Interessi protetti  -  Federico Basso  -  08/11/2022

Recentissime dalla giurisprudenza in materia di usucapione

L’istituto dell’usucapione può considerarsi la più alta espressione della tutela del possesso dato che vale a promuoverlo in diritto di proprietà in forza del semplice decorso del tempo, tant’è che il relativo accertamento giudiziale ha natura meramente dichiarativa.

Come noto, l’usucapione presuppone un possesso (anche di mala fede) continuo, non interrotto, pacifico e non clandestino, il quale può maturarsi anche mediante accessione a favore del successore a titolo particolare ai sensi dell’art. 1146 comma 2 c.c. ma, in questo caso, solo a condizione che sussista un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà od altro diritto reale sul bene, non essendo sufficiente il trasferimento di un mero potere di fatto sulla cosa (vedi in tal senso la recentissima Cass. ord. 18/5/2021 n. 13274). Più precisamente, chi intende avvalersi dell'accessione del possesso di cui all'art. 1146, c.2 c.c. per unire il proprio possesso a quello del dante causa ai fini dell'usucapione deve fornire la prova di aver acquisito un titolo astrattamente idoneo (ancorché invalido o proveniente a non domino) a giustificare la traditio del bene oggetto della signoria di fatto, operando detta accessione con riferimento e nei limiti del titolo traslativo e non oltre lo stesso (Cassazione civile sez. II - 30/06/2022, n. 20832; Cassazione civile sez. II - 16/03/2022, n. 8596).

Tant’è che, ad esempio:

  • il promissario acquirente a cui viene consegnata anticipatamente la cosa, la detiene a titolo obbligatorio (parziale anticipata esecuzione del contratto definitivo di trasferimento della proprietà oppure comodato), così ravvisandosi una detenzione qualificata ma restando escluso il possesso ad usucapionem (in questo senso anche Cass. 9/7/2021 n. 19576), il quale viene trasmesso ad altro soggetto solo in base ad una convenzione munita di effetti reali e non già di effetti meramente obbligatori, peraltro a nulla rilevando che il contratto, astrattamente idoneo a trasferire la proprietà od altro diritto reale, sia inefficace (Cass. 17/6/2021 n. 17388);
  • il divieto di cessione del diritto reale di uso su una porzione di cortile condominiale attribuito ad uno dei condomini non comporta che non sia configurabile in favore del successore a titolo particolare nella proprietà individuale dell'unità immobiliare, al cui servizio essa è destinata, l'accessione del possesso agli effetti dell' 1146, comma 2, c.c. (nella specie, allo scopo di suffragare una maturata usucapione), anche in difetto di espressa menzione dei diritto d'uso nel contratto di alienazione, occorrendo ai fini del cumulo dei distinti possessi del successore e del suo autore unicamente la prova di un 'titolo' astrattamente idoneo, ancorché invalido, a giustificare la "traditio" del medesimo oggetto del possesso. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che l'accessione del possesso del diritto reale di uso dell'area di cortile antistante l'unità immobiliare di proprietà esclusiva, può realizzarsi in favore del successore a titolo particolare nella proprietà dell'immobile, unendo il proprio possesso a quello della società costruttrice, relativo all'uso esclusivo della porzione di cortile riservato dal regolamento condominiale) (Cassazione civile sez. II - 21/06/2022, n. 19940).

Occorre, infine precisare che il principio dell'accessione del possesso è applicabile non solo all'usucapione di cui all'art. 1158 c.c., ma anche a quella decennale di cui all'art. 1159 c.c.; in quest'ultimo caso, ai fini della maturazione dell'usucapione abbreviata in favore di chi abbia acquistato da meno di dieci anni e unisca al proprio il possesso del suo autore per goderne gli effetti, il decennio "ad usucapionem" decorre dalla data della trascrizione del titolo di acquisto del suo autore (Cassazione civile sez. II - 01/03/2022, n. 6728).

Sul piano processuale, invece, si è recentemente precisato che in tema di usucapione, dalla presunzione discendente dall'art. 1141, comma 1, c.c. deriva un'inversione dell'onere probatorio in punto di "animus possidendi", cosicché non spetta al possessore dimostrare l'esistenza di tale elemento soggettivo, ma alla parte che si opponga all'avvenuta maturazione dell'usucapione dimostrarne la mancanza (Cassazione civile sez. II - 22/08/2022, n. 25095).

Inoltre, se si intende invocare un possesso ad usucapionem generato da un atto di interversione, occorrerà dare rigorosa prova, atteso che la giurisprudenza più recente (Cass. ord. 11/8/2021 n. 22730 in tema di usucapione del bene comune da parte di un comproprietario) è giunta ad affermare che non è nemmeno sufficiente una prova testimoniale che abbia dimostrato il godimento esclusivo del cespite, atteso che tale godimento, precisa la S.C., <<non costituisce elemento sufficiente ai fini della dimostrazione della derivazione di detta disponibilità da un comportamento non qualificabile in termini di semplice detenzione>>. Occorre quindi che la prova si estenda ad elementi di fatto che convincano il giudice che la disponibilità del bene era attuata con modalità incompatibili con le modalità che avrebbero potuto essere attuate da un semplice detentore.

