Letteratura  -  Redazione P&D  -  25/06/2022

Donazione remuneratoria - Massimo Paradiso

(pelosetta anzichenò)

Dopo la pausa domenicale, il settimo giorno d’udienze s’annunciava senza sole ed anzi caliginoso per essere il cielo letteralmente coperto [coperto?] da una nuvolaglia nera che non lasciava trapelare un filo di luce e non faceva presagire nulla di buono: almeno, per le persone cosiddette metereopatiche. 

I primi a farsi avanti furono nove uomini di mezz’età, tutti nerboruti e con fare deciso, tanto che per un attimo sembrò al Governatore che avessero da far valere una questione con lui. Si sforzò allora di riandare con la mente alle tante disavventure occorsegli nel peregrinare col suo signore, il cavaliere don Chisciotte: nessuno dei presenti però gli ricordava qualcuno dei tanti energumeni che gli era avvenuto di incontrare. Tanto meno poi ricordava di aver avuto con essi un qualche scontro o contrasto: quelli che, all’osteria, l’avevano fatto “ballare” su una coperta non erano così robusti né così decisi, mentre i forzati che inopinatamente avevano liberato avevano un aspetto molto più minaccioso e... banditesco. Perché dunque ce l’avevano con lui e, comunque – si disse, ricordandosi di essere il Governatore – come si permettevano quell’atteggiamento spavaldo se non minaccioso? e in quella sede poi...! Ma l’arcano si dissolse quando uno di loro con fare deferente s’inchinò prendendo la parola. 

«Chiedo giustizia, Eccellenza! – disse – Mi chiamo Alfonso Ferrauto, fu Domenico, da Albacete, e parlo a nome di tutti i miei compagni perché comune è stata la nostra vita e la nostra ventura per quasi sette anni. Sette anni nei quali abbiamo servito in armi sotto le insegne di don Ferrante Algarve y Mendolia de la Fuente Roja. Ci siamo arruolati per difenderlo nella faida, chiedo scusa: nel conflitto, contro don Juan Jerez y Ferreira per il possesso di alcune terre contese, poste tra i Monti Cantabrici e il fiume Bernesga. Alla fine, siamo riusciti a venire a capo dell’impresa, ma a prezzo di lacrime, sudore e sangue: non pochi di noi, dei tanti che eravamo, hanno lasciato la vita su quelle montagne, che siano maledette. A compenso della nostra milizia, oltre al soldo settimanale, don Ferrante si era impegnato a darci (ma ovviamente solo ai superstiti...) tanta terra quanta ciascuno ne avesse arata in una giornata, dall’alba al tramonto. Chiediamo adesso che vostra Eccellenza ci faccia giustizia, facendo rispettare i patti sottoscritti da tutti noi». 

«Dov’è dunque questo don Ferrante?» chiese il giudice. «Siamo qui, siamo qui» esclamò nel mentre si avanzava un uomo alto e magro, scuro di pelle non meno che in volto, che, nonostante la magrezza parve occupare tutta la sala, tale era l’imponenza del suo incedere. «E siamo qui solo come segno di deferenza verso il Duca di Luna e Villahermosa che a suo tempo ci ha sostenuto nel conflitto e che, a quanto pare, vi ha nominato Governatore di questa città. Non siamo certo qui perché abbiamo da giustificare la nostra condotta, specchiata come sempre e rispettosa dei patti a suo tempo convenuti con questa marmaglia, che, sia detto per inciso, si è contraddistinta più per la capacità di riportare a casa la pelle che non di portare a casa una qualche vittoria sul campo». La compagnia di ventura, chiamiamola così, o quel che ne restava rumoreggiò irata, ma non osò dire né fare altro, per una evidente mescolanza di rispetto e di timore. 

Pure il buon Sancho rimase impressionato, anche perché fin’allora non aveva mai sentito qualcuno parlare di sé usando il “noi”. Chissà, rifletteva, forse parlava anche a nome dei fratelli o di qualche parente e, ad ogni buon conto, pensò che anche lui, nella sua funzione... In tono riguardoso, chiese: «Se vostra Signoria vuole avere la cortesia di esporre le ragioni del contendere, glie ne saremo grati, perché sarà certo una esposizione chiara di come si sono svolti i fatti... e non di parte» soggiunse subito dopo, parendogli che il tono troppo deferente avesse in qualche modo travalicato le sue funzioni di giudice fino a farlo apparire servile. 

«Oltre al tradizionale soldo puntualmente corrisposto – e sottolineo puntualmente corrisposto, a differenza di tanti altri casi – avevamo concordato quanto appena riferito dal caporione di questa masnada. Che però ha omesso due particolari importanti. Spettava solo a me scegliere il giorno, purché fosse un giorno senza nuvole, e l’aratura doveva avvenire quando il disco del sole era visibile per intero, in tutta la sua rotondità. Tutto il resto era lasciato alla determinazione, e alla cura, dei beneficiari della promessa, ivi compresa la scelta di altri elementi o caratteri del cimento: tipo di aratro, numero di buoi o di muli, eventuali aiuti nell’aratura, e così via. E così abbiamo fatto. Per parte mia mi sono limitato a fissare un giorno intimando loro di presentarsi sul posto prima dell’alba! Un’ora, che rispondeva pienamente ai loro interessi. Adesso, si lamentano della poca terra che hanno potuto lavorare a causa della sfortuna. Ma la loro era solo una compagnia di ventura: chi poteva assicurare che, la loro, fosse anche una... buona ventura?». Così concluse il suo dire don Ferrante, con un sorrisino compiaciuto per la fine ironia che gli era sembrato di aver inserito nelle parole conclusive.

