Interessi protetti  -  Paolo Basso  -  02/12/2022

Possesso e forme di autotutela

5. Quali altre forme di autotutela?

5.1. Il possesso di buona fede dei beni mobili (art. 1153 c.c.)

In forza della regola “possesso vale titolo”, volta a favorire e rendere certa la circolazione dei beni mobili non registrati, la consegna rileva come momento iniziale di un possesso che, istantaneamente, si trasforma nella proprietà del bene mobile, atteggiandosi come semplice esecuzione di un negozio che –nell’errata prospettazione dell’acquirente in buona fede- è dotato di per se stesso di efficacia reale e ciò senza che sia richiesto un possesso in capo all’alienante.

Anzi, è sufficiente che l’alienante, per attuare un’idonea consegna, abbia la semplice detenzione del bene.

Occorre invece che l’alienante sia il tramite della consegna: questa deve quindi avvenire per opera dello stesso soggetto che ha fornito il titolo di acquisto (eventualmente anche per interposta persona che, tuttavia, sia un semplice incaricato dell’alienante), giacché, altrimenti, non potrebbe sussistere la buona fede dell’acquirente.

Il possesso in capo all’acquirente, iniziato con la consegna, deve essere effettivo e quindi deve presentare sia l’animus possidendi sia il corpus possessionis.

Nonostante i contrasti in dottrina, non pare idoneo il costituto possessorio ossia quella forma di consegna simbolica o consensuale per cui l’alienante rimane nella detenzione nomine alieno e cioè a favore dell’acquirente. E ciò perché la norma dell’art. 1155 c.c., che regola il conflitto tra successivi acquirenti della stessa cosa dalla medesima persona facendo prevalere colui che per primo acquista il possesso in buona fede, implica un possesso materialmente trasmesso, giacché, diversamente, sarebbe inapplicabile, trovandosi tutti i vari acquirenti nella medesima posizione per effetto del detto costituto, implicito in ogni singola alienazione.

La consegna può avvenire anche brevi manu anche prima della formazione del titolo idoneo al trasferimento della proprietà ma in base ad un contratto diverso. In tal caso, effettuata l’alienazione, l’acquirente da detentore si trasforma in possessore ed il trasferimento della situazione di fatto avviene solo animo. Se in questo preciso momento l’acquirente è in buona fede, egli acquista la proprietà a norma dell’art. 1153 c.c. E giova rimarcare che la buona fede si presume e quindi spetta al rivendicante dare la prova della malafede dell’acquirente.

Il titolo nullo non è idoneo a far conseguire la proprietà istantanea ex art. 1153 c.c. mentre lo è il titolo annullabile.

Il titolo idoneo non può essere costituito dall’accettazione dell’eredità in quanto questa è effetto della volontà unilaterale del successore e non anche del suo dante causa (Cass. 4/2/2021 n. 2612).

La regola “possesso vale titolo” ha avuto frequente applicazione in tema di beni di valore artistico ed in merito si segnalano due recenti sentenze della Suprema Corte.

La prima (Cass. 4/2/2021 n. 2612 cit.) richiede che la domanda di rivendica del bene già oggetto di furto debba essere supportata dalla prova della proprietà ex art. 1153 c.c. in capo al rivendicante ossia dalla prova non solo del possesso ma anche dell’esistenza del titolo astrattamente idoneo al trasferimento.

La seconda (Cass. 30/4/2021 n. 11465) che stabilisce che il possesso possa dirsi acquistato ed esercitato pubblicamente solo quando ciò avvenga in modo visibile a tutti od almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo ad una limitata cerchia di persone.

5.2. Il conflitto fra più acquirenti (art. 1155 c.c.) 

Si è già fatto cenno alla regola della prevalenza di chi consegue il possesso della cosa prima di un altro acquirente della stessa cosa dalla stessa persona e ciò a prescindere dalla posteriorità o meno del titolo di acquisto.

