La prostituzione è un'attività lecita, consistente nella prestazione di un servizio a pagamento. Pertanto deve essere sottoposta a tassazione, e, se condotta con abitualità, anche ad IVA.
La Guardia di Finanza accertava che una prostituta non aveva mai presentato dichiarazioni dei redditi ma, al tempo stesso, era intestataria di:
L"Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento con il quale veniva sottoposto a tassazione il reddito imponibile accertato. La prostituta impugnava l"atto sostenendo che non erano dovute imposte per due motivi:
Le Commissioni Tributarie e la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, respingono le doglianze della contribuente, conformandosi ad un orientamento già presente ed uniforme nella giurisprudenza di legittimità, nonché presente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee.
Anzitutto, è ben noto che ciò che è illecito è lo sfruttamento della prostituzione altrui, non l"attività in sé considerata. L"attività di meretricio, se svolta in autonomia e senza costrizioni, non è illecita, con la conseguenza che i proventi che ne derivano non sono illeciti.
Ciò premesso, la Suprema Corte statuisce che l"esercizio dell"attività di prostituzione, «abituale od occasionale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi, nel primo caso, di redditi assimilabili al lavoro autonomo, e, nel secondo caso, di redditi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi» (previsti dall"art. 6, comma 1, lett. f, D.P.R. 917/1986, Testo Unico delle imposte sui redditi, anche T.U.I.R.).
Quindi la prostituzione è un"attività che genera un reddito che deve essere sottoposto a tassazione.
La Corte di Cassazione è già consolidata nel ritenere tassabili i proventi della prostituzione; vengono appunto citate Cass. 2528/2010; Cass. 10578/2011. E anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee, con la sentenza del 20.11.2001, C. 268/99, ha afermato che «la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economica», e spetta al giudice nazionale accertare il caso concreto per verificare che l'attività sia svolta in modo davvero autonomo, fuori da episodi di costrizione, induzione o sfruttamento (i cui proventi, prima ancora di essere tassabili, sono confiscabili in quanto profitto del reato ex art. 240, comma 1 c.p.).
Non solo, ma laddove sia accertato che l'attività sia svolta in modo abituale, il reddito è assoggettabile all'imposizione indiretta dell'IVA ai sensi dell'art. 5, D.P.R. 633/1972 (sul punto si veda la citata Cass. 10578/2011). L'abitualità costituisce quindi il requisito per sottoporre il reddito all'imposta sul valore aggiunto.
In conclusione, visto che il diritto vivente ha dimostrato ancora una volta di essere duttile e pragmatico, non resta che attendere che, finalmente e con coraggio, sia il diritto vigente a prendere atto dell'evoluzione dei tempi ed emanare una normativa che regoli questa branca di economia sommersa, notoriamente capace di muovere grosse somme di capitali, che correttamente devono partecipare alla tassazione.
Può ritenersi disattesa l'opinione che intende evocare l'obbligazione naturale, e per la precisione la contrarietà al buon costume ex art. 2035 c.c., ai sensi del quale non è possibile esigere la ripetizione di somme pagate a fronte di prestazioni contrarie al comune sentire, in questo modo consentendo al rapporto (... giuridico...) tra prostituta e cliente di sfuggire dalle regole dell'ordinamento. Essendo in presenza di un'attività economica che genera redditi tassabili, non si è più in presenza di un'attività "contraria al buon costume". Anzi, se così è, non sarebbe logicamente possibile escludere l'applicazione della disciplina prevista a tutela del consumatore (Codice del consumo), o della disciplina generale in tema di adempimento della prestazione lavorativa; ma con questo discorso si raggiungono ben altri lidi, su cui si spera di suscitare una discussione costruttiva.