessun commissario avesse pensato che un qualsiasi segno di riconoscimento, valutato dai tre componenti di un collegio, sarebbe stato poca roba rispetto alla possibile consegna dell’elaborato in brutta, per mano o via mail (una volta scannerizzato), a un commissario compiacente? Era davvero tanto difficile comprendere che, in tal modo, si rendeva possibile un riconoscimento tout court di grafia, struttura del tema, etc.? D’altronde, questo rischio sembrava già essersi concretizzato nella vicenda del concorso a 500 posti, bandito nel 2021: historia magistra vitae… sed non omnibus. Infine, che dire dell’assoluta inconsistenza dei verbali delle sedute di correzione? Essi si riducevano per lo più a un surrogato del cartellino di presenza, indicando, specie nelle sedute successive alle prime, solo i presenti, con l’orario di inizio e di fine dei lavori. Tanto sarebbe valso non redigerli, se non altro per non far spendere soldi inutili a quanti, miserabili e miserevoli, intendessero esperire un (inutile) accesso documentale. Anche su questo punto, Amalio sarebbe tornato col pensiero dopo poco.

Le parole di Ciccio Gazza sugli “stampellati” confortavano oltremodo l’idea di un vulnus di trasparenza: un candidato, a cui era stato preferito uno “stampellato”, aveva pur diritto a riconoscere il proprio grado di storpio inguaribile? Un cittadino, giudicato da uno “stampellato”, aveva pur diritto di conoscere la qualità in entrata del proprio giudice, quanto meno per capire, a monte, la misura della discrezionalità riconosciuta alle commissioni di concorso? 

Per non parlare, poi, delle anomalie che si verificavano in sede concorsuale e che, in assenza di qualsiasi strumento elettronico di registrazione, non potevano essere provate: d’altronde, per il diritto, ciò che non si prova non esiste. A tacer d’altro, poteva accadere, nel maggio 2023, che una Presidente di commissione avesse la premura di usare il microfono in modo particolare, nel corso della prova di amministrativo: segnalò che la Commissione metteva a disposizione di tutti i candidati (non già “dei Codici aggiornati”, ma) specificamente una legge, potenzialmente utile allo svolgimento della traccia di diritto amministrativo - legge magari ignota fino a quel momento a qualche candidato - alterando così la par condicio e la concorrenza tra i candidati stessi. 

Tutto ciò induceva Amalio a credere sempre meno nella bontà della procedura concorsuale congegnata in tal modo. Come Amalio iniziò a pensare di lì a poco, fuor di formulette pigre, un candidato bocciato non avrebbe mai potuto sapere cosa fosse passato nella mente dei componenti dei propri valutatori. Per contro, un bocciato avrebbe potuto giudicare egli stesso la qualità dei valutatori, una volta fatto accesso agli elaborati degli idonei. 

Amalio, ad esempio, rimase senza parole quando scoprì, istruttivamente, che i contratti reali fossero “[…] una delle plurime modalità di esercizio del diritto di proprietà, diritto fondamentale che trova tutela nell’articolo 42 Cost., art. 17 Carta di Nizza, art. 17 Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, art. 1 Protocollo addizionale alla Cedu. Sono così denominati perché hanno ad oggetto una res, una cosa, un bene, così come definito dall'articolo 810 c.c.”. Non poté che commuoversi al pensiero che l’estratto citato aprisse un tema giudicato sufficiente (12/20) niente poco di meno che dalla Commissione in seduta plenaria, essendo tra i primissimi elaborati corretti del concorso bandito nel 2022 (candidato n. 6). La perla di conoscenza non fu, per altro, l’unica a essere scovata, essendo Amalio affetto da una curiosità ossessiva, anche per dare un qualche senso all’accesso documentale profumatamente pagato. Purtroppo, la curiosità fu “unilaterale”, non avendo avuto accesso ai compiti dei candidati comparativamente giudicati inidonei, a fronte dei quali la Commissione aveva preferito i futuri illustri togati. Ad ogni modo, di queste testimonianze di cultura giuridica e di sensibilità dei valutatori, Amalio fece tesoro, a fronte della propria incultura, che lo aveva giustamente condotto a bocciatura.