La regola costituisce chiara espressione della tutela del possesso effettivo di un bene mobile non registrato

5.3. Il possesso di titoli di credito (art. 1157 c.c.)

Ai fini del possesso i titoli di credito sono equiparati ai beni mobili non registrati, tant’è che l’art. 1157 c.c. rinvia al Titolo V del Libro IV del codice civile, che, all’art. 1994, tutela colui che ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, purché in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, sottraendolo all’azione di rivendicazione.

6. L’usucapione 

L’istituto dell’usucapione può considerarsi la più alta espressione della tutela del possesso dato che vale a promuoverlo in diritto di proprietà in forza del semplice decorso del tempo, tant’è che il relativo accertamento giudiziale ha natura meramente dichiarativa.

Come noto, l’usucapione presuppone un possesso (anche di mala fede) continuo, non interrotto, pacifico e non clandestino, il quale può maturarsi anche mediante accessione a favore del successore a titolo particolare ai sensi dell’art. 1146 comma 2 c.c. ma, in questo caso, solo a condizione che sussista un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà od altro diritto reale sul bene, non essendo sufficiente il trasferimento di un mero potere di fatto sulla cosa (vedi in tal senso la recente Cass. ord. 18/5/2021 n. 13274). Più precisamente, chi intende avvalersi dell'accessione del possesso di cui all'art. 1146, c. 2 c.c. per unire il proprio possesso a quello del dante causa ai fini dell'usucapione deve fornire la prova di aver acquisito un titolo astrattamente idoneo (ancorché invalido o proveniente a non domino) a giustificare la traditio del bene oggetto della signoria di fatto, operando detta accessione con riferimento e nei limiti del titolo traslativo e non oltre lo stesso (Cass. 30/06/2022 n. 20832; Cass.16/03/2022 n. 8596).

Tant’è che, ad esempio: 

  • il promissario acquirente a cui viene consegnata anticipatamente la cosa, la detiene a titolo obbligatorio (parziale anticipata esecuzione del contratto definitivo di trasferimento della proprietà oppure comodato), così ravvisandosi una detenzione qualificata ma restando escluso il possesso ad usucapionem (in questo senso anche Cass. 9/7/2021 n. 19576), il quale viene trasmesso ad altro soggetto solo in base ad una convenzione munita di effetti reali e non già di effetti meramente obbligatori, peraltro a nulla rilevando che il contratto, astrattamente idoneo a trasferire la proprietà od altro diritto reale, sia inefficace (Cass. 17/6/2021 n. 17388);
  • il divieto di cessione del diritto reale di uso su una porzione di cortile condominiale attribuito ad uno dei condomini non comporta che non sia configurabile in favore del successore a titolo particolare nella proprietà individuale dell'unità immobiliare, al cui servizio essa è destinata, l'accessione del possesso agli effetti dell'art. 1146, comma 2, c.c. (nella specie, allo scopo di suffragare una maturata usucapione), anche in difetto di espressa menzione dei diritto d'uso nel contratto di alienazione, occorrendo ai fini del cumulo dei distinti possessi del successore e del suo autore unicamente la prova di un 'titolo' astrattamente idoneo, ancorché invalido, a giustificare la "traditio" del medesimo oggetto del possesso. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che l'accessione del possesso del diritto reale di uso dell'area di cortile condominile antistante l'unità immobiliare di proprietà esclusiva, può realizzarsi in favore del successore a titolo particolare nella proprietà dell'immobile, unendo il proprio possesso a quello della società costruttrice, relativo all'uso esclusivo della porzione di cortile riservato dal regolamento condominiale) (Cass. 21/06/2022 n. 19940).

Occorre, infine precisare che il principio dell'accessione del possesso è applicabile non solo all'usucapione di cui all'art. 1158 c.c., ma anche a quella decennale di cui all'art. 1159 c.c.; in quest'ultimo caso, ai fini della maturazione dell'usucapione abbreviata in favore di chi abbia acquistato da meno di dieci anni e unisca al proprio il possesso del suo autore per goderne gli effetti, il decennio "ad usucapionem" decorre dalla data della trascrizione del titolo di acquisto del suo autore (Cass. 1/03/2022 n. 6728).

