Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  03/04/2014

Codice di deontologia del medico: cosa cambia

Con la divulgazione della bozza del nuovo Codice di deontologia dei medici ho operato una prima analisi delle novità in tema d'informazione professionale e diritto del paziente ad autodeterminarsi alla cura o, se preferite la stantia etichetta, di consenso informato.

Le norme che ci interessano riguardano il titolo IV (informazione e comunicazione, consenso e dissenso) e quindi gli artt. dal 33 al 38.

Una prima significativa novità la si trova nella denominazione del medesimo titolo IV (prima capo IV) nella precedente versione denominato “informazione e consenso” ed ora “informazione e comunicazione consenso e dissenso”.

Chi scrive ha sempre contestato, alla più tradizionale impostazione e all'etichetta “consenso informato” alcuni sostanziali vizi: per un verso, la l'implicito -letterale- invito a concentrare l'interesse sul momento finale, quello della prestazione del consenso, tanto che ne è derivata un'ormai inarrestabile burocratizzazione che è culminata con l'identificazione, abusiva, tra consenso informato e sottoscrizione del modulo di consenso (tanto che alcuni anni fa immaginai, magari non per primo, l'espressione “consenso firmato”); per l'altro, l'etichetta tradizionale sembrava quasi consentire un'alternativa solo tra “consenso informato” e “consenso non informato” quando, a ben vedere, l'alternativa reale è tra il “consenso informato” ed il “dissenso informato”.

La consapevolezza della copertura costituzionale del diritto del paziente ad autodeterminarsi consapevolmente e liberamente alla cura, ed anche le tensioni derivate dai notissimi casi che hanno riguardato il cosiddetto fine vita e quindi il testamento biologico, hanno ricordato e riaffermato la pari dignità di consenso e dissenso -se informati- alla cura.

Né è derivata, anche se il processo è ancora in corso, una significativa revisione della qualità dell'informazione che dev'essere resa: non più, come avveniva un tempo, finalizzata a conseguire, univocamente, il consenso del paziente, ma concepita con la premura di offrirgli un'informazione equilibrata, corretta ed esaustiva in modo da consentirgli di partecipare attivamente alla cura e prima ancora di eventualmente determinarsi ad essa ovvero dissentire per ragioni, vale la pena sottolinearlo, che non debbono attenere esclusivamente alla sua aspettativa di conservare l'integrità psicofisica. Possono invero riguardare scelte che guardano ad altri orizzonti, anche non necessariamente ricollegati all'aspettativa di conservazione della propria integrità psicofisica e che, non di meno, il paziente può anteporre ad altri seppur secondo una gerarchia non condivisa dai più ma degna di rispetto quale espressione dell'originalità e inviolabilità della persona.

Non posso quindi che cogliere nello stesso senso l'integrazione della rubrica del titolo IV che per la prima volta comprende in sé, a dimostrazione dell'acquisita pari dignità, sia riferimento letterale al  consenso che al dissenso alla cura.

Anche la rubrica dell'art. 33, che per primo compone il succitato titolo IV, nella precedente versione recitava “informazione al cittadino” mentre, nella nuova formulazione: “Informazione e comunicazione con la persona assistita”.

Sento di poter leggere anche tale modifica come la volontà di porre l'accento proprio sulla qualità della comunicazione che non può essere fredda, cinica, standardizzata ed univoca, ma “funzionale” all'esercizio del diritto all'autodeterminazione del paziente. Affinché la comunicazione sia qualitativa, e corrisponda, ex art. 1176, II comma, c.c., al diligente adempimento della prestazione sanitaria, non dev'essere finalizzata ad assecondare le aspettative di chi la renda.

E' peraltro meccanismo noto, anche se a volte accade inconsapevolmente, quello che induce chi renda l'informazione a modularla in modo da essere utile al risultato che eventualmente si prefigga: e così se per il sanitario la soluzione migliore per il paziente sia quella di sottoporsi al trattamento, è verosimile che le informazioni siano modulate al fine di convincere il paziente a pronunciare un consenso.