3.1 Chi sa, davvero, come avvengono le correzioni del concorso?

Con questi pensieri, Amalio cominciò a corrucciarsi. In verità, c’era ancora una cosa che non gli tornava. Per abitudine, si mise a sfogliare la disciplina normativa delle modalità di correzione del concorso in magistratura. Con un po’ di pazienza, che si spera vorrà prestare anche il lettore, notò dei particolari interessanti sul modo in cui devono essere organizzati i lavori delle Commissioni. 

L’art. 5 d.lgs. 160/2006, al co. 6, stabilisce che il Presidente della Commissione forma per ogni seduta due sottocommissioni, a ciascuna delle quali assegna, secondo criteri obiettivi, la metà dei candidati da esaminare. Per la valutazione degli elaborati scritti il Presidente suddivide ciascuna sottocommissione in tre collegi, composti ciascuno di almeno tre componenti. Al co. 7, è stabilito che ai collegi ed a ciascuna sottocommissione si applicano, per quanto non diversamente disciplinato, le disposizioni dettate per le sottocommissioni e la commissione dagli articoli 12, 13 e 16 del R.D. n. 1860/1925, e successive modificazioni. 

Procedendo con ordine, il rinvio all’art. 12 R.D. n. 1860/1925 è d’importanza centrale ai fini della valutazione delle prove scritte. Al co. 3, è previsto che la Commissione legge, nella medesima seduta, i temi di ciascun candidato e, dopo avere ultimato la lettura dei tre elaborati, assegna contemporaneamente a ciascuno di essi il relativo punteggio secondo le norme indicate nell'art. 16 R.D. n. 1860/1925 e nell'art. 1 d.lgs. n. 974/1947. Quest’ultimo rinvio ha importanza relativa, escludendo le valutazioni per frazioni di punto. 

Il rinvio all’art. 16 R.D. cit., invece, è di rilievo. Al co. 2, è stabilito che, prima dell'assegnazione dei punti, la Commissione o Sottocommissione delibera per ciascuna prova, a maggioranza di voti, se il candidato meriti di ottenere il minimo richiesto per l'approvazione. Nell’affermativa, ciascun commissario dichiara quanti punti intenda assegnare al candidato.

La disposizione citata va coordinata con l’art. 12 co. 4 R.D. cit.: nel caso in cui la Commissione sia divisa in Sottocommissioni, queste nella medesima seduta procedono all'esame dei tre lavori di ciascun candidato e, ultimata la lettura degli elaborati, si riuniscono per la comunicazione delle rispettive valutazioni. Subito dopo ogni Sottocommissione assegna ai lavori da essa esaminati il punteggio secondo le norme indicate nel precedente comma.

Se nella votazione si registrano dei dissensi, la Commissione si riunisce in seduta plenaria. Quest’ultima, ai sensi dell’art. 12 ult. co. R.D. cit., delibera definitivamente sulla idoneità o non idoneità di un candidato, quando la deliberazione della Sottocommissione sia stata presa a maggioranza e il commissario dissenziente richieda la deliberazione plenaria.

A fronte di questa caotica disciplina, Amalio notò una stravaganza: si doveva procedere ad assegnazione dei punti solo a seguito della discussione all’interno della (Sotto)commissione. Perché mai, pensò, l’assegnazione del punteggio non seguiva immediatamente la lettura dell’elaborato, ma doveva seguire la riunione dei collegi e la discussione? Cosa poteva sapere un collegio della bontà dei temi che non aveva letto? Nessuna regola, per altro, vincolava i componenti di un collegio a esprimersi in ordine all’idoneità solo dei temi letti, sicché ben avrebbe potuto formarsi una maggioranza obliqua – anche perché non sussisteva alcun regime di trasparenza sulle deliberazioni di idoneità. 

La più semplice ragionevolezza avrebbe imposto prima di assegnare i punti, lasciando traccia, e, poi, di discutere, in caso di dissonanza di valutazioni, sulla idoneità complessiva o meno del candidato, magari rileggendo tutti gli elaborati. Ciò, se non altro, per offrire ai candidati contezza dei propri meriti e demeriti nelle singole materie.  

Persino nelle scuole dell’obbligo, sempre più lontane nel vissuto di Amalio, funzionava così: il docente dava i voti alle prove svolte nel corso del quadrimestre; presentava i voti al Collegio dei docenti alla fine del quadrimestre; quindi, il collegio valutava i voti attribuiti da ciascun docente, senza impensabili ingerenze, ad esempio, del docente di latino nel merito dei voti già attribuiti dal docente di matematica; solo se si constatava un certo numero d’insufficienze (già attribuite), si procedeva a bocciatura. La logica basilare che valeva per una scuola, anche elementare, non valeva per il concorso in magistratura.

