Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  16/04/2020

Dalle virtù ad una riedificazione personale e sociale: afungibilismo e sussidiarietà orizzontale - Luigi Trisolino

Stamattina su WhatsApp e sui socialnetworks circolava un messaggio molto ironico verso le varie posizioni e i vari comportamenti assunti dalla popolazione italiana, ma non solo, nei confronti delle restrizioni per il contenimento dei contagi da COVID-19. Il messaggio, la cui fonte mi è ignota, conteneva le seguenti battute: “Sto a casa: servo del potere! Esco di casa: incosciente! Metto la mascherina con il filtro: egoista! Metto la mascherina chirurgica: serve ai medici! Metto la mascherina semplice: non serve a niente! Non metto la mascherina: untore! Canto la balcone: spione! Sono ironico: irrispettoso! Sono austero: funereo! Credo ai virologi: boccalone! Non credo ai virologi: complottista! Mi informo su più opinioni: opportunista! Esprimo una mia opinione: saccente! Non esprimo opinioni: ignorante! Mando tutti a *******: felice!”. 

Mi è venuto in mente il rapporto tra psicologia sociale e narrativa ludica, descrittiva della situazione psicologica sociale; da un lato. Dall’altro lato, mi è venuto in mente il rapporto tra la psicologia sociale in un dato momento e la filosofia sulla virtù umana.

Mi è venuto in mente, in particolare, un passo del primo libro della “Repubblica” di Platone (427 a. C.- 347 a. C.), in cui si scriveva quanto segue:

<<Grazie a te, Trasimaco>>, replicai, <<(…) come i ghiottoni afferrano e assaggiano quello che viene via via portato in tavola prima di aver gustato a sufficienza la portata precedente, così mi sembra che anch’io, prima di aver trovato l’oggetto primario della nostra indagine, ovvero cos’è il giusto, abbia abbandonato quel problema e mi sia lanciato a indagare se esso sia vizio e ignoranza oppure sapienza e virtù. Poi, essendo il discorso caduto sul fatto che l’ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia, non mi sono trattenuto dal passare da quell’argomento a questo, cosicché ora mi trovo a non aver ricavato alcuna conoscenza dalla discussione; perché quando non so che cos’è il giusto, tanto meno saprò se è o non è una virtù, e se chi la possiede è o non è felice>> (Platone, “Repubblica”, traduzione di Giovanni Caccia).

Giustizia, ingiustizia, virtù, vantaggio, felicità: tutti concetti le cui considerazioni qualitative andrebbero poste in una euristica nonché razionalsperimentale carrellata diacronica, per sondare in successione cosa è generante e cosa è generato. Eppure la chiave di volta idonea a far sciogliere – in senso riedificativo – ogni considerazione astratta su cause ed effetti delle virtù è quel dovere di solidarietà che la Corte costituzionale italiana ha enucleato e valorizzato attraverso la lettura sistematicamente attuativa delle disposizioni normative di cui all’art. 2 della Costituzione repubblicana del 1948. La Repubblica, infatti, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’essere umano, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. In virtù di questi valori, la Repubblica italiana richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. L’adempimento di tali doveri dovrebbe essere pensato ed attuato, anche attraverso le legislazioni ‘conseguenziali’ rispetto a tale articolo costituzionale, in connessione con il principio di proporzionalità, nonché in aderenza al fattualismo circostanziale del “rebus sic stantibus”. Se i tempi si fan duri, rigorosa deve farsi la risposta radicata nella solidarietà. 

Ma in cosa consiste la solidarietà? In una virtù?

La solidarietà si fa causa di virtù, ma ne è anche effetto: in un siffatto circolo virtuoso la “dea” giustizia respirerebbe, dinnanzi ad un’umanità salvata già nella riscoperta delle proprie rigenerate potenzialità; come quella famosa “goccia nell’oceano” salva il mare che rischia di prosciugarsi.

Il concetto di solidarietà potrebbe essere relativizzato? Tuttalpiù vorrei ch’esso fosse pluralizzato, in un’ottica, civica e sociale, neopersonologicamente fondata.

D’altronde anche davanti ad un passo del “De vita beata” di Lucio Anneo Seneca (3 a. C. circa-65 d. C.) mi sono posto la domanda circa la tenuta del valore delle pluralità pensanti, e dei distinti punti di vista nell’edificare una base gnoseologica pura e pratica per le virtù. 

