Andranno escluse in linea di massima sanzioni, civili e penali, nei casi di assistenza - al suicidio - prestata a favore di un parente o di un amico il quale accusi spasmi insopportabili; e che abbia scelto l’approdo alla morte quale via per sottrarsi a quell’incubo.
La materia è come si sa in forte evoluzione nei paesi europei; dove permane comunque, con diversi gradi di severità, la punibilità dell’aiuto al suicidio dettato da motivi di filantropia.
Filo prescrittivo dovrebbe essere, qui, il tendenziale scagionamento per chi abbia scelto di non voltare le spalle a una persona che soffra in modo grave; nei confronti della quale la scienza medica appaia disarmata, sostanzialmente, pure a livello di terapia del dolore; che non abbia alcuna possibilità di guarigione o miglioramento; la cui permanenza in vita non sia legata a un trattamento di sostegno, prestato meccanicamente; che non desideri, avendolo scritto o detto in modo espresso, continuare più a vivere; che non sia in grado, per ragioni fisiche o d’altro genere, di uccidersi da solo.
Come non vedere in effetti, anche se differenze possono non mancare, la crudeltà di un assetto nel quale l’aiuto a porre fine all’esistenza – dinanzi a sofferenze devastanti, di pari grado - venisse concesso oppure negato a seconda della dipendenza o meno, per il malato, da qualche “aggeggio ingegneristico”? Un paziente non vincolato cioè ad alcun macchinario ospedaliero per la sua sopravvivenza, e che continuando a rimanere al mondo soffra però terribilmente, senza che i farmaci riescano a lenire le sue fitte, in termini apprezzabili, non potrà venire aiutato in nessun modo?