Nei giorni successivi mi capita di sfogliare ogni tanto la sentenza in questione.
Lo faccio per senso del dovere essenzialmente: già amo poco le molestie sessuali, come tema di studio, figuriamoci quelle inflitte a una minorenne.
Leggendo mi accorgo che i giudici hanno riportato, nella prima parte del testo, dettagli vari dei maltrattamenti alla bambina. Scene quantomai pesanti, scabrose, chissà perché un resoconto così accurato - forse per convincere se stessi, mi rispondo, di aver fatto bene a condannare l’imputato. Il Tribunale in primo grado l’aveva assolto.
Un mese dopo arriva, da una collega universitaria, l’invito a partecipare a un convegno; a Macerata, Dipartimento giuridico, dovrei parlare dei diritti dei bambini.
Un po’ conosco l’argomento, è per l’autunno l’incontro; ringrazio, rispondo che non mancherò.
Comincio ad abbozzare una scaletta, sui punti a me più familiari; la rifinisco via via nel corso delle settimane: decido - tre giorni prima di partire - di aggiungere un cenno alla storia di Anna, a conclusione del discorso. Visto che parlerò di risarcimento è importante, mi dico, si capisca perché la cifra accordata dal giudice non possa, nei casi di pedofilia, non essere sostanziosa.
C’è un frammento eloquente, ho scoperto, a pagina dieci della sentenza.
È quello in cui l’estensore, riprendendo testualmente la denuncia di Anna, illustra in che maniera la piccola vittima – riversa sul tavolo, dove i giochi ‘poco catechistici’ si svolgevano – tentava con la mente di evadere, mentre subiva le brutalità, da quella stanzetta.
‘‘Era impossibile, quando don Fulvio mi sistemava bocconi, ventre in basso, riuscire a evadere con la mente dalla canonica. Schiacciata sul tavolo dalla vita alla testa, potevo solo decidere su quale guancia appoggiarmi, nient’altro. Riuscivo al massimo a contare i secondi, trenta o novanta o quel che era, in attesa che le cose finissero.
Il contrario nella posizione supina: pancia all’insù, braccia stese a croce; al centro del soffitto c’era un graffio, come un’ombra diversa a seconda della luce, attraverso cui potevo uscire dalla camera. I movimenti sul basso del corpo non mi riguardavano più direttamente. Col pensiero ero altrove: a tavola accanto ai miei, oppure in cartoleria a scegliere i quaderni, in pasticceria, a bagnare le piante sul poggiolo di casa, a giocare di sotto con le amiche’’.
Quando a Macerata leggo a voce alta queste righe, il giorno del convegno, mi accorgo che il pubblico in sala quasi non respira.