Con la sentenza n. 7 del 2021 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato alcune rilevanti questioni in materia di responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati nell’esercizio della funzione autoritativa, con particolare riferimento alle ipotesi di ritardo nella conclusione del procedimento.
Uno dei punti che vi vengono in rilievo, nella definizione della responsabilità civile extracontrattuale, è la distinzione tra causalità giuridica e materiale.
Come sappiamo sulla materia il nostro codice civile vigente non si esprime a parte quanto disposto dalla norma di principio generale di cui all’art. 2043 c.c. che stabilisce che il danno ingiusto deve risultare cagionato dal fatto illecito, e che obbligato al risarcimento è colui che ha dolosamente o colposamente commesso il fatto (od omesso quanto era necessario fare).
Tant’è che la dottrina civilistica ha ripreso dal codice penale quanto stabilito dall’art. 40, co. 1, che stabilisce che in generale abbiamo un principio di causalità, per cui nessuno può essere punito se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza di una sua azione o omissione oltre a stabilire, al secondo comma, l’ulteriore rilevante principio in tema di responsabilità omissiva secondo cui «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
Sempre la codice penale, art. 41, vengono esposti i principi sulla concorrenzialità causale nella determinazione del reato. Secondo il suo comma 1, il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento. Per il comma 2, le cause sopravvenute tuttavia escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.
In questo contesto, potremmo senz’altro affermare sempre molto complesso nella fase degli accertamenti, domina tutto ciò che riguarda, oltre al grado di responsabilità civile dedotto dai fatti illeciti compiuti ed alle sue dirette conseguenze, le conseguenze che possono riconnettersi all’azione od omissione illecita in termini di danni derivati e derivabili.
Dunque la clausola generale stabilita nell’art. 2043 c.c. porta con se una causalità materiale che consta di una verifica in concreto se l’evento sia o meno addebitabile alla condotta materiale di un determinato soggetto.
Con il giudizio che si instaura negli artt. 1123, 1225 e 1227, co. 1, c.c., richiamati nell’art. 2056 c.c., ci si occupa invece di rinvenire un secondo nesso di causa in genere acclarato quale nesso di causalità giuridica, il cui scopo è appurare l’esistenza e l’ampiezza dei pregiudizi riconducibili all’evento dannoso.
Segue la pronuncia
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Consiglio di Stato, sentenza del 23 aprile 2021 nr. 7
(...)
FATTO
DIRITTO
«a) la condotta dell’Amministrazione posta in essere in violazione della regola di conclusione del procedimento amministrativo nella tempistica prescritta;
Un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e quindi nel perseguimento dell’interesse pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo. Sebbene a quest’ultimo si contrapponga l’interesse legittimo del privato, la relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso quindi è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione –rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato- bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. Né la fattispecie in esame può essere ricondotta alla dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, nozione di “contatto sociale”, in quanto, a tacer d’altro, oltre a quanto osservato sulla natura del “rapporto amministrativo”, la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”, cioè da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria.
Nondimeno, nel corso del tempo, la giurisprudenza ha disancorato l’interesse legittimo dalla sua originaria concezione di interesse occasionalmente protetto e, anche in considerazione del quadro normativo, ne ha rilevato la dimensione “sostanzialista”, quale interesse correlato ad un “bene della vita” coinvolto nell’esercizio della funzione pubblica, e comunque a una situazione soggettiva sostanziale facente parte della sfera giuridica di cui il soggetto è titolare.
In relazione alla sua sfera giuridica, al privato sono innanzitutto riconosciuti strumenti di tutela procedimentale finalizzati ad orientare la discrezionalità dell’amministrazione (secondo la disciplina di carattere generale oggi contenuta nella legge sul procedimento amministrativo 7 agosto 1990, n. 241). Sono poi riconosciute forme variegate di tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive originate dall’esercizio del potere amministrativo, modellate sul “bisogno di tutela” -al fine di rendere effettiva la protezione, nei confronti del potere pubblico, della cognizione sui diritti e gli interessi devoluta alla giurisdizione amministrativa (art. 1, cod. proc. amm.)- e coerenti con una evoluzione dei rapporti tra privato e amministrazione in cui accanto alla funzione amministrativa di stampo tradizionale si affermano i servizi al pubblico, secondo un modello di amministrazione pubblica “di prestazione”.
