Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  12/03/2023

Il principio platonico-aristotelico di non contraddizione come fondamento dell'ordinamento giuridico, Disciplina generale - Cecilia De Luca

    Terminata la ricostruzione dell’antigiuridicità e delle cause di giustificazione, può procedersi in questa sede all’esame delle norme del Codice penale che ne dettano la disciplina generale. Si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 55 e 59 c.p., cui si aggiungono le disposizioni di diritto processuale penale che prendono espressamente in considerazione gli effetti della sussistenza di una causa di giustificazione. Sono molteplici le disposizioni attraverso le quali il legislatore ha assegnato rilevanza alla sussistenza di cause di giustificazione in relazione alle fasi fondamentali in cui si sviluppa il procedimento penale, dalle indagini preliminari alla fase della decisione. Assume rilevanza, tra quest’ultime, il disposto dell’art. 385 c.p.p., ai sensi del quale “L’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto contro delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in presenza di una causa di non punibilità”. Nonostante il riferimento specifico alle scriminanti di cui all’art. 51 c.p., infatti, per “ciascuna causa di non punibilità” deve intendersi ogni altra causa di giustificazione disciplinata dal Codice penale; attraverso la citata disposizione, dunque, si impedisce alla polizia giudiziaria di comprimere, anche solo temporaneamente, la libertà personale dei cittadini, quando emerga che il fatto commesso, pur integrando gli estremi di un fatto tipico di reato, non presenti carattere di antigiuridicità, perché scriminato. Allo stesso modo, l’art. 273 c.p.p. sancisce che “Nessuna misura cautelare può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione”, tutelando l’indagato nel corso del procedimento penale. Inoltre, l’art. 129 c.p.p., pur non facendo espresso riferimento alle scriminanti, obbliga il giudice penale, “In ogni stato e grado del processo” a dichiarare con sentenza che “il fatto non costituisce reato”, quando riconosca la sussistenza di una causa di giustificazione. Il Codice di procedura penale fa invece espresso riferimento alle cause di giustificazione nel già menzionato art. 530 c.p.p., che disciplina la sentenza di assoluzione e prevede, al comma terzo, che “Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del primo comma”. Infine l’accertamento delle cause di giustificazione, in specie dell’adempimento di un dovere e dell’esercizio di un diritto, nella sentenza di assoluzione che abbia acquisito valore di giudicato, produrrà effetti vincolanti “nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno”, ai sensi dell’art. 652 c.p.p. Procedendo all’esame  delle norme del Codice penale che disciplinano la loro applicazione, si ricorda nuovamente che le cause di giustificazione hanno natura oggettiva, differenziandosi dalle cause di esclusione della colpevolezza e dalle cause soggettive di non punibilità. Tale carattere oggettivo incide sul regime di imputazione, inoltre, delle scriminanti che, ai sensi del primo comma dell’art. 59 c.p. “sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti”. Non occorre pertanto che il soggettivo attivo, al momento del compimento del fatto tipico, fosse consapevole della sussistenza di una  causa di giustificazione che, ciò nonostante, eliderà l’antigiuridicità della condotta. La disposizione del primo comma è dunque espressiva del medesimo principio di prevalenza del dato obiettivo e dell’insufficienza ai fini della responsabilità penale delle intenzioni delittuose del reo, che trova espressione al primo comma dell’art. 49 c.p., in forza del quale “Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato”. Il comma quarto dell’art. 59 c.p. disciplina invece l’ipotesi speculare in cui non sussiste una causa di giustificazione, ma l’agente ritiene che esista per errore; se nel caso disciplinato dal primo comma, dunque, sussiste il dato obiettivo, ma manca la percezione soggettiva della scriminante, nell’ipotesi di cui al quarto comma la situazione è inversa, essendo solo rappresentata, per errore, da parte del soggetto attivo, la sussistenza di una causa di giustificazione, che in realtà esiste solo nella sua mente. Dottrina e giurisprudenza definiscono tale ipotesi come “scriminante  putativa” poiché la scriminante è solo ritenuta esistente dal soggetto attivo ma non sussiste nella realtà. Ciò nonostante, la norma in esame prevede che “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui”, consentendo