La riunione preventiva, in effetti, offriva uno spazio di arbitrio, più che di discrezionalità tecnica, alle Sottocommissioni, tale da lasciar capire finalmente l’esistenza dei cd. “stampellati”, di cui aveva offerto una testimonianza il sempre più mitico Ciccio Gazza (e da sempre immaginati esistenti, in verità). Se gli “stampellati” rappresentavano il rischio tutto sommato positivo (almeno per il fortunato) di tale arbitrio, nulla escludeva la possibile sussistenza di rischi negativi, con inidoneità più o meno ingiuste. In quello spazio, la direttrice della valutazione poteva ben essere la più disparata, al di là del merito dell’elaborato del singolo candidato.

In primo luogo, si poteva legittimare la prassi del criterio meramente statistico: ad es., deve passare un candidato ogni dieci per essere coerenti, all’esito delle correzioni, con il numero dei posti messi a concorso. In secondo luogo, l’idoneità di un candidato poteva dipendere dal potere d’influenza dei diversi collegi o del parere autorevole di un autorevole Presidente. Magari, ancora, l’inidoneità poteva dipendere dalla poca tenacia del commissario dissenziente, il quale, più che convocare la Commissione plenaria ad ogni contrasto in ordine alla idoneità/inidoneità del candidato, poteva limitarsi a proporre di assegnare un voto assai alto al compito da lui scrutinato, accettando l’inidoneità nei compiti residui: un contentino per il candidato non idoneo, ma nemmeno troppo inidoneo. Di questi ultimi casi, che a qualche lettore prevenuto potrebbero sembrare rarità, vi era una sintomatica abbondanza nelle griglie di risultati degli scritti, affissi al Ministero. 

Naturalmente, si trattava di mere supposizioni; di tutto ciò non compariva alcunché negli snellissimi verbali cartacei, la cui esistenza, così configurata, contrastava non poco con la sensibilità giurisprudenziale green dei tempi recenti - a tacer dell’elusione dei principii di buona amministrazione. Ciò costituiva un vero peccato, perché Amalio aveva ansia di trovare smentite a tutti questi suoi pensieri. Se non altro, secondo l’autorevole sentenza della Cassazione a Sezioni unite, sopra ricordata, il candidato escluso avrebbe ben potuto dedurre da un NI (non idoneo) tutto l’occorrente. Forse, pensò Amalio, il candidato avrebbe dovuto avere la sensibilità di un giudice Cassazionista. 

Tutto normale? In verità, ad Amalio sembrava sempre meno. D’un tratto, cominciò a ribollirgli il sangue, soprattutto all’idea che la povera Gilda fosse stata vittima di qualche logica burocratica meno chiara; chissà quanti altri come lei... 

3.2 Verbalizzare poco conviene alla Commissione? 

Amalio pensò pure che la mancata indicazione di tali informazioni sui verbali potesse costituire un problema anche per gli stessi Commissari. 

Sotto il sole che finalmente cominciava a calare, si ricordò di quando, un giorno, a tavola, suo nonno lo prese da parte e disse: «Figliolo, una cosa è una melanzana, una cosa è un cavolo! Distinguere è fondamentale! Altrimenti, si finisce come la nonna, che si ostina a voler fare la parmigiana di cavolo!». Le conoscenze del nonno tornavano utili anche al di fuori dell’amato contesto bucolico. 

Così, ad Amalio balzò in testa una delle tante, inutili acquisizioni degli anni di studio: le esigenze del diritto amministrativo e quelle del diritto penale possono non coincidere. L’esigenza di trasparenza, magari soddisfatta (virtualmente) con scarni verbaletti e con la criptica motivazione alfanumerica, non poteva essere confusa con la tutela penalistica della fede pubblica (se non proprio del concreto interesse alla conoscenza del misero candidato).

I pensieri di Amalio cominciarono a farsi stranamente tecnici. Un P.M. poco tranquillo avrebbe potuto ipotizzare una falsità ideologica in atto pubblico per omissione, ex art. 479 c.p. Infatti, per i lavori iniziati dal 23/06/2023 (data di entrata in vigore della modifica all’art. 5 co. 3 d.lgs. 160/2006), le Commissioni avrebbero potuto avere un pensiero in più. 