Come è stato evidenziato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n.165 del 1998, più in generale, con l’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, è stata introdotta la regola per cui, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici -in cui ha giurisdizione esclusiva- il giudice amministrativo «dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto».
L’articolo 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 ha poi previsto la risarcibilità del danno in ogni caso di lesione arrecata all’interesse legittimo.
Nel descritto quadro l’esercizio della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, può quindi essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale neminem laedere: con la normativa sopra richiamata il legislatore ha progressivamente esteso ai casi di illegittimo esercizio del potere pubblico la tutela risarcitoria disciplinata dall’art. 2043 del codice civile -in cui è affermato un principio generale dell’ordinamento- secondo cui «(q)ualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».
In particolare, i sopra citati commi 2 e 4 dell’art. 30 cod. proc. amm., rispettivamente fanno riferimento al «danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria», e al «danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Con specifico riguardo alle «(c)onseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento», l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 prevede, quindi, che i soggetti pubblici e privati tenuti ad agire secondo le regole del procedimento amministrativo «sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento».
Quest’ultima disposizione va letta in combinato con l’art. 2 della medesima legge, che disciplina in termini generali la «(c)onclusione del procedimento».
La disposizione ora richiamata - oltre ad enunciare il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso (comma 1), la cui violazione sostanzia nei rapporti intersoggettivi l’antigiuridicità della condotta dell’amministrazione (mentre le conseguenze e le responsabilità interne sono regolate nel comma 9); a modulare variamente i termini, le relative decorrenze e le ipotesi di sospensione (commi 2 - 7); e a regolare le conseguenze per alcune categorie di atti (comma 8-bis) - prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l’inerzia dell’amministrazione, incentrato sul potere di avocazione dell’affare (commi 9-bis – 9-quinquies).
L’istituto ha un ruolo centrale nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per danno da ritardo. La sua attivazione da parte del privato è infatti indice di serietà ed effettività dell’interesse legittimo di quest’ultimo al provvedimento espresso. All’opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi, salve diverse considerazioni che spieghino tale inerzia, che l’ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato, nell’ambito delle proprie autonome determinazioni. In tale prospettiva, il mancato utilizzo dello strumento può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell’art. 30, comma 3, cod. proc. amm. al fine di escludere «il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti». Ciò secondo i principi affermati da questa Adunanza plenaria nella sentenza 23 marzo 2011, n. 3, propri di un ordinamento giuridico che, nell’assoggettare la funzione amministrativa al diritto, e dunque assicurare il primato della legge, riconosce al privato - come sopra esposto - un novero di mezzi a tutela dei propri interessi più ampio di quelli utilizzabili nei rapporti di diritto civile, ed in cui l’azione risarcitoria è solo uno dei rimedi a disposizione.
Queste azioni sono state nel caso di specie esperite dalla società ricorrente, e sulla base di tale circostanza il Consiglio di giustizia amministrativa ha accertato con efficacia di giudicato interno la colpa dell’amministrazione, oltre alla fondatezza per altro verso della pretesa della xxxxxxxxx a realizzare e gestire tre dei quattro impianti fotovoltaici per i quali aveva chiesto alla Regione xxxxxxxx l’autorizzazione ai sensi del sopra citato art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003.
Sul piano generale va in ogni caso precisato, in chiave nomofilattica, che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis e seguenti, l. n. 241 del 1990 –così come la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali- non ha rilievo come presupposto processuale dell’azione risarcitoria ex art. 2-bis della medesima legge, la quale, al pari dell’azione risarcitoria per illegittimità provvedimentale, è ormai svincolata da ogni forma di pregiudiziale amministrativa. La condotta attiva del privato può invece assumere rilievo come fattore di mitigazione o anche di esclusione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, cod. proc. amm., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate (…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (così la sentenza dell’Adunanza plenaria 23 marzo 2011, n. 3, da ultimo richiamata: § 7.2.2). In altri termini, la mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali, al pari delle ragioni che sorreggano il mancato esperimento degli stessi, non è idonea in sé a precludere la pretesa risarcitoria, ma costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità.