Sul piano processuale, invece, si è recentemente precisato che in tema di usucapione, dalla presunzione discendente dall'art. 1141, comma 1, c.c. deriva un'inversione dell'onere probatorio in punto di "animus possidendi", cosicché non spetta al possessore dimostrare l'esistenza di tale elemento soggettivo, ma alla parte che si opponga all'avvenuta maturazione dell'usucapione dimostrarne la mancanza (Cass. 22/08/2022 n. 25095).

Inoltre, se si intende invocare un possesso ad usucapionem generato da un atto di interversione, occorrerà dare rigorosa prova, atteso che la giurisprudenza più recente (Cass. ord. 11/8/2021 n. 22730 in tema di usucapione del bene comune da parte di un comproprietario) è giunta ad affermare che non è nemmeno sufficiente una prova testimoniale che abbia dimostrato il godimento esclusivo del cespite, atteso che tale godimento, precisa la S.C., <<non costituisce elemento sufficiente ai fini della dimostrazione della derivazione di detta disponibilità da un comportamento non qualificabile in termini di semplice detenzione>>. Occorre quindi che la prova si estenda ad elementi di fatto che convincano il giudice che la disponibilità del bene era attuata con modalità incompatibili con le modalità che avrebbero potuto essere attuate da un semplice detentore.

Il rigore probatorio, che la recente giurisprudenza pare condividere in modo unanime, ha trovato altresì espressione in altra sentenza di merito (App. Reggio Calabria 26/2/2021 n. 114) secondo cui la semplice inottemperanza a pattuizioni contrattuali non è idonea ad integrare atto di interversione utile a far decorrere il termine per l’usucapione.

Due recenti arresti giurisprudenziali hanno giudicato fattispecie particolari.

Il primo (Cass. S.U. 17/12/2020 n. 28972), confermando il principio del numerus clausus dei diritti reali, ha attribuito natura personale ed obbligatoria al diritto di uso esclusivo (od individuale) su una porzione di un bene condominiale concesso ad uno dei condomini. Da tale qualifica discende il problema sia dell’opponibilità del diritto di godimento ai terzi sia l’impossibilità di sua alienazione.

Stante l’enorme rilevanza pratica del problema derivante dal gran numero di tali diritti costituiti nei decenni di sviluppo edilizio, è necessario porsi l’interrogativo circa la possibile avvenuta usucapione della proprietà della porzione di bene comune da parte di colui che, in via esclusiva, ha esercitato il godimento in forza dell’uso esclusivo (od individuale). È evidente, infatti, che una risposta positiva a tale interrogativo consentirebbe al titolare dell’uso di diventare proprietario della porzione immobiliare (sebbene attraverso un apposito procedimento giudiziario) con conseguente possibilità di sua alienazione, la quale, sovente, è idonea a contribuire in modo rilevante al valore del bene principale.

La risposta deve prendere le mosse dalla natura meramente personale del diritto di uso esclusivo (od individuale) dalla quale discende che al condomino titolare spetta sul bene un possesso non già esclusivo bensì solamente uti condominus (in tal senso vedi anche App. Reggio Calabria 12/4/2021 n. 224). Occorre pertanto, ai fini della potenziale usucapione, che il suo godimento venga esercitato a titolo di vero e proprio possesso, il che presuppone, secondo la regola generale, la manifestazione di un atto di interversione unito alla rigorosa prova non solo della totale esclusione degli altri condomini dalla materiale disponibilità del bene ma anche dell’impossibilità per gli altri condomini di riprendere tale disponibilità senza la collaborazione del possessore.

Il secondo (Cass. 21/5/2020 n. 9380) ha affrontato il problema dell’usucapibilità del lastrico solare.

La Corte, dopo aver ribadito la presunzione di condominialità ex art. 1117, comma 1, n. 1) c.c. dei lastrici solari ed i criteri di riparto delle spese sanciti dall’art. 1126 c.c. per quelli in uso o in proprietà esclusiva, ha affermato che «[…] una volta ammessa l'appartenenza esclusiva del lastrico, è consequenziale ammettere che la proprietà dello stesso possa essere acquistata per usucapione».