La scelta migliore, invece, è sempre e solo quella che il paziente esprimerà se sarà ascoltato, ed indagato il suo orizzonte esistenziale, che comprende sia le sue aspettative di conservazione dell'integrità psicofisica che quelle di realizzazione personale eventualmente confliggenti; se l'informazione sarà obiettiva, il paziente sarò posto nelle condizioni non di essere convinto, ma di convincersi grazie alla corretta valutazione di costi e benefici del trattamento in funzione del suo orizzonte di valori.

Da quanto esposto appare vieppiù chiaro che la redazione di moduli stereotipati per il cosiddetto consenso informato non possono in alcun modo fornire la prova di una comunicazione di questa qualità, come peraltro in più occasioni la stessa Corte di Cassazione ha affermato.

L'art. 33 quindi si articola, previa riorganizzazione peraltro non significativa dei contenuti, ricordando che il medico deve garantire un'informazione comprensibile ed esaustiva, sia sulla prevenzione che sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia, sulle eventuali alternative terapeutiche e sui prevedibili rischi e complicanze nonché, infine, sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura.

Viene quindi ribadita la necessità che il medico calibri la comunicazione tenendo conto delle capacità di comprensione del destinatario, soddisfi ogni richiesta di chiarimento, avendo cura di considerare anche la sensibilità e la reattività emotiva del suo interlocutore, particolarmente quando debba comunicare diagnosi gravi o infauste, in vista delle quali deve ricordare di conservare quanto più possibile elementi di speranza.

Viene salvaguardata, come già allora, l'eventuale volontà del paziente di non essere informato o di delegare un altro soggetto a ricevere l'informazione e ricorda, diversamente da quanto accadeva nella precedente formulazione dell'art. 33, che tale volontà dev'essere riportata nella documentazione sanitaria.

L'ultimo comma è assolutamente nuovo e consiste, come avverrà anche in altri articoli, in uno sguardo attento nei confronti dei minori laddove garantisce a questi ultimi “elementi di informazione utili” affinché possano comprendere la loro condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati, così da poterli coinvolgere nel processo decisionale. Anche al minore quindi spetta, pur in considerazione della sua limitata capacità e della sostituzione nelle decisioni a cura di chi lo rappresenti, una rinnovata attenzione che non lo degradi al destino di inconsapevole bersaglio del trattamento da altri eventualmente assentito, ma da protagonista, seppur con limiti inevitabili, della sua cura.

La formulazione del successivo art. 34 non contiene per il vero se non modifiche che paiono di stile ma che non consentono di ritenere significativamente variato il contenuto del precetto deontologico.

E' chiarito che l'informazione a terzi possa essere fornita solo previo consenso esplicito ed espresso dell'interessato, salvi i casi particolari disciplinati dai precedenti artt. 10 (riguardante il segreto professionale” e 12 (riguardante il trattamento dei dati sensibili) allorché sia in grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri. Il medico, nell'ipotesi in cui il paziente sia ricoverato, prende nota degli eventuali nominativi delle persone autorizzate a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

La modifica subita dal successivo art. 35 è di più difficile lettura anche se la nuova formulazione, pur nella sua agilità, sembra, per certi versi, essere anche più persuasiva. La rubrica cambia contenuto, come già avveniva per quella del titolo IV, passando dall'indicazione di “acquisizione del consenso” a “consenso e dissenso informato della persona assistita”.

Il primo comma differisce da quello contenuto nella precedente formulazione perché condiziona alla preliminare acquisizione del consenso o del dissenso qualsiasi attività diagnostico-terapeutica da iniziare o già iniziata, allorché recita: “Il medico non intraprende né prosegue in attività diagnostico-terapeutica senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato della persona capace”.

Precedentemente si limitava a ricordare che il medico non dovesse intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito ed informato del paziente.