Tuttavia l’onere di cooperazione in parola può essere ricondotto allo schema di carattere generale del «(c)oncorso del fatto colposo del creditore» previsto dall’art. 1227 del codice civile, richiamato dall’art. 2056 cod. civ. per la responsabilità da fatto illecito, e più precisamente nell’ipotesi del secondo comma (evocativo di un principio di causalità giuridica, a differenza del primo comma che disciplina il nesso di causalità materiale condotta-evento), per la quale il risarcimento «non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza». Come ha precisato questa Adunanza plenaria nella più volte richiamata sentenza del 23 marzo 2011, n. 3, nell’ambito della struttura bipolare della responsabilità civile -come rilevato dalla stessa giurisprudenza civile- l’art. 1227, comma 2, cod. civ. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l’art. 1223, quale criterio (rectius: uno dei criteri) in base al quale selezionare le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta (con la differenza che, nella responsabilità contrattuale, il requisito dell’ingiustizia risulta conseguenza in re ipsa dell’inadempimento, mentre costituisce co-elemento di struttura dell’illecito nella resposabilità aquiliana). Nel settore della responsabilità dell’amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi il criterio in questione si declina nel senso che a carico del privato è posto un onere di ordinaria diligenza- come tale valutabile dal giudice- di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi, anche con riguardo a ciò, il perimetro del danno risarcibile. In modo parzialmente diverso da quanto si tende ad affermare nei rapporti regolati dal diritto civile, l’onere di cooperazione del privato nei confronti dell’esercizio della funzione pubblica assume quindi i connotati di un «obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)», con la sola esclusione di «attività straordinarie o gravose attività», per cui «non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza» (così ancora l’Adunanza plenaria nella sentenza del 23 marzo 2011, n. 3, più volte richiamata; § 7.1).
Il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù del più volte richiamato art. 2056 cod. civ.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Solo per la responsabilità da inadempimento opera il limite previsto dall’art. 1225 cod. civ. della prevedibilità del danno, salvo il caso di dolo.
Assume invece un ruolo centrale il sopra menzionato art. 1223 cod. civ., anch’esso richiamato dall’art. 2056 cod. civ., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Nella sua parte descrittiva, la dicotomia danno emergente - lucro cessante esprime la funzione della responsabilità civile, anche nei rapporti di diritto pubblico, di rimedio previsto in funzione reintegratrice della sfera patrimoniale dell’individuo rispetto ad aggressioni esterne. Nondimeno alla funzione descritta della norma si aggiunge quella precettiva, per la quale, al pari del criterio dell’evitabilità previsto dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., il criterio della consequenzialità immediata e diretta opera in funzione limitatrice delle conseguenze dannose risarcibili comprese nella serie causale originata dal fatto illecito. Sulla sua base si esclude il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi.
Ciò precisato, l’accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l’evento pone problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura maggiore rispetto al danno emergente. A differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica. La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume pertanto la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. Non a caso in questo ambito è sorta la tematica della risarcibilità della chance, considerata ormai, sia dalla giurisprudenza civile sia dalla giurisprudenza amministrativa, una posizione giuridica autonomamente tutelabile -morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall’elemento causale dell’illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa)- purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata e nella quale può quindi essere ricondotta la pretesa risarcitoria connessa al regime tariffario incentivante di cui la società ricorrente chiede il ristoro per equivalente.
Tali considerazioni appaiono particolarmente pertinenti nel presente giudizio –e in quelli similari- in cui l’utilità conseguibile con l’originaria istanza di autorizzazione deriva non soltanto dal concreto auspicato svolgimento dell’attività conseguente all’autorizzazione, ma anche e soprattutto dai benefici conseguenti a una diversa e ulteriore previsione normativa, la cui applicazione è devoluta a una diversa amministrazione, competente a verificare la spettanza dei benefici nell’ambito di un diverso procedimento.