Peraltro, sul tema risulta rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità un unico precedente (Cass., 25 ottobre 1968, n. 3544), a detta del quale i tetti ed i lastrici solari non possono essere acquistati per usucapione da un condomino, giacché sono concettualmente insopprimibili le utilità tratte dagli altri condomini per effetto della connaturata destinazione di detti beni alla copertura ed alla protezione del fabbricato, mentre l’usucapione presuppone un possesso esclusivo e l’esclusione di qualsiasi uso da parte degli altri condomini. In altri termini la funzione primaria di copertura dell’edificio svolta dal lastrico, anche in presenza di un uso del medesimo esercitato, di fatto, da parte di uno solo dei condomini, andrebbe ad integrare quel minimum di uso paritario, promiscuo e simultaneo della cosa comune, da attuarsi mediante un congegno di reciprocità, che l’art. 1102, comma 1 c.c. riconosce dover spettare, perlomeno in astratto, ad ogni comproprietario, con la conseguenza che il lastrico solare non sarebbe suscettibile di usucapione, stante l’insopprimibilità delle utilità tratte dagli altri partecipi della comunione.

La pronuncia in esame, ponendosi in consapevole contrasto con tale orientamento, ha, invece, sancito che il condomino può usucapire il lastrico solare, poiché «[…] l'utilitas concettualmente insopprimibile - copertura dell'edificio - che tutti i condomini ricavano dal lastrico solare non costituisce una facoltà connessa al diritto di proprietà, esercitabile dal proprietario ovvero dal possessore o compossessore, trattandosi di utilità che si trae dal bene in sé, mentre sono altre le utilità, esse sì corrispondenti ad altrettante facoltà connesse alla proprietà e coincidenti con il godimento del bene, che possono rilevare ai fini dell'usucapione».

A tal fine ha, però, precisato la Suprema Corte (nell’alveo dei precedenti giurisprudenziali) che non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire. 

Più precisamente, «[…] il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune deve provare di averla sottratta all'uso comune per il periodo utile all'usucapione e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituita da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l'intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l'imprescrittibilità del diritto in comproprietà (ex plurimis, Cass. 02/03/1998, n, 2261; Cass. 23/07/2010, n. 17322; Cass. 09/06/2015, n. 11903; Cass. 19/10/2017, n. 24781)».

Quest’ultima affermazione introduce un’ultima tematica da affrontare, e cioè la questione relativa ai rapporti tra compossesso e interversio possessionis. Ci si chiede, in altri termini, se, ai fini dell’usucapione del bene comune da parte di uno dei comproprietari, occorrano necessariamente atti di interversione del possesso, ovvero sia sufficiente la dimostrazione di aver posseduto uti dominus e non uti condominus.

Per analizzare la tematica occorre prendere le mosse dal disposto dell’art. 1102 c. 2 c.c., il quale, nello stabilire che il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, sembra potersi accostare a quanto sancito dagli artt. 1141 e 1164 c.c.

E, infatti, questa fu l’interpretazione di una parte della dottrina più risalente, secondo la quale la diversità delle formule usate nelle varie norme non avrebbe implicato nella sostanza alcuna diversità di significato, con la conseguenza per cui per il comproprietario avrebbe dovuto necessariamente compiere atti di interversione del possesso ai fini dell’usucapione del bene comune.

Questa, tuttavia, non è stata la lettura della giurisprudenza, la quale, secondo un orientamento assolutamente consolidato, non richiede che ai fini dell’usucapione il contitolare ponga in essere atti di interversio possessionis, essendo sufficiente che costui estenda il suo possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus".