La scelta di prescrivere che il medico non possa non solo intraprendere ma anche proseguire un'attività diagnostico-terapeutica senza la preliminare ed eventuale acquisizione del consenso informato, consiste in un rafforzamento della condizione di liceità del trattamento stesso, basato appunto sul principio del consenso informato.

Può rivolgersi, invero, all'ipotesi in cui un trattamento sia iniziato, in assenza di consenso espresso 

perché per esempio il paziente non era in grado di esprimerlo e v'era assoluta necessità di intervenire per assicurare la sua incolumità e, quindi, recuperata la possibilità a cura del paziente di esprimere la propria volontà il sanitario debba rimettere anche il mero proseguimento di un'attività già iniziata al diritto del paziente medesimo di autodeterminarsi consapevolmente.

Un'ulteriore precisazione pare di assoluta importanza: il divieto di intraprendere o proseguire attività diagnostico-terapeutica senza la preliminare acquisizione del consenso informato si accompagna anche ad un'altra ipotesi, quella in cui il paziente, capace, abbia manifestato un dissenso alla cura.

La precisazione, non priva di significato ed in perfetta coerenza con quanto più sopra sottolineato, trae probabile alimento dal caso che ho definito in passato come quello del “lager del San Raffaele di Milano” descritto, ahi noi, in un'incomprensibile pronuncia di I°grado del Tribunale di Milano e successivamente maltrattata a ragione in sede di seconde cure dalla Corte d'Appello milanese.

Allora un Testimone di Geova, munito addirittura di una dichiarazione scritta che si preoccupava, formalmente, di far pervenire alla struttura che lo accoglieva in ricovero, contenente la sua volontà -validamente espressa- di rifiutare trasfusioni di sangue in adempimento al suo credo religioso. Dopo aver avuto più occasioni per confermare tale volontà, dedotta chiaramente anche in cartella clinica, veniva con la forza legato, seppur cosciente, al letto d'ospedale, previo allontanamento coatto, grazie all'intervento delle forze dell'ordine, dei parenti che lo assistevano, e quindi trasfuso contro la sua volontà e nonostante un tentativo di opporsi strenuamente al trattamento sgradito; tanto che decedeva in preda al grave stato di agitazione durante la trasfusione che gli veniva, sia consentito di affermare, comminata dai sanitari che ritenevano di applicare la loro volontà in presenza della contraria espressa volontà del paziente.

Mette i brividi ed imbarazza pensare che nel codice di deontologia medica sia necessario, per quanto assolutamente opportuno, ricordare che non solo un trattamento sanitario debba necessariamente essere anticipato dall'informazione e da un valido consenso informato, ma altresì non possa essere comminato, quasi fosse una pena, in presenza dell'esplicito e valido dissenso. E' evidente che dove sta il più dovrebbe stare anche il meno ma, conosciuta anche la tragica circostanza del lager del San Raffaele e molte altre, magari meno cruente, che si sono verificate nel nostro paese, la modifica sostanziale del I° comma dell'art. 35 va accolta con chiaro favore.

Meno comprensibile e condivisibile la modifica del II° comma.

Nella precedente formulazione era previsto che il consenso fosse espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui si rendesse opportuna una manifestazione documentata della volontà, per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sull'integrità fisica; veniva però, in chiusura del II° comma, espresso il principio, fondamentale, per il quale tale espressione del consenso, contenuta nel modulo di consenso informato al quale si allude seppur implicitamente, dovesse essere integrativa e non sostitutiva del processo informativo di cui al precedente art. 33. Veniva in altri termini chiarito che il dovere di informare non potesse dirsi adempiuto per la mera sottoposizione al paziente del modulo del consenso informato che venisse eventualmente sottoscritto.

Tale ultima fondamentale prescrizione manca del tutto nella novella dell'art. 35, che prevede un II° comma laddove si afferma, invece, che l'acquisizione del consenso sia un atto medico non delegabile. Quindi, nel successivo III° comma, si chiarisce che consenso e dissenso debbono venire acquisiti in forma scritta e sottoscritta nei casi prevedibilmente gravati da un elevato rischio di mortalità o di esiti che incidano in modo permanente sull'integrità psicofisica.