Da un lato, la giurisprudenza riconosceva espressamente discrezionalità tecnica alla Commissione del concorso in magistratura, sulla base dell’art. 5 co. 3 d.lgs. 160/2006, già nella formulazione anteriore alla novella (emblematica Cass. S.U. n. 19253/2024). 

Dall’altro, tuttavia, la novella aveva, per così dire, ridotto tale discrezionalità tecnica. Prima della novella, la Commissione era pienamente libera di decidere a quali criteri di correzione attenersi. Invece, il novellato art. 5 cit. prescriveva dei criteri cui doveva attenersi la Commissione (sebbene prevalentemente) nella valutazione degli elaborati. Il passaggio non era di poco conto ai fini del reato di cui all’art. 479 c.p.

Amalio ricordò così l’orientamento costante della giurisprudenza della Cassazione penale negli ultimi 25 anni: «ai fini dell'art. 479 c.p., se il p.u., che esprime un giudizio, è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto. Ma se l’atto fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, sì è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, che cioè vincola la valutazione ad una verifica. In sua attuazione il p.u. esprime bensì un giudizio, ma l'atto può essere obiettivamente falso se il giudizio, che è di conformità, non risponde ai parametri cui è implicitamente vincolato. E, poichè nella specie si tratta di un parere squisitamente tecnico, si è per definizione in presenza di un giudizio di conformità» (Cass. Sez. V, n. 14283/1999; più di recente, rispetto a una fattispecie di falsità per omissione, cfr. Cass., sez. fer., n. 39843/2015). 

Nel caso dei verbali dei lavori delle Commissioni, non vi era alcuna documentazione né in ordine alle modalità (e, perché no, all’oggetto) di discussione circa l’idoneità di un candidato, né in ordine all’assegnazione del punteggio. Il vento stava per cambiare?

3.3 L’elisir di eterna giovinezza

L’ombra delle allegre figure sulla spiaggia cominciava ad allungarsi. Una fresca brezza restituiva ad Amalio quel tanto di vita che si era visto sottrarre nei mesi precedenti. 

La quiete, purtroppo, durò poco. Un bimbo, che giocava con un pallone nelle vicinanze di Amalio, fece un tiro maldestro. La palla passò vicino al rattrappito Eroe. Il pargolo gli urlò: «Signore, mi passa la palla?». Amalio, già pronto ad alzarsi e a tirare la palla al bimbo, si impietrì. «Signore? A me? Ma sono giovane…». L’espressione ormai assente di Amalio indusse il bambino, impietosito, a fare da sé, mentre il poveretto sprofondava nuovamente in sé stesso. 

In effetti, quanti anni aveva? Quanti anni aveva già speso con l’ambizione di divenire magistrato? I conti non gli tornavano. Da un lato, bisognava escludere il biennio inutile del titolo d’accesso inutile. Poi era necessario escludere i tempi di correzione intercorrenti tra la prova e gli esiti della prova… 

Ora che ci pensava, c’era un dato positivo. Le tempistiche del concorso in magistratura sottendevano un augurio implicito a tutti i candidati: che potessero campare almeno cento anni, più interessi. 

Si trattava di un augurio noto a tutti, Ministro compreso. Formalmente, l’art. 6 co. 7 d.lgs. 160/2006 prescriveva, sin dal 2007, la necessità di correggere 600 compiti al mese. Sostanzialmente, nelle procedure bandite negli anni successivi, non si era mai raggiunto tale numero (per limitarsi alle procedure recenti, nel concorso bandito nel 2021, la media era stata di poco più di 300 candidati esaminati al mese, per un totale di 14 mesi dalla prova scritta; nel concorso bandito nel 2022, poco più di 300 al mese, per un totale di 12 mesi dalla prova scritta). 

Insomma, ad ogni prova scritta sostenuta, un candidato sapeva di dover regalare almeno un anno di vita; si trattava di un “dono” per la maggior parte dei candidati, cioè i bocciati, perché solo i candidati idonei trovavano adeguata compensazione mediante la promozione. Tutto ciò induceva Amalio a sorridere dei suoi studi sugli orientamenti giurisprudenziali relativi al tempo come “bene della vita”. 