A titolo di esempio si può citare, ex multis, Cass. 3/05/2018 n.10494, secondo cui il partecipante alla comunione, il quale intenda dimostrare l'intenzione di possedere non a titolo di compossesso ma di possesso esclusivo, non ha la necessità di compiere atti di "interversio possessionis" alla stregua dell'articolo 1164 del codice civile; il mutamento del titolo deve però consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo e animo domini della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui, mentre non sono al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione, consentiti al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo a un'estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore. “In tema di comunione, infatti, non essendo ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso, nè una interversione del possesso nei rapporti tra i comproprietari, ai fini della decorrenza del termine per l'usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei comproprietari realizzi l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire un rapporto materiale con il bene e, inoltre, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva. 

Di conseguenza in assenza di tale univoco comportamento il termine per l'usucapione non può cominciare a decorrere ove agli altri partecipanti non sia stata comunicata, anche con modalità non formali, la volontà di possedere in via esclusiva (Cass. 11903/2015)”.

Inoltre, pare opportuno precisare che il comproprietario che voglia estenda il suo possesso in termini di esclusività, deve godere effettivamente del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui, risultando a tal fine insufficiente la mera astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune (Trib. Palermo 5/9/2022 n. 347).

I medesimi principi sono stati ribaditi, di recente:

  • in riferimento all’usucapione della quota degli altri eredi da parte del coerede in possesso del bene ereditario. Invero, il coerede che, dopo la morte del "de cuius", sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune. (Nella specie la S.C., riformando la pronuncia di merito, ha escluso che possa costituire prova dell'usucapione di un appartamento la circostanza che il coerede, che già vi abitava con il padre, abbia continuato, dopo la morte di questi, ad essere l'unico ad averne la disponibilità) (Cass. 8/4/2021 n. 9359);
  • in tema di successione ereditaria, in cui si è affermato che il possesso esclusivo di un libretto al portatore, in capo ad un coerede, utile per l'usucapione, implica un atto positivo del possessore tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", risultando a tal fine insufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune e irrilevante la legittimazione del possessore ex art. 2003 c.c. a ricevere il pagamento delle somme ivi depositate dalla banca, con effetto liberatorio per quest'ultima, siccome non indicativa dell'unicità del titolare del diritto (Cass.19/7/2022 n. 22663).

Infine, pare opportuno ricordare come la giurisprudenza si sia di recente attestata su posizioni alquanto rigorose in tema di prova dell’esclusività del possesso: la già menzionata Cass. ord. 11/8/2021 n. 22730 (in tema di usucapione del bene comune da parte di un comproprietario) è giunta ad affermare che non è nemmeno sufficiente una prova testimoniale che abbia dimostrato il godimento esclusivo del cespite, atteso che tale godimento, precisa la S.C., <<non costituisce elemento sufficiente ai fini della dimostrazione della derivazione di detta disponibilità da un comportamento non qualificabile in termini di semplice detenzione>>. Occorre, quindi, che la prova si estenda ad elementi di fatto che convincano il giudice che la disponibilità del bene era attuata con modalità incompatibili con le modalità che avrebbero potuto essere attuate da un semplice detentore.

Sempre sul piano processuale, l’eventuale domanda del compro-prietario volta ad accertare l’intervenuta usucapione del bene comune integrerà un’ipotesi di litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.), dovendo, pertanto, essere citati in giudizio tutti i contitolari.

6.1 La vendita “per possesso”

L’illustrata importanza che l’Ordinamento attribuisce all’usucapione si manifesta anche nella c.d. vendita “per possesso”.

Occorre, innanzitutto, sottolineare le differenze intercorrenti tra questa e la c.d. vendita “del possesso”, consistente in un ipotetico contratto di vendita mediante il quale venga trasferito il possesso di un determinato bene. Tale figura non è, ovviamente, ammissibile nel nostro sistema, giacché, come noto, la vendita può avere ad oggetto solamente diritti e non situazioni di fatto, quale è il possesso.