così la produzione dell’effetto scriminante anche in assenza di un’effettiva causa di giustificazione . Ciò che rileva ai fini dell’accertamento dell’antigiuridicità della condotta non è, in questo caso, il dato obiettivo, bensì la percezione che il soggetto abbia avuto delle circostanze in cui è avvenuta la condotta. La norma prevede tuttavia che “se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”; in questo modo il legislatore ha inteso prevenire un utilizzo distorto della norma, precisando che l’errore circa la sussistenza di una causa di giustificazione deve risultare incolpevole, ricorrendo altrimenti la responsabilità per colpa del soggetto attivo, quando il reato sia punibile a titolo colposo. Diversamente, sarebbe sufficiente addurre un errore in merito alla sussistenza di una scriminante invero inesistente per andare esenti da responsabilità penale; attraverso l’ultimo inciso del comma quarto, invece, il legislatore ha richiesto che l’errore debba essere ancorato ad elementi di carattere oggettivo, legati alla fattispecie concreta ed alle modalità in cui si è svolto il fatto tipico, tali da ritenerlo scusabile. Qualora invece il soggetto attivo, in considerazione delle circostanze del caso concreto, fosse in grado di avvedersi che non sussisteva alcuna causa di giustificazione al momento della condotta e, pertanto, sia incorso in un errore per propria colpa, risponderà penalmente del reato commesso ma solo quando il legislatore ne preveda la punibilità a titolo di colpa. Non potrà ravvisarsi una scriminante putativa ed il reo risponderà del fatto a titolo di dolo, quando invece emerga che, alla luce delle caratteristiche del fatto commesso, il soggetto agente non  potesse percepire l’assenza di una causa di giustificazione, sì da escluderne la mera colpa e da ravvisarne una piena intenzione delittuosa, che consentirà di affermarne la responsabilità penale in giudizio. Del pari non potrà operare il disposto del quarto comma dell’art. 59 c.p. quando la scriminante sia soltanto presunta ma non ritenuta sussistente per errore. La dottrina, recepita dalla giurisprudenza, ha infatti evidenziato la differenza tra le ipotesi genuine di scriminante putativa, legate cioè all’errore del reo circa la sussistenza di una causa di giustificazione inesistente, e le cc.dd. scriminanti presunte; quest’ultime infatti non sono ritenute esistenti dal reo in ragione di un’errata percezione del dato materiale o giuridico bensì meramente supposte in forza di una valutazione presuntiva del soggetto agente. In questa seconda ipotesi, dunque, non sussistono i requisiti perché operi il disposto dell’art. 59 comma quarto, c.p. poiché la condotta è stata realizzata da un soggetto che è ben consapevole di agire in assenza di una causa di giustificazione, avendo presunto che, ad esempio, il consenso sarebbe stato espresso se richiesto, e non può quindi ritenersi che sia incorso in errore. È da evidenziare che opera anche in relazione alle scriminanti putative il disposto di cui all’art. 5 c.p., in forza del quale “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”. Ne deriva che il reo non potrà addurre a propria discolpa un errore relativo alle norme che disciplinano, nel Codice penale, le cause di giustificazione, sostenendo di aver erroneamente ritenuto che una circostanza diversa da quelle espressamente previste dal legislatore penale producesse un effetto scriminante sulla condotta, come ad esempio lo stato d’ira o la provocazione. Del pari, non potrà assumere rilevanza un errore circa l’interpretazione delle norme penali, tale per cui il reo abbia erroneamente inteso il significato della disciplina di una scriminante. Devono invece ritenersi ammissibili errori sul fatto, legati cioè alla percezione della situazione materiale in cui la condotta è posta in essere dal reo, nonché errori su leggi diverse da quella penale, quando abbiano cagionato un errore sul fatto che costituisce reato; si tratta delle forme di errore cui l’art. 47 c.p. riconosce efficacia scusante e che sono ritenute rilevanti anche ai fini del riconoscimento di una scriminante putativa. Occorre precisare che l’errore su legge diversa dalla legge penale riguarda i casi in cui il soggetto agente incorra in un’errata interpretazione di una disposizione integratrice della fattispecie penale, che implichi pertanto un’errata percezione degli elementi costitutivi del fatto di reato; Si può dunque affermare, in merito ai presupposti del riconoscimento di una scriminante putativa, che, da un lato, occorre che il soggetto attivo sia incorso in un errore, il