La dilatazione dei tempi non sembrava aver impensierito troppo i magistrati – fatta eccezione per i colleghi di ufficio dei magistrati-commissari, sovraccaricati dei ruoli (a lungo scoperti) e delle incombenze di questi ultimi. Quanto meno, non pareva interessare più di tanto il CSM. L’art. 6 co. 8 d.gs. n. 160/2006 prescriveva un potere sanzionatorio discrezionale: «il mancato rispetto delle cadenze e dei termini di cui ai commi 1, 2 e 7 può costituire motivo per la revoca della nomina del presidente o del vicepresidente da parte del Consiglio superiore della magistratura». Tuttavia, non si ricordava, dal 2007, alcun provvedimento di revoca di alcun Presidente di Commissione.

Eppure, anche delle ragioni di dilatazione dei tempi si sarebbe dovuto dare conto nei verbali delle sedute, a pena di problemi analoghi a quelli sopra ricordati. Per contro, la Commissione del concorso bandito nel 2021, nel primo verbale di organizzazione redatto in seduta plenaria, stabiliva espressamente che dovessero essere corretti 8 candidati per ogni giorno di seduta di ciascuna delle due sottocommissioni, con ciò già violando programmaticamente la legge (8 candidati x 2 sottocommissioni x 25 gg lavorativi [nella migliore delle ipotesi] = idealmente 400 per mese, ma quasi mai la Commissione ha raggiunto questo risultato, restandone al di sotto). Altrettanto era accaduto con la Commissione del concorso bandito nel 2022, che aveva previsto una correzione di 8/10 candidati per seduta, con risultati e tempi analoghi ai lavori della precedente Commissione. 

Più di recente, il d.lgs. 2023 aveva consentito un ampliamento del numero dei Commissari in caso di numero di candidati superiore a 2000 (che era la regola) e, forse a ragione, aveva rafforzato il controllo sui tempi di lavoro delle Commissioni. Chissà se sarebbe davvero cambiato qualcosa.

Ad Amalio non restava che aspettare. Ora non era più tanto sicuro di avere qualche capello dorato in mezzo a quella chioma bruna - come affettuosamente gli diceva la mamma. Forse, il colore giusto era l’argento.  

4. La via del tramonto: l’accademia

Il sole aveva ormai quasi cotto il già decotto Amalio. Barcollando verso il bar del lido, volle regalarsi una limonata fresca con i (pochi) soldi che, affettuosamente, la nonna gli aveva donato. 

“Ah”, esclamò al primo sorso, “meno male che mi è rimasta l’accadem… coff coff!”. Il primo sorso andò presto di traverso. Così, Amalio capì che le cose belle sono tali soltanto finché ce le si immagina; appena le si prova, si rischiano amare sorprese. Ora che ci pensava meglio, con qualche zucchero in corpo, per l’accademia era stato lo stesso.

Egli era stato notato, per i suoi meriti, da uno stimato docente. Laureatosi, Amalio fu invitato ad affollare la turba dei cortigiani accademici. Il cursus honorum partì, ovviamente, dallo status di paggio e di assistente-ombra. Dopo qualche tempo e qualche pubblicazione, riuscì a vincere il concorso per divenire dottorando di ricerca. Il concorso non era che il modo in cui, all’accademia, si chiamava la cooptazione. Il dottorando era un prescelto, nel senso che era pre-scelto. Amalio intuì come tutto il cursus honorum sarebbe stato contraddistinto da tale dolce, eventuale modalità di progressione. 

Le intuizioni furono presto confermate dai colleghi più anziani. In una sorta di selezione naturale darwiniana, costoro si erano rivelati i più pacati, sorridenti e disponibili a ogni richiesta, anche poco accademica, del docente; perciò, erano stati cooptati per il grado successivo (assegno di ricerca, contratto di ricerca a tempo determinato, contratto di ricerca a tempo indeterminato, etc.). Alcuni casi di cronaca giudiziaria (emblematica sent. n. 1321/2019 del Consiglio di Stato, confermata da Cass. S.U. n. 18592/2020) inducevano Amalio a credere che anche l’abilitazione scientifica nazionale, che il non infallibile Ciccio Gazza aveva difeso, poteva essere soggetta a valutazioni del tutto arbitrarie. Il criterio della selezione naturale, dunque, non era più di tanto il merito scientifico. 