Diversa dalla vendita del possesso è, invece, la c.d. vendita “per possesso”, con la quale non viene trasferito il possesso, bensì la proprietà di un bene già acquistata per usucapione, di cui, tuttavia, non sia ancora intervenuto un accertamento giudiziale. Più precisamente, la vendita per possesso è il trasferimento della proprietà di un bene immobile ad un terzo da parte di chi non risulta effettivo (rectius: formale) proprietario del bene, ma che dichiara nel rogito, sotto la propria responsabilità, di esserne il vero ed effettivo proprietario per aver esercitato sul bene il possesso utile ad usucapionem. La differenza rispetto alla (inammissibile) vendita del possesso è netta: la figura in esame costituisce pur sempre una modalità di trasferimento di un diritto reale, non di una situazione di fatto.

Come intuibile, l’utilità di tale istituto emerge soprattutto in quei casi in cui l’esiguità del valore del bene non giustifichi per il possessore la proposizione di una domanda giudiziale volta ad accertare l’intervenuta usucapione, con i relativi costi e tempi processuali.

Nonostante i numerosi vantaggi pratici riconducibili a tale figura, tuttavia, si registrano in dottrina e in giurisprudenza numerose incertezze circa la sua ammissibilità.

Un primo orientamento, infatti, ritiene invalida la vendita “per possesso”, in quanto l’acquisto per usucapione, per poter essere fatto valere e, quindi, costituire il possibile oggetto di un eventuale contratto di compravendita, deve essere prima accertato e dichiarato dal giudice e non può essere attestato nell’atto notarile sulla base della sola unilaterale dichiarazione del venditore (in tal senso si veda Cass. 12/11/1996 n. 9884; Cass. 22/4/2005 n. 8502; Cass. 12/11/2014 n. 24114). 

Al contrario, un diverso orientamento ritiene pienamente valida la vendita del bene usucapito anche in assenza di una sentenza dichiarativa dell’avvenuto acquisto a titolo originario (Cass. 5/2/2007 n. 2485; Cass. ord. 29/3/2018 n. 7853). 

A sostegno di tale assunto vengono richiamati: a) l’art. 1159 c.c., relativo all’usucapione breve o decennale, il quale, nel disporre che “colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario un immobile in forza di un titolo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto, ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di dieci anni dalla data della trascrizione”, ammette implicitamente che possa essere trasferita la proprietà anche da chi non è proprietario mediante atto pubblico suscettibile di trascrizione (con la precisazione, ovviamente, che l’acquirente diverrà proprietario del bene solo una volta compiuta l’usucapione); b) la vendita di cosa altrui, che comporta la possibilità di cedere la proprietà di un bene appartenente a terzi, di cui, quindi, il venditore non è proprietario; c) la considerazione per cui l’acquisto per usucapione avviene ipso iure, senza la necessità di una sentenza con effetti costitutivi, tanto che l’eventuale pronuncia che accerti l’intervenuto acquisto ha natura meramente dichiarativa; d) l’osservazione per cui, a ritenere inammissibile la vendita “per possesso”, si verificherebbe la strana situazione per cui chi ha usucapito il bene sarebbe proprietario, ma non potrebbe disporre validamente di esso fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente.

Ebbene, a conferma di quanto detto, uno studio del Consiglio Nazionale del Notariato (n. 176-2008/c) sottolinea come il notaio possa non solo stipulare un atto di trasferimento della proprietà “per possesso” ma “addirittura consigliare la cessione di un bene solo dichiarato usucapito dal venditore quando vi siano buoni motivi per derogare al criterio della pronuncia giudiziale”. Tale studio riporta, inoltre, in via esemplificativa, alcune ragioni per le quali la vendita per possesso può costituire un utile strumento per realizzare gli interessi delle parti, quali un esiguo valore del bene tale da non giustificare le spese giudiziali, la necessità pratica di un trasferimento immediato, l’estrema difficoltà di individuare l’originario proprietario, ecc. Le stesse conclusioni sono confermate dallo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 718/2013. 

Inoltre, sempre a conferma dell’ammissibilità dell’istituto in esame, si può menzionare Cass. n. 2485/2007, la quale ha statuito che non sussiste la responsabilità per negligenza professionale del notaio nelle ipotesi in cui lo stesso stipuli una vendita di terreni per i quali l’alienante assume solo di aver acquistato la proprietà per usucapione senza relativo accertamento giudiziale, quando risulti che l’acquirente sia stato conscio dei relativi rischi.