Premesso che la stragrande maggioranza dei trattamenti sanitari incide, seppur in modo minimo, sull'integrità psicofisica del paziente, l'obbligo di acquisizione di consenso o dissenso in forma scritta deve ritenersi esteso pressoché alla stragrande maggioranza dei trattamenti sanitari; seppur sia importante che l'acquisizione di consenso o dissenso siano considerati atti non delegabili, la mancanza, che definirei in tal senso colpevole, di un invito a non cartolarizzare il processo informativo identificando il consenso informato nel consenso firmato, lascia fortemente perplessi.

Vero è che tale principio si può dedurre dagli articoli precedenti ma lo stesso art. 35, nella novella formulazione del suo I° comma, ci insegna che in particolari occasioni vale la pena prescrivere pure i princìpi che paiono impliciti o scontati, al fine di orientare in misura più significativa e coerente i comportamenti di coloro ai quali il precetto è rivolto.

Spariscono del tutto dall'art. 35 anche gli originari successivi commi, in particolare il III°, che prescriveva che i trattamenti che potessero comportare gravi rischi per l'incolumità dovessero essere intrapresi solo in ipotesi di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui doveva far seguito un'opportuna documentazione del consenso.

Così come il successivo IV° comma, che peraltro è stato adeguatamente sostituito dall'integrazione del novello I° comma ove, vale la pena ripeterlo, si ricorda che in ipotesi di manifestato dissenso non sia possibile porre in essere alcun trattamento medico, che finirebbe per essere contro la volontà della persona.

Anche l'ultimo comma del vecchio art. 35 non trova accoglienza nella novella. Prevedeva che il medico dovesse intervenire in scienza e coscienza nei confronti di un paziente incapace, rispettando la dignità della persona e della qualità della vita ed evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente. E' invece sostituito da un IV° ed ultimo comma che ricorda, riecheggiando l'attenzione già destinata al minore nel precedente art. 33, che il medico debba tenere in adeguata considerazione le opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che lo riguardino così da non porlo, come già osservato, ai margini della cura ma fargli conservare quantomeno parziali momenti di protagonismo nel processo decisionale.

Il successivo art. 36, la cui precedente rubrica recitava “assistenza d'urgenza”, ed oggi invece “assistenza d'urgenza e d'emergenza”, contiene una significativa novità. Allora prevedeva che, in presenza di condizioni di urgenza e tenuto conto della volontà della persona, se espressa, il medico dovesse attivarsi per assicurare l'indispensabile assistenza. Nella versione così come novellata si aggiunge che debbono essere tenute in considerazione anche le dichiarazioni anticipate di trattamento, se manifestate, così che anche in condizioni di urgenza e di emergenza possa esser assegnato, com'è giusto, rilievo alla volontà del paziente.

Anche il successivo art. 37, come i precedenti, si caratterizza per l'ampliata considerazione e affermazione di dignità del dissenso al pari del consenso, già nella rubrica dell'articolo che dalla precedente formulazione (consenso del legale rappresentante) passa alla nuova “consenso o dissenso del rappresentante legale”.

La voluta insistenza del richiamo alla pari dignità di dissenso e consenso paiono, per le ragioni già espresse, vieppiù giustificate anche allorché, come nel I° comma, si ricorda al pari di quanto già accadeva, che in presenza di un paziente minore o incapace la manifestazione di consenso o dissenso informato, così come l'informazione, debbano essere espresse, per un verso, e ricevuta, per l'altro, dal rappresentante legale con un'informativa all'amministratore di sostegno eventualmente nominato.

L'ultimo comma nella precedente formulazione di fatto, seppur semplificato, viene conservato anche nel novellato art. 37 laddove è previsto che il medico segnali all'autorità competente l'opposizione da parte del minore informato e consapevole, o di chi ne eserciti la potestà genitoriale, ad un trattamento ritenuto necessario e in relazione alle condizioni cliniche possa comunque procedere tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili.