Il rigore probatorio, che la recente giurisprudenza pare condividere in modo unanime, ha trovato altresì espressione in altra sentenza di merito (App. Reggio Calabria 26/2/2021 n. 114) secondo cui la semplice inottemperanza a pattuizioni contrattuali non è idonea ad integrare atto di interversione utile a far decorrere il termine per l’usucapione.

Due recenti arresti giurisprudenziali hanno giudicato fattispecie particolari.

Il primo (Cass. S.U. 17/12/2020 n. 28972), confermando il principio del numerus clausus dei diritti reali, ha attribuito natura personale ed obbligatoria al diritto di uso esclusivo (od individuale) su una porzione di un bene condominiale concesso ad uno dei condomini. Da tale qualifica discende il problema sia dell’opponibilità del diritto di godimento ai terzi sia l’impossibilità di sua alienazione.

Stante l’enorme rilevanza pratica del problema derivante dal gran numero di tali diritti costituiti nei decenni di sviluppo edilizio, è necessario porsi l’interrogativo circa la possibile avvenuta usucapione della proprietà della porzione di bene comune da parte di colui che, in via esclusiva, ha esercitato il godimento in forza dell’uso esclusivo (od individuale). È evidente, infatti, che una risposta positiva a tale interrogativo consentirebbe al titolare dell’uso di diventare proprietario della porzione immobiliare (sebbene attraverso un apposito procedimento giudiziario) con conseguente possibilità di sua alienazione, la quale, sovente, è idonea a contribuire in modo rilevante al valore del bene principale.

La risposta deve prendere le mosse dalla natura meramente personale del diritto di uso esclusivo (od individuale) dalla quale discende che al condomino titolare spetta sul bene un possesso non già esclusivo bensì solamente uti condominus(in tal senso vedi anche App. Reggio Calabria 12/4/2021 n. 224). Occorre pertanto, ai fini della potenziale usucapione, che il suo godimento venga esercitato a titolo di vero e proprio possesso, il che presuppone, secondo la regola generale, la manifestazione di un atto di interversione unito alla rigorosa prova non solo della totale esclusione degli altri condomini dalla materiale disponibilità del bene ma anche dell’impossibilità per gli altri condomini di riprendere tale disponibilità senza la collaborazione del possessore.

Il secondo (Cass. 21/5/2020 n. 9380) ha affrontato il problema dell’usucapibilità del lastrico solare.

La Corte, dopo aver ribadito la presunzione di condominialità ex art. 1117, comma 1, n. 1) c.c. dei lastrici solari ed i criteri di riparto delle spese sanciti dall’art. 1126 c.c. per quelli in uso o in proprietà esclusiva, ha affermato che «[…] una volta ammessa l'appartenenza esclusiva del lastrico, è consequenziale ammettere che la proprietà dello stesso possa essere acquistata per usucapione».

Peraltro, sul tema risulta rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità un unico precedente (Cass., 25 ottobre 1968, n. 3544), a detta del quale i tetti ed i lastrici solari non possono essere acquistati per usucapione da un condomino, giacché sono concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri condomini per effetto della connaturata destinazione di detti beni alla copertura ed alla protezione del fabbricato, mentre l’usucapione presuppone un possesso esclusivo e l’esclusione di qualsiasi uso da parte degli altri condomini. In altri termini la funzione primaria di copertura dell’edificio svolta dal lastrico, anche in presenza di un uso del medesimo esercitato, di fatto, da parte di uno solo dei condomini, andrebbe ad integrare quel minimum di uso paritario, promiscuo e simultaneo della cosa comune, da attuarsi mediante un congegno di reciprocità, che l’art. 1102, comma 1 c.c. riconosce dover spettare, perlomeno in astratto, ad ogni comproprietario, con la conseguenza che il lastrico solare non sarebbe suscettibile di usucapione, stante l’insopprimibilità delle utilità tratte dagli altri partecipi della comunione.

La pronuncia in esame, ponendosi in consapevole contrasto con tale orientamento, ha, invece, sancito che il condomino può usucapire il lastrico solare, poiché «[…] l'utilitas concettualmente insopprimibile - copertura dell'edificio - che tutti i condomini ricavano dal lastrico solare non costituisce una facoltà connessa al diritto di proprietà, esercitabile dal proprietario ovvero dal possessore o compossessore, trattandosi di utilità che si trae dal bene in sé, mentre sono altre le utilità, esse sì corrispondenti ad altrettante facoltà connesse alla proprietà e coincidenti con il godimento del bene, che possono rilevare ai fini dell'usucapione».