Da ultimo, la legittimità della vendita per possesso è stata confermata anche da Trib. Imperia 22/03/2022 n. 189, nella quale si è ribadito che, a ritenere il contrario, si verificherebbe la situazione paradossale per cui chi ha usucapito il bene ne sarebbe proprietario, ma non ne potrebbe disporre validamente fino a quando il suo acquisto non fosse accertato giudizialmente, il che non risulterebbe compatibile con il normale contenuto del diritto di proprietà. Si deve ammettere, dunque, che chi ritiene di avere usucapito un bene possa disporre dello stesso, pur in assenza di pronuncia giurisdizionale, e che l’atto dispositivo di tale bene possa essere trascritto, essendo insuscettibile di pubblicità immobiliare solo l’alienazione di bene dichiaratamente altrui. 

Alla luce di tali considerazioni pare, pertanto, preferibile quest’ultimo orientamento, il quale si presenta maggiormente coerente sul piano sistematico. Non vi è alcun dubbio, infatti, che il soggetto che abbia maturato il possesso utile ad usucapionem acquisti la proprietà del bene ipso iure e a titolo originario, senza la necessità di alcuna pronuncia giudiziale. Ora, se si subordinasse la validità di eventuali atti dispositivi all’esistenza di una sentenza dichiarativa, si giungerebbe ad una contraddizione in termini, giacché se in tal caso la sentenza ha una funzione di puro accertamento, allora occorre necessariamente ammettere che l’acquisto si sia già verificato e che, pertanto, sussista la piena legittimazione dell’usucapente a disporre di un bene che è già di sua proprietà. 

Posta, dunque, l’ammissibilità della vendita per possesso, il problema si sposta sul piano della fiducia che l’acquirente deve giocoforza riporre nei confronti dell’alienante, giacché vi è pur sempre il rischio che in capo a quest’ultimo non sussistesse un valido possesso ad usucapionem al momento della vendita; né può invocarsi una qualche responsabilità del notaio, poiché in assenza di un accertamento giudiziale egli non può che limitarsi a ricevere le dichiarazioni unilaterali del venditore, senza poterne comprovare la veridicità. 

I pericoli insiti nella vendita “per possesso” sono, pertanto, da ravvisarsi nell’eventuale mendacità delle dichiarazioni dell’alienante, qualora questi abbia dichiarato di essere proprietario in assenza di una di un’intervenuta usucapione; con la conseguenza per cui l’effettivo proprietario del bene compravenduto potrebbe successivamente intentare un’azione di rivendica e risultare vincitore, ottenendo così l’accertamento della sua proprietà, nonché la restituzione del bene ai danni dell’acquirente convenuto.

6.2 L’usucapione dei beni culturali

Un ultimo peculiare ed interessante aspetto affrontato dalla giurisprudenza (amministrativa) riguarda l’usucapibilità di un bene culturale nel caso in cui non sia stata effettuata la denuntiatio prevista dall’art. 59 D.Lgs. 22/1/2004 n. 4 (Codice dei beni culturali) in caso di vendita del bene.

Ci si chiede, in particolare, se l’usucapione sia in grado di “estinguere” il suddetto obbligo di denuncia gravante sul privato proprietario e, conseguentemente, le prerogative che lo Stato vanta ossia, in altri termini, se sia configurabile un’usucapio libertatis, la cui applicabilità ai beni immobili è assai dubbia, atteso che la norma che la prevede (art. 1153 comma 2 c.c.) riguarda solo i beni mobili non registrati; dal che sono derivate le opinioni contrastanti circa la natura eccezionale o meno della norma e quindi la sua applicabilità per analogia anche ai beni immobili (o mobili registrati).