«Eh, già! Sua Signoria chiama sfortuna quel che ci è capitato – sbottò il querelante Alfonso –. Solo che Sua Signoria scelse la data di lunedì 18 marzo, del corrente anno, 1576° dalla nascita di nostro Signore, e, guarda caso, proprio quel giorno si è verificata una eclisse totale di sole! Alle 8:36 il sole ha cominciato a oscurarsi e così è rimasto fin quasi al tramonto. Ora è noto che le eclissi si possono prevedere: qualunque monaco che abbia un po’ di dimestichezza con l’astrologia, è in grado di farlo...». «A me non risulta sia così facile – replicò “Sua Signoria” –. E se così fosse, perché non avete indagato o non vi siete informati quando vi ho comunicato la data del 18 marzo? E comunque, chi può dire che io abbia in mala fede scelto quel giorno? Chi? – urlò con voce spaventevole nel mentre portava la mano destra alla spada – chi mai ardirà mettere in dubbio la mia parola? Chi oserà accusare di frode don Ferrante Algarve y Mendolia de la Fuente Roja?». Nell’aula calò un silenzio di tomba. Tutti erano palesemente intimiditi, per non dire terrorizzati, dall’implicita minaccia insita nelle sue parole e nel gesto che le aveva accompagnate. 

«Nessuno, nessuno si permette in quest’aula di mettere in dubbio la vostra buona fede, don Ferrante. Siatene certo». Solo questo seppe articolare il giudice, rendendosi conto che, oltre all’autorità formale conferita dalle funzioni, conta ancor più l’autorevolezza che, a dritto o a torto, alcuni possono vantare e riescono a far valere. «A questo punto – riprese – ritengo opportuna una pausa, una sospensione dell’udienza che riprenderà fra un’ora». Così disse, e si allontanò in tutta fretta, per non dare a vedere la sua agitazione interiore. 

Era agitatissimo, il nostro Sancho. Certo che don Ferrante era in mala fede: aveva fatto una mascalzonata, ma chi avrebbe osato rinfacciargliela? Certo non lui, giudice per caso. Quando aveva accettato l’incarico non aveva certo messo in conto di rischiare l’osso del collo. No, non aveva certo la tempra dell’eroe il nostro giudice. E tanto meno quella del martire. E poi, se l’avesse fatto, che cosa avrebbe detto sua moglie? Poteva lasciare lei vedova e la figlia Sanchita orfana? No. Su questo, almeno, non aveva dubbi. Era anzi una certezza dalla quale partire – si disse – per uscire da quell’imbroglio. Le pensò tutte. Svignarsela non era possibile; chiedere consiglio al suo signore non poteva: quello sarebbe stato capace di sfidare don Ferrante a duello e ci sarebbe morto. Neppure al duca poteva chiedere aiuto, visto che era amico di quel prepotente e si sa: i signori si tengono bordone l’un l’altro. Si risolse perciò a chiedere aiuto alla Vergine Maria, che aveva sentito invocare dal curato come Sede della Sapienza. La sapienza di Salomone non gli era bastata; chissà che quella della Madre di Dio non gli venisse in aiuto.

D’altra parte – rifletteva – poteva uscirne onorevolmente. Bastava richiamare l’ormai noto ritornello: “Bisogna stare ai patti” che aveva costantemente applicato nei giorni precedenti. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di vigliaccheria. Neppure la sua coscienza. Avvertiva però uno strano malessere interiore e, per guarirne, tornò a baciare più volte l’amica damigiana, mentre ripercorreva lentamente le fasi dell’udienza e ripassava le parole che erano state dette. Alla fine, sarà stata l’invocata Sapienza celeste, sarà stata la sua ormai inseparabile amica terrena, certo è che gli venne in mente un particolare...

Alla ripresa dell’udienza, don Ferrante era sprezzantemente seduto su uno scranno: strano, pensò il nostro Sancho, che non se ne fosse andato. Peggio per lui: avrebbe ascoltato la sentenza in diretta; e meglio per me, pensò: avrebbe udito il tono deferente e il richiamo al rigoroso rispetto dei patti da parte del giudice! Chi invece si era allontanata era una buona metà del gruppo di soldati: evidentemente pensavano di aver già perduto la causa. Eh, già, pensò il nostro, mentre una nota d’orgoglio e di autocompiacimento gli gonfiava il petto: chi può farla in barba al vecchio Sancho?

«Com’è noto a tutti coloro che, nei giorni andati, han seguito le udienze che quivi si sono succedute, questo giudice si è sempre rigorosamente attenuto a un principio: “Bisogna stare ai patti” liberamente intercorsi tra le parti [anche qui, naturalmente, acribia vuole...]. E don Ferrante, con lo scrupolo e l’obiettività che lo contraddistingue, ha deposto in questa sede che a lui spettava soltanto la scelta del giorno, mentre tutto il resto competeva ai beneficiari della promessa...». «È così, lo ribadisco» si degnò di confermare l’evocato don Ferrante. «E dunque – riprese il giudice rivolgendosi a lui – converrete con me che non avete permesso ai beneficiari di scegliere l’anno, come ad essi spettava! Avete invece, come da vostra Signoria dichiarato, “intimato di presentarsi in una certa data: appunto il 18 marzo”. A tenore pertanto dei patti liberamente accettati dalle parti in causa, invito i querelanti a scegliere l’anno in questione. Pertanto, il famoso cimento si svolgerà nell’anno che sarà da essi scelto, mentre la data dovrà essere quella già fissata da don Ferrante, in ossequio alla sua volontà, salva a lui la facoltà di cambiarla».

Se nell’aula non scoppiò un applauso, fu solo per gli occhi furenti del querelato. Che andò via impettito, ma senza profferir verbo.

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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