quale se dovuto a colpa non escluderà la responsabilità a titolo di colpa per il fatto commesso, ove prevista dal legislatore, a nulla rilevando invece le mere presunzioni o supposizioni, né tanto meno gli errori prospettati in assenza di alcun elemento oggettivo che possa suffragare la difesa del reo, cioè in caso di errore meramente pretestuoso e privo di riscontri obiettivi; dall’altro, occorre che l’errore attenga al fatto di reato, in termini di percezione distorta delle circostanze storiche in cui è stata realizzata la condotta, ovvero che si tratti di erronea interpretazione di una norma diversa da quella incriminatrice e che tuttavia disciplini un elemento costitutivo, integrando la fattispecie penale. Concludendo con la seconda disposizione di parte generale riguardante le cause di giustificazione, l’art. 55 c.p. disciplina i casi di c.d. “eccesso colposo”, prevendendo al primo comma che “Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. Il legislatore, con la legge del 26 aprile 2019, n. 36, ha introdotto un secondo comma alla disposizione in esame, che prende in considerazione le ipotesi speciali di eccesso colposo nella legittima difesa c.d. domiciliare, anch’essa oggetto della novella. La disposizione originaria di cui al primo comma prende invece in considerazione le ipotesi in cui, in presenza di una delle scriminanti di cui agli artt. 51, 52, 53 e 54 c.p., con esclusione del consenso dell’avente diritto, il soggetto agente ponga in essere una condotta che supera, per colpa, i limiti entro cui il fatto può ritenersi scriminato, incorrendo così in responsabilità penale, a titolo di colpa, ove il fatto sia previsto dal legislatore come reato colposo. È possibile dunque mettere in evidenza la diversità delle ipotesi di eccesso colposo rispetto ai casi di scriminante putativa, dal momento che, pur essendo entrambe le fattispecie caratterizzate da un errore del soggetto agente, nel primo caso si tratta di un errore in executivis, cioè nell’esecuzione o realizzazione del fatto tipico, che supera i limiti entro cui opera l’effetto scriminante; nel secondo caso, invece, si tratta di un errore percettivo, che incide sulla sfera soggettiva e non sulla sua condotta materiale. È infatti diverso rappresentarsi per errore la sussistenza di una scriminante inesistente rispetto al superamento colposo dei limiti entro cui opera una scriminante realmente esistente. Nei casi di eccesso colposo, la colpa del soggetto agente può essere determinata da due tipologie di errore, a seconda che si tratti di un errore di giudizio ovvero di un errore materiale; nel primo caso, il soggetto agente valuta erroneamente al gravità o l’intensità dei presupposti della scriminante, ritenendo, ad esempio, che il proprio aggressore stia attentando alla sua vita nel caso i cui lo stesso miri invece a ledere un bene patrimoniale; se, dunque, in presenza di un simile errore di giudizio, il soggetto agente pone in essere una condotta difensiva che, sull’erroneo presupposto del pericolo per la propria vita, cagiona la morte dell’aggressore, avrà superato il limite di proporzione richiesto dall’art. 52 c.p., incorrendo in un eccesso colposo, che la dottrina e la giurisprudenza definiscono come “eccesso nei fini”. Diversamente, se il soggetto agente, pur avendo correttamente percepito i presupposti della scriminante, incorre in un errore di carattere materiale, legato all’uso dei mezzi o agli effetti della propria condotta, sarà ravvisabile un eccesso colposo c.d. “eccesso nei mezzi” o “modale”, perché attiene proprio alle modalità della condotta che esorbitano i limiti della scriminante. Tanto l’errore di giudizio quanto l’errore modale, dunque, commesso con colpa dal soggetto agente, integrano gli estremi di un eccesso colposo. Rispettivamente, nei fini o nei mezzi, che comporta la responsabilità per il fatto commesso, se il legislatore ne prevede la punibilità come reato colposo. Il legislatore impone, pertanto, in capo al soggetto agente che operi in presenza di una scriminante un onere, a seconda dei casi, di diligenza, prudenza o perizia, sanzionando penalmente il superamento colposo dei limiti entro cui la condotta gode dell’effetto scriminante; ne consegue che, fuori dai casi di superamento colposo di suddetti limiti non può operare il disposto dell’art. 55 c.p., che richiede, da un lato, che l’errore non sia scusabile e, dall’altro, che il reo non abbia agito intenzionalmente. Ove infatti si accerti che il superamento dei limiti della scriminante non sia avvenuto con colpa, poiché l’errore di giudizio o modale non è dipeso