Anche la rubrica del successivo art. 38 trova ragione di modifica.

La sua precedente formulazione (autonomia del cittadino e direttive anticipate) viene modificata nell'attuale “dichiarazioni anticipate di trattamento”.

La precedente formulazione dell'art. 38 invero poteva risultare per certi versi ripetitiva di principi precedentemente affermati e meno incisiva di quella attuale.

Ribadita la necessità di rispettare la volontà liberamente espressa dal paziente e l'obbligo di offrire  adeguata informazione anche al minore, tenendo conto della sua volontà, prevedeva in ipotesi di insanabili divergenze con il legale rappresentante di segnalare il caso all'autorità giudiziaria, di fatto ripetendo principi in parte riferiti al precedente art. 37. Solo l'ultimo comma prevedeva, ove il paziente non fosse in grado di esprimere la propria volontà, di tener conto delle sue scelte in quanto precedentemente manifestate in modo certo e documentato.

Il novello art. 38 invece concentra immediatamente la sua attenzione sull'argomento che per ultimo la precedente versione prevedeva, osservando che il medico debba tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata dalla persona capace e successive a un'informazione medica della quale resti traccia documentale.

In tal modo si raggiunge il risultato di rafforzare sia la forma che deve avere la dichiarazione anticipata di trattamento, scritta, sottoscritta e datata, sia la condizione soggettiva di chi la esprima, indicata quale persona capace, che infine la condizione che la renda valida, consistente in un'informazione medica della quale rimanga traccia documentale.

Proprio quest'ultima condizione, contenuta nella locuzione “e successive (le dichiarazioni anticipate di trattamento n.d.r.) a un'informazione medica della quale resta traccia documentale” può provocare alcuni problemi di interpretazione. Se letta secondo l'ordine, la logica e il significato delle parole utilizzate sembra quasi che il medico debba tener conto di dichiarazioni anticipate di trattamento che abbiano determinate caratteristiche e, tra esse, quella di essere successive alla prestazione di un'informazione altrettanto scritta. Se per un verso sia certamente utile conservare la traccia documentale sia dell'informazione medica che delle successive dichiarazioni anticipate di trattamento, in modo da esser certi che possano essere consapevoli perché precedute ad adeguata informazione, va considerata pure la possibilità che le dichiarazioni anticipate di trattamento siano messe a disposizione per iscritto dall'interessato, a prescindere dall'informazione che gli sia stata resa dal sanitario che abbia il destino di riceverle. A questo punto è lecito chiedersi se si possa ritenere che soddisfino le condizioni previste dal I° comma ovvero se sia consigliabile, come pare, che il sanitario le acquisisca dopo aver ulteriormente fornito informazione scritta al paziente e avergli chiesto se, sulla scorta della stessa, questi intenda confermare la propria volontà.

Il successivo II° comma spiega che la dichiarazione anticipata di trattamento comprova la libertà e la consapevolezza della scelta sui trattamenti diagnostico-terapeutici che si desidera o non si desidera vengano attuati, in condizione di totale o grave compromissione delle facoltà cognitive o valutative che impediscono l'espressione di volontà attuali.

Il III° comma prevede che il medico, nel tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, verifichi la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto e ispiri quindi la propria condotta al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria e, quindi, in ipotesi per lo più verificabile nella pratica, di ricovero, debba tenerne nota espressa nella cartella clinica.

In tali momenti il medico deve cooperare con il rappresentante legale perseguendo il miglior interesse del paziente e, in ipotesi di contrasto, deve avvalersi del dirimente giudizio arbitrario previsto dalla normativa vigente e in relazione alle condizioni cliniche deve procedere comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili.

Con l'effetto che, in attesa del giudizio arbitrale giustificato dal contrasto con il rappresentante legale, in presenza della necessità di applicare cure ritenute indispensabili e indifferibili, il sanitario deve comunque tempestivamente applicarle.