I bandi di selezione, come aveva, ancora una volta, istruttivamente segnalato Ciccio Gazza, erano confezionati ad arte affinché potesse vincerli il cooptato del momento. La predeterminazione dei criteri di selezione, formalmente auto-vincoli alla discrezionalità delle commissioni esaminatrici, avveniva in modo tale da non lasciare scampo ai non cooptati; questi ultimi non sempre facevano ricorso contro l’esclusione, nella consapevolezza che, se legati ad altro docente, tale mitezza d’animo avrebbe consentito loro, verosimilmente, di vincere altro in un altro momento più favorevole. 

Un legislatore attento all’apparenza, un legislatore-influencer, aveva offerto la base perfetta per la sopravvivenza del sistema della lottizzazione accademica. Tutto ciò che contava era la facciata: “scrivi molto, scrivi anche male, ma lascia qualcosa agli atti affinché a tutti possano brillare gli occhi”. Il prodotto scientifico veniva valutato, ai fini della formazione di poderosi curricula e di punteggi per titoli, non già per la sua qualità, ma per la sua quantità. Meglio tacere sul sistema di classificazione delle Riviste.

In questo modo, da un lato, si poteva spiegare il profluvio di note a sentenza a cui si era ridotta, in modo umiliante, buona parte della dottrina (con eccezione, ovviamente, degli esperti di materie storiche, per i quali i correttivi erano altri). La dogmatica, da astrazione, si era trasformata in miraggio. Dall’altro lato, Amalio non mancava di affliggersi per la propria incapacità quando notava che una media monografia, data alle stampe recentemente, conteneva un numero di pagine citate tale che il monte ore utile a leggerle, magari con una pagina al minuto (meditazione inclusa), superava spesso di gran lunga venticinque anni pieni di vita (provare per credere)! E che dolore, quando notava che l’autore era un suo collega coetaneo, che esercitava a tempo pieno anche la professione di avvocato!

A dire il vero, Amalio iniziò a pensare che il sistema di cooptazione potesse anche funzionare, ma a due condizioni essenziali: trasparenza della scelta e responsabilità, soprattutto etica, della stessa. In altre parole, si sarebbe dovuto trattare di un sistema apertamente fiduciario: l’Università avrebbe dovuto riconoscere al dotto docente il potere di individuare il talento della futura generazione. Un sistema del genere era sempre esistito: chi poteva dimenticare che un giovanissimo Raffaello Sanzio aveva potuto donare all’umanità le Stanze vaticane solo grazie a una sana raccomandazione?

Pensando alla patologia, in caso di abuso di tale potere (con scelta ispirata a logiche meramente baronali o familistiche), la sanzione non avrebbe potuto che essere etica, con massimo discredito del cooptato presso la comunità scientifica e accademica (studenti inclusi) e perdita di autorevolezza del cooptante. Una sanzione giuridica poteva anche immaginarsi, ma non avrebbe mai trovato applicazione, per la difficoltà di dimostrare l’inettitudine del mal cooptato. 

Il vero problema di un sistema così immaginato stava nella crisi dell’etica pubblica, quale sistema di controllo pregiuridico, che non risparmiava neanche l’accademia. A fronte della inconsistenza, magari comunemente nota, della qualità scientifica di un docente mal cooptato, nessuno o quasi sapeva più indignarsi e ribellarsi; ancora una volta, trionfava il quieto vivere. Quale docente avrebbe detto pubblicamente, della collega mal cooptata, che era stata compagna sentimentale di lungo corso del professore cooptante? Quale docente avrebbe detto pubblicamente, del collega mal cooptato, che era l’indefesso nipotino di un illustre barone? Quale docente, per altro, avrebbe potuto salvarsi dalla replica evangelica (magari nei fatti del tutto infondata): “perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? […] Iprocrita!” (Luca, 6,39-6,45)? 

Solo l’unione fa la forza; eppure, la Comunità scientifica e accademica aspettava ancora di ritrovare un accomunante senso della misura.

5. Conclusione

Il sole era ormai tramontato sopra e dentro Amalio. Finalmente si era ricordato perché gli amici lo avevano soprannominato l’“Eroe dei due immondi”. 

Raccolte le ultime forze, biascicò alcune parole al gestore del lido e tornò a casa dei suoi. 

Il gestore credette di sentire, tra quei mugugni: “la misiura è colma!”. Non ne capì il senso, perché, per sua fortuna, non aveva scelto di fare il giurista e non amava i giochi di parole.

AMALIO ESTREMIO


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