da negligenza, imprudenza o imperizia, non potrà imputarsi, neanche a titolo di colpa, la responsabilità per il fatto commesso dal soggetto agente, che beneficerà in pieno della causa di giustificazione. Al contrario, quando il superamento dei limiti della scriminante risulti intenzionale e non dovuto invece ad un errore del reo, questi incorrerà in un’ipotesi c.d. di eccesso doloso, e, pertanto, risponderà penalmente, a titolo di dolo, dei fatti commessi nel superamento dei suddetti limiti. L’art 55 c.p. non annovera il consenso dell’avente diritto tra le cause di giustificazione rispetto alle quali può ravvisarsi un eccesso colposo relativi al consenso dell’avente diritto. In dottrina, in merito a ciò, di sono registrati due opposti orientamenti, divisi riguardo alla possibilità di estendere analogicamente la norma ai casi di eccesso colposo relativi al consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 c.p. La tesi favorevole all’estensione analogica dell’istituto si fonda sull’effetto favorevole che l’art. 55 c.p. produce per il reo, il quale non risponderà del fatto di reato commesso, nonostante il superamento dei limiti della scriminante, se non per colpa, e solo quando il fatto sia previsto anche come reato colposo. Si ritiene inoltre che, in relazione al consenso dell’avente diritto, possano ravvisarsi le medesime esigenze di disciplina legate ai casi in cui il soggetto, ad esempio, pur agendo in presenza del consenso della persona offesa ne abbia, per un errore modale, travalicato i limiti. L’opposto orientamento, contrario invece alla estensione dell’art. 55 c.p. ai casi di consenso ex art. 50 c.p., ha rilevato che non è dato rinvenire una lacuna normativa  nell’eccesso colposo, dal momento che il legislatore ha elencato in maniera espressa e tassativa le scriminanti in relazione alle quali può ravvisarsi un eccesso colposo, confermando tale scelta nella seconda parte della norma, che si riferisce ai soli “ limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità”, senza alcun riferimento ai limiti del consenso espresso dalla persona offesa. Secondo questo orientamento si tratterebbe dunque di una c.d. lacuna tecnica o volontaria, in quanto insuscettibile di essere colmata in via analogica. Ulteriore questione  che l’ambito operativo dell’art. 55 c.p. ha posto in dottrina e in giurisprudenza attiene alla possibilità di ravvisare un eccesso colposo in relazione al superamento dei limiti di una scriminante meramente putativa. In siffatta ipotesi, infatti, si è in presenza di un fatto commesso in assenza di una causa di giustificazione che è ritenuta sussistente per errore del soggetto agente. Si è posto dunque il problema della possibilità di assegnare rilevanza al superamento colposo dei limiti di una circostanza che nella realtà non sussiste. Secondo l’orientamento che nega tale possibilità, il carattere putativo della scriminante, che è frutto di un errore del reo, impedisce di valutare se la condotta del reo ne abbia superato i limiti, stante l’assenza di un riscontro materiale, dovuta al carattere meramente virtuale della scriminante. Un orientamento intermedio tra la soluzione negativa e la tesi delle compatibilità tra gli istituti ha infine sostenuto che la soluzione dipenda dalla tipologia di eccesso colposo verificatasi nel caso concreto, dal momento che un eccesso nei fini, dovuto ad un errore di giudizio, dovrà ritenersi assorbito, secondo tale impostazione, nell’errore in ragione del quale il soggetto agente ha ritenuto sussistente una scriminante; diversamente, nel caso di eccesso nei mezzi, in cui il superamento dei limiti della scriminante è dovuto ad un errore materiale nella esecuzione della condotta, sarebbe possibile ritenere che l’art. 55 c.p. operi in relazione alla scriminante putativa, poiché si tratta di errori di natura diversa e non sovrapponibili. Diversamente, qualora la scriminante sia inesistente ma ritenuta esistente dal reo e questi, con un ulteriore errore di carattere valutativo o percettivo, abbia immaginato ed immaginato male che sussistano gli estremi di una scriminante, verserà in colpa ai sensi dell’art. 59, quarto comma, c.p., con conseguente inutilità di applicare l’art. 55 c.p., poiché entrambe le disposizioni prevedono la responsabilità colposa del reo, quando il fatto è previsto dalla legge come reato colposo.

    Estratto dalla tesi di laurea: "Il principio platonico-aristotelico di non contraddizione come fondamento dell'ordinamento giuridico."

    In allegato saggio completo di note.


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