Interessi protetti  -  Paolo Basso  -  16/11/2022

Il possesso e la sua tutela - Parte seconda

4. L’autotutela dei diritti del possessore: la ritenzione ex art. 1152 c.c. 

La ratio dell’attribuzione del diritto di ritenzione al possessore di buona fede a garanzia del pagamento delle indennità spettategli per le riparazioni, per i miglioramenti e per le addizioni ai sensi dell’art. 1150 c.c. trova il suo fondamento in un principio equitativo, in base al quale non sarebbe né giusto né equo che il proprietario-rivendicante -nel riappropriarsi della cosa- si rifiuti di rimborsare al possessore le spese da questi sostenute per conservarla o migliorarla. E difatti la retentio, in applicazione di questo principio, era stata già accordata in epoca romana in molti altri casi e non solo al possessore di buona fede.

Il titolare del diritto di ritenzione in commento è il possessore di buona fede ed è tale anche colui che, successivamente, ha acquisito coscienza dell’illegittimità del suo possesso dato che, come visto, ai sensi dell’art. 1147 3° co. c.c., mala fides superveniens non nocet. E, per l’individuazione del momento iniziale al quale far riferimento per la valutazione della buona fede del possesso, deve aversi riguardo al momento in cui il possesso è iniziato e non già al momento in cui è iniziata la realizzazione dei miglioramenti (D’Avanzo).

La dottrina maggioritaria (Bianca, De Martino) sulla base della chiara lettera della norma, esclude che il diritto in questione possa spettare anche al possessore di mala fede anche solo limitatamente alle spese necessarie. Tuttavia alcuni