Anni fa mi colpì particolarmente il seguente passo senechiano:

“(…) anche l’universo, che tutto, abbraccia, e Dio, che guida il cosmo, sono sí volti verso l’esterno, ma poi da ogni parte rientrano nella loro essenza. Cosí deve fare anche il nostro spirito: quando, seguendo i sensi, e per il loro mezzo, si sarà volto verso i beni esterni, si mantenga padrone di questi e di se stesso.

In tal modo si realizzerà una sola forza con l’accordo delle sue facoltà e nascerà quella ragione sicura, senza dubbi o esitazioni nelle valutazioni come nelle opinioni e nelle convinzioni; una ragione che, una volta organizzata, ordinata e per cosí dire armonizzata, raggiungerà il sommo bene” (Seneca, “De vita beata”, traduzione di Gavino Manca).

Sulle pagine del libro dove sottolineai questo passo ritrovo una mia annotazione laterale, in cui scrissi – alcuni anni fa – quanto segue: e il pluralismo e la relatività? Il pluralismo è meglio che si faccia rispetto intenso della pluralità, e la relatività è bene che non diventi irrazionalistico relativismo o comunque – al di là dell’irrazionalismo – è bene che non scada in fungibilismo ontico, o in nichilismo. Le diverse e innumerevoli “campane”, rispettabili, non devono generare caos ma devono restare oggetto prospettico e materiale sul piano di lavoro (prima) cognitivo e (poi) valutativo di un io saldo, non confuso (dal di dentro) né confondibile (dall’esterno ed “erga omnes”), nonché un io pronto ad evolversi: saldo ma non nebuloso a se stesso e per gli altri.

La ricerca filosofica in questa direzione ontica e valoristica potrà tracciare i propri pendii cognitivi, propulsivi verso nuovi lidi per l’essere umano nella sua dialettica personale e pluricomunitaria di disalienazione e pace. Nella dimensione più puramente spirituale, invece, non ci si dovrà fermare a non avere cattivi od opprimenti legami: per rinascere sarebbe opportuno uscire dalla cecità esistenziale, attraverso la Ricerca della luce stessa, o di una luce più autentica che squilli fervida agli occhi e ai moti degli animi. Pur non avendo “la” ricetta, e forse nemmeno “una” ricetta, possiamo direttamente provare a sperimentare gli elementi della pietanza vitale ed esistenziale che vogliamo gustare, muovendoci, prima di ogni sperimentazione, attraverso una ragionevole e poi più strettamente razionale direzione portante, per i passi che compiamo, per le biglie del nostro vivere che facciamo muovere. 

Dal punto di vista civico-ordinamentale e da quello sociopolitico, le società umane richiedono nuove versioni nei rinnovati bisogni della vita di relazione, come durante e dopo ogni crisi socioeconomica. Incapaci di credere e strutturare una nuova umanità, affiniamo i princìpi propizi entrati nelle Carte costituzionali. Un principio che può costituire una valvola di contemperamento tra le diverse istanze sociali e libertarie presenti nel tessuto sociale che l’ordinamento porta a regime giuridico liberaldemocratico, è il principio di sussidiarietà orizzontale inserito nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione italiana. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni – che ai sensi dell’art. 114 costituiscono la Repubblica – favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse “generale”, sulla base del principio di sussidiarietà (art. 118, comma 4, Cost.). 

La sussidiarietà orizzontale compendia e sintetizza in modo astratto – tutto da sperimentare sui piani della pratica negli ambiti legislativi, amministrativi e sociocostitutivi nonché associativi – la libertà economica di cui all’art. 41 Cost., con l’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost. L’art. 118, comma 4, così, può rappresentare quel “quid pluris” sulla via della socialità organicistica rispetto all’utilità sociale di cui all’art. 41, comma 2, Cost.; qualcosa in meno rispetto alla c.d. collettivizzazione delle imprese di cui all’art. 43 Cost. Ai sensi di quest’ultimo articolo, la legge, ai fini di utilità “generale” (generale e non soltanto pubblico: la ‘stessa’ generalità che è stata utilizzata, molti anni dopo, nel riformulare l’art. 118?), può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. 

In virtù di un afungibilismo che è sotto gli occhi di tutti, lo Stato è l’ente pubblico territoriale della Repubblica che deve fornire mezzi materiali e direttive certe per il benessere e la crescita del capitale umano, affinché questo possa evolvere i propri orizzonti poietici attraverso una prudente e pullulante idoneità attuativa-specificativa-edificativa del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale: in un proficuo e sempre umano transito dalla “doxa” alla “praxis”.




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