(breve nota alla sentenza Cass. 8.2.2022 n. 3946)
La Corte di Cassazione, in data 8 febbraio 2022, con la sentenza numero 3946, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa alla prova del danno emergente da occupazione illegittima, derivante dalla perdita della facoltà di godimento del bene immobile, ed in particolare la questione se tale danno debba essere considerato in re ipsa e, quindi, liquidabile in via equitativa, ai sensi degli articoli 1226 c.c. e 2056 c.c.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte trae origine da un’azione giudiziaria promossa da privati nei confronti di un condominio, al fine di ottenere l’accertamento della titolarità di alcune porzioni immobiliari adibite a parcheggio e, quindi, occupate dal condominio stesso, il quale aveva eccepito l’intervenuta usucapione delle aree anzidette, per possesso ultraventennale delle stesse.
Il Giudice di primo grado respingeva la domanda di parte attrice, con accoglimento, quindi, dell’eccezione formulata dal condominio, mentre il giudice d’appello riteneva fondata l’azione di rivendica, respingendo, però, quella risarcitoria, in assenza di una prova dell’entità del danno.
Il Condominio, con ricorso in Cassazione, deduceva, tra l’altro, che il danno da occupazione illegittima non richiedesse dimostrazione alcuna, in relazione alla sua entità, in quanto in re ipsa; la questione che veniva rimessa al Primo Presidente per l’eventuale rimessione alle Sezioni Unite, anche tenuto conto della precedente ordinanza di rimessione 17 gennaio 2022, numero 1162.
La problematica affrontata dalla sentenza in commento è molto dibattuta in dottrina e in giurisprudenza.
Secondo la tesi tradizionale, il danno da illegittima occupazione è in re ipsa, in quanto derivante dalla condotta illecita altrui l’impossibilità di godimento e disposizione del bene immobile, normalmente fruttifero, con conseguente esonero,per il proprietario,di esonero dalla dimostrazione di un pregiudizio causalmente ricollegabile alla propria condotta.
Secondo una diversa e più recente tesi, invece, il danno da occupazione illegittima dovrebbe essere sempre oggetto di prova specifica, non essendo ammissibile un automatismo risarcitorio.
Secondo un terzo indirizzo interpretativo, che potremmo definire “mediano”, invece occorrerebbe sempre tenere in considerazione la distinzione tra danno – evento e danno – conseguenza, nonché dimostrare in giudizio sia il danno emergente che il lucro cessante.
Le conseguenze dell’adozione di una tesi, piuttosto che dell’altra, sono rilevanti e si inseriscono in un contesto giurisprudenziale che liquida il danno da occupazione illegittima secondo il parametro del c.d. “Danno figurativo”, parametrato al danno locativo del bene immobile, valutato, spesso in termini meramente “presuntivi”, quindi, di fatto, in re ipsa, sulla base della circostanza dell’impossibilità di fare uso del bene illegittimamente occupato.
In estrema sintesi, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, che potranno essere commentate in modo più preciso e ampio, in questa sede si può evidenziare che:
a) la tesi del danno in re ipsa, di fatto, dà accesso al c.d. “Danno punitivo”, non ammissibile, nel nostro ordinamento, secondo la più recente giurisprudenza;
b) nella prospettiva sopra indicata, un’unica lesione sarebbe risarcita con più voci di danno, in violazione del principio di causalità degli spostamenti giuridici patrimoniali, in materia di responsabilità civile;
c) si applicherebbe un unico criterio risarcitorio, sia che venga in rilievo un danno da perdita della facoltà di godimento, che della facoltà di disposizione.
Secondo una recente impostazione dottrinale, tuttavia, le prime due obiezioni potrebbero essere superate, in quanto il danno punitivo si caratterizzerebbe per una componente riparatoria, corrispondente al danno – conseguenza.
Circa la duplicazione risarcitoria, nella prospettiva di cui sopra, nella suddetta prospettiva, si tratterebbe di un falso problema, in quanto si tratterebbe, in realtà, di liquidare due voci distinte di danno, quello emergente e il lucro cessante, non di duplicare una voce dello stesso danno.
Infine, riguardo la questione dell’applicazione del parametro del “Valore locativo” secondo questa, diversa ricostruzione, esso non terrebbe in considerazione, come sopra accennato, le due dimensioni del diritto di proprietà, vale a dire quella legata al godimento del bene e quella inerente l’impossibilità di utilizzo del bene medesimo.
La questione rimane aperta, in attesa della decisione delle Sezioni Unite in quanto, come rilevato in dottrina, non sembra soddisfacente nemmeno il criterio del valore commerciale del bene, che si rivela iniquo nei casi in cui non vi sia un utilizzo diretto da parte del proprietario.
Spetterà alla Suprema Corte, dunque, individuare una soluzione al contrasto interpretativo sopra delineato.
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