E' interessante riflettere sulla difficoltà che in questi casi incontrerà certamente il sanitario, in particolar modo perché il precedente comma afferma, come premesso, che rispetto alle dichiarazioni anticipate di trattamento il sanitario “verifica la loro congruenza logica e clinica con la condizione in atto...”, con il che sembra essergli attribuito un vaglio di congruità sia logica che clinica, in grado anche di porlo nella condizione di essere contrario alla loro applicazione per quanto sia invitato ad ispirare la propria condotta “al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente”. Ebbene, in tale frangente sarebbe forse stato più opportuno imporre al sanitario di ispirare la propria condotta non solo al rispetto della dignità e della qualità di vita del paziente, ma anche alla sua volontà, poiché attribuire al sanitario la facoltà di decidere quale percorso debba essere affrontato per la salvaguardia della dignità e qualità di vita del paziente, significa trasferire comunque su di un terzo, per quanto assolutamente interessato alla cura del paziente, il potere di calibrare la condotta con notevoli difficoltà di attuare invece la pur auspicata primazia del diritto del paziente ad autodeterminarsi alla cura secondo il suo orizzonte di valori.

Risulterà quindi molto importante che le dichiarazioni anticipate di trattamento siano redatte con l'ausilio di consulenti, sia sotto il profilo medico legale che giuridico, affinché i dubbi sulla loro “congruenza logica e clinica” possano essere fugati sin dall'inizio al fine di sottrarre spiragli di discrezionalità alla condotta del sanitario.

Il titolo IV° termina con la previsione dell'art. 39 che, nella precedente formulazione, in realtà costituiva l'esordio del successivo capo V°, denominato “assistenza ai malati inguaribili” e composto, per l'appunto, di una sola norma. Il capo V° di fatto viene sostituito dal successivo titolo V° e l'originario art. 39 diventa, come premesso, la norma di chiusura del titolo IV° e la sua rubrica (assistenza al malato a prognosi infausta) viene sostituita con la nuova “assistenza al malato con prognosi infausta o in condizioni terminali”.

L'esordio di tale ultima regola è certamente molto forte, laddove si afferma che “il medico non abbandona il malato con prognosi infausta ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la sua opera alla sedazione del dolore e al sollievo delle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita”.

La scelta di una così forte locuzione può alludere, per un verso, alla necessità di segnare un cambio di rotta rispetto a quanto poteva accadere in passato (si ricorda ad un sanitario di “non abbandonare” solo per evitare che venga posta in essere una condotta altrimenti adottata), per l'altro anticipa, in adesione alle linee guida in materia di dolore e cure palliative, quanto previsto dal successivo comma, ove si ricorda che “in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del malato il medico deve proseguire nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento”.

La diversa prospettiva rispetto alla precedente formulazione dell'art. 39, che prevedeva in ipotesi di malattia con prognosi sicuramente infausta o di malati in fase terminale il risparmio di inutili sofferenze psicofisiche al paziente e l'applicazione dei trattamenti appropriati a conservare la qualità della vita e la dignità della persona (prescrivendo che in caso di compromissione dello stato di coscienza il medico dovesse proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile, evitando ogni forma di accanimento terapeutico), è piuttosto evidente. Nel novello art. 39 non viene posto un esplicito riferimento all'accanimento terapeutico, ma il sanitario viene invitato ai trattamenti di sostegno delle funzioni vitali in quanto proporzionati e ammonito circa la necessità di rispettare le dichiarazioni anticipate di trattamento.

La nuova formulazione sembra volutamente non nominare l'accanimento terapeutico ma spostare l'attenzione, da un lato, sulla necessità di non abbandonare il paziente sol perché destinato alla morte, applicando anche cure palliative e terapia del dolore nel frattempo divenute obblighi di legge e la cui indicazione va necessariamente riportata in cartella clinica; dall'altro, pone l'accento sul rispetto delle dichiarazioni anticipate di trattamento attirando l'attenzione sulla virata, nel senso di rispetto della volontà del paziente, che anche il codice di deontologia deve far propria.


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