In ragione di ciò il giudice rimettente dovrà valutare ogni elemento rilevante nella presente fattispecie, tra cui il fatto che, rispetto al procedimento di autorizzazione a costruire e gestire impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, l’accesso alle agevolazioni tariffarie è oggetto di un procedimento amministrativo ulteriore, regolato dai vari “conti energia” in ipotesi applicabili, onde la necessità di svolgere una prognosi sul possibile esito di quest’ultimo.
Occorre in altri termini valutare come operi la sopravvenienza normativa nella sequenza causale produttiva del danno, sul piano –di cui si discorre- della conseguenzialità “immediata e diretta”.
- la funzione dissuasiva, di matrice soggettiva e di più antica concezione, che, in coerenza con il precetto fondamentale del neminem laedere e il fondamento etico e di convivenza civile del rimedio risarcitorio, milita nel senso di addossare all’autore di condotte colpose ingiustamente lesive di altrui interessi patrimoniali le relative conseguenze;
- la più moderna funzione di equa ripartizione dei rischi connessi ad attività lecite ma potenzialmente pregiudizievoli per i terzi (su cui pertinenti considerazioni sono svolte dal giudice rimettente alle teorie dell’aumento del rischio e dello scopo della norma violata), che invece giustifica sul piano oggettivo che le conseguenze economiche sfavorevoli per questi ultimi siano comunque accollate alle medesime attività, quale poste passive ad essa inerenti, secondo il principio cuius commoda eius et incommoda.
Nel caso di specie, l’applicazione del criterio della consequenzialità immediata e diretta enunciato dall’art. 1223 cod. civ. secondo le funzioni ora espresse risulta inoltre coerente con gli obiettivi avuti di mira dal legislatore con la previsione di termini massimi ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990; per cui, se è vero che, nella dinamica dei rapporti giuridici, la sopravvenienza normativa è in sé un factum principis, in grado pertanto di escludere l’imputazione soggettiva delle relative conseguenze pregiudizievoli, nondimeno l’ingiustificato ritardo nel rilascio del provvedimento ingenera –alle condizioni sopra delineate- una responsabilità in capo all’amministrazione coerente con la funzione del termini del procedimento, consistente nel definire un quadro certo relativo ai tempi in cui il potere pubblico deve essere esercitato e dunque è ragionevole per il privato prevedere che sia esercitato. Nel settore della realizzazione degli impianti in questione, poi, a tali considerazioni di ordine generale si aggiunga che il regime incentivante connesso al ricorso a fonti rinnovabili di produzione energetica fa assurgere l’investimento privato a fattore chiave, destinato a ricevere tutela secondo le descritte norme di azione dei pubblici poteri principalmente attraverso la definizione di tempi certi per il rilascio dei necessari titoli autorizzativi. Il corollario processuale del quadro normativo così tracciato è che in un sistema di tutela giurisdizionale effettivo, contraddistinto dalla pluralità di rimedi a disposizione del privato contro l’inerzia dell’amministrazione, quest’ultima sottostà sul piano risarcitorio alla mancata realizzazione degli investimenti nel settore quando questi siano causati dal suo comportamento antigiuridico. In coerenza con la funzione dissuasiva e di equa ripartizione dei rischi tipica del rimedio risarcitorio, e delle regole operative sulla delimitazione dei pregiudizi risarcibili, sopra esaminate, il mutamento normativo, espressivo di un mutato indirizzo legislativo rispetto all’intervento economico pubblico in funzione agevolativa degli investimenti privati, deve pertanto essere considerato un rischio imputabile all’amministrazione quando la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati.
- a) la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ.;
- b) con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati;
- c) con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposto, afferma i principi di diritto di cui in motivazione e restituisce per il resto il giudizio al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 10 marzo 2021, tenuta con le modalità previste dagli artt. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, come modificato dall’art. 1, comma 17, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, convertito dalla legge 26 febbraio 2021, n. 21, (…)