A tal fine ha, però, precisato la Suprema Corte (nell’alveo dei precedenti giurisprudenziali) che non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire.

Più precisamente, «[…] il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all'usucapione e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà (ex plurimis, Cass. 02/03/1998, n, 2261; Cass. 23/07/2010, n. 17322; Cass. 09/06/2015, n. 11903; Cass. 19/10/2017, n. 24781)».

Quest’ultima affermazione introduce un’ultima tematica da affrontare, e cioè la questione relativa ai rapporti tra compossesso e interversio possessionis. Ci si chiede, in altri termini, se, ai fini dell’usucapione del bene comune da parte di uno dei comproprietari, occorrano necessariamente atti di interversione del possesso, ovvero sia sufficiente la dimostrazione di aver posseduto uti dominus e non uti condominus.

Per analizzare la tematica occorre prendere le mosse dal disposto dell’art. 1102, c.2 c.c., il quale, nello stabilire che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, sembra potersi accostare a quanto sancito dagli artt. 1141 e 1164 c.c.

E, infatti, questa fu l’interpretazione di una parte della dottrina più risalente, secondo la quale la diversità delle formule usate nelle varie norme non avrebbe implicato nella sostanza alcuna diversità di significato, con la conseguenza per cui per il comproprietario avrebbe dovuto necessariamente compiere atti di interversione del possesso ai fini dell’usucapione del bene comune.

Questa, tuttavia, non è stata la lettura della giurisprudenza, la quale, secondo un orientamento assolutamente consolidato, non richiede che ai fini dell’usucapione il contitolare ponga in essere atti di interversio possessionis, essendo sufficiente che costui estenda il suo possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus".

A titolo di esempio si può citare, ex multis, Cassazione civile sez. II, 03/05/2018, n.10494, secondo cui il partecipante alla comunione, il quale intenda dimostrare l'intenzione di possedere non a titolo di compossesso ma di possesso esclusivo, non ha la necessità di compiere atti di "interversio possessionis" alla stregua dell'articolo 1164 del codice civile; il mutamento del titolo deve però consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo e animo domini della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui, mentre non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo a un'estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore. “In tema di comunione, infatti, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, nè una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva.

Di conseguenza in assenza di tale univoco comportamento il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva (Cass. 11903/2015)”.

Inoltre, pare opportuno precisare che il comproprietario che voglia estenda il suo possesso in termini di esclusività, deve godere effettivamente del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui, risultando a tal fine insufficiente la mera astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune (Tribunale sez. II - Palermo, 05/09/2022, n. 347).

I medesimi principi sono stati ribaditi, di recente:

  • in riferimento all’usucapione della quota degli altri eredi da parte del coerede in possesso del bene ereditario. Invero, il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune. (Nella specie la S.C., riformando la pronuncia di merito, ha escluso che possa costituire prova dell'usucapione di un appartamento la circostanza che il coerede, che già vi abitava con il padre, abbia continuato, dopo la morte di questi, ad essere l'unico ad averne la disponibilità) (Cassazione civile sez. II - 08/04/2021, n. 9359);
  • in tema di successione ereditaria, in cui si è affermato che il possesso esclusivo di un libretto al portatore, in capo ad un coerede, utile per l'usucapione, implica un atto positivo del possessore tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune e irrilevante la legittimazione del possessore ex art. 2003 c.c. a ricevere il pagamento delle somme ivi depositate dalla banca, con effetto liberatorio per quest'ultima, siccome non indicativa dell'unicità del titolare del diritto (Cassazione civile sez. II - 19/07/2022, n. 22663).

Infine, pare opportuno ricordare come la giurisprudenza si sia di recente attestata su posizioni alquanto rigorose in tema di prova dell’esclusività del possesso: la già menzionata Cass. ord. 11/8/2021 n. 22730 (in tema di usucapione del bene comune da parte di un comproprietario) è giunta ad affermare che non è nemmeno sufficiente una prova testimoniale che abbia dimostrato il godimento esclusivo del cespite, atteso che tale godimento, precisa la S.C., <<non costituisce elemento sufficiente ai fini della dimostrazione della derivazione di detta disponibilità da un comportamento non qualificabile in termini di semplice detenzione>>. Occorre, quindi, che la prova si estenda ad elementi di fatto che convincano il giudice che la disponibilità del bene era attuata con modalità incompatibili con le modalità che avrebbero potuto essere attuate da un semplice detentore.

Sempre sul piano processuale, l’eventuale domanda del comproprietario volta ad accertare l’intervenuta usucapione del bene comune integrerà un’ipotesi di litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.), dovendo, pertanto, essere citati in giudizio tutti i contitolari.




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