In una sentenza del Consiglio di Stato (3/10/2018 n. 5671) è stata accolta l’impostazione secondo cui occorrerebbe distinguere se il possesso ad usucapionem è stato esercitato in modo compatibile oppure incompatibile con l’esistenza di altrui diritti parziari (per esempio richiedendo contributi statali, effettuando una tardiva denuntiatio, ecc…) per concludere che, nel primo caso, i diritti pubblici sul bene culturale permangono e quindi, non essendosi verificata l’usucapione, lo Stato potrebbe ancora esercitare la prelazione e rendersi proprietario del bene mentre, nel secondo caso, tali diritti pubblici si sarebbero estinti.

È doveroso rimarcare che la decisione è stata criticata dalla dottrina in quanto limita l’analisi della questione al mero piano privatistico, ignorando la particolare strumentalità del bene culturale rispetto all’interesse pubblico.

Invero l’art. 839 c.c., in applicazione dell’art. 9 Cost., conferisce ai beni culturali una connotazione tra pubblico e privato e giustifica la limitazione del diritto di proprietà e, nella fattispecie, dovrebbe valere ad impedire l’applicabilità dell’istituto dell’usucapione, il quale, quindi, non dovrebbe mai determinare un effetto estintivo del vincolo culturale e delle prerogative statali.

In tal senso deporrebbe anche il disposto dell’art. 15 del citato Codice dei beni culturali, il quale dispone l’efficacia della trascrizione del vincolo culturale nei confronti di ogni successivo proprietario <<a qualsiasi titolo>> e quindi anche a titolo originario qual è il proprietario a titolo di usucapione.

7. La tutela aquiliana del possesso

Il nostro sistema giuridico non concede esplicita tutela aquiliana alle situazioni o poteri di fatto non fondati su titoli idonei a configurare situazioni giuridiche soggettive.

Tuttavia, in questi ultimi decenni, la giurisprudenza ha ammesso che anche la lesione possessoria possa essere risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. in quanto viene riconosciuto come tutelabile l’interesse a non essere spossessato ingiustamente ed a recuperare il possesso nel più breve tempo possibile (Cass. 4/4/1987 n. 3272; Cass. 14/5/1979 n. 2780).

L’evoluzione giurisprudenziale si affianca a quella dottrinale, secondo cui il sistema dell’art. 2043 c.c. è atipico e aperto ovvero non configura a priori specifiche categorie di illeciti.

In quest’ottica il danno non va più inteso solo come perdita patrimoniale bensì quale lesione di un bene giuridicamente tutelato e quindi si attribuisce al concetto di bene un significato ampio tale da ricomprendere ogni situazione soggettiva positiva, non solo rappresentata dalle entità materiali ma anche dalle attività del soggetto danneggiato.

Pertanto è lasciata al giudice la discrezionalità di valutare volta per volta quali interessi, quali diritti soggettivi non assoluti, interessi legittimi, diritti di godimento, semplici aspettative e situazioni giuridiche legate alla persona siano apprezzabili e meritevoli di tutela aquiliana, anche in ragione del principio secondo cui l’Ordinamento non tollera lacune di protezione.

E così il possesso viene, a tal fine, valutato non come mera situazione di fatto, bensì come situazione giuridica tutelata dall’Ordinamento proprio attraverso specifiche azioni.

E così, corrispondentemente, la tutela aquiliana viene esclusa solo per colui che non si trovi nelle condizioni per esperire le azioni possessorie di cui agli artt. 1168-1170 c.c.

Si consideri anche che la tutela aquiliana trova ulteriore fondamento nella considerazione che la lesione del possesso può tradursi, in prospettiva, nella lesione (ed anzi nell’impedimento) del diritto di proprietà acquisibile per usucapione proprio in virtù del possesso.

Giova, infine, precisare che lo spogliato del possesso, che agisca per conseguire il risarcimento dei danni, è soggetto al normale onere della prova in tema di responsabilità per fatto illecito. Pertanto, qualora non abbia provato il pregiudizio sofferto, non può emettersi, in suo favore, condanna al risarcimento con liquidazione equitativa dei danni (Cass. 4/11/2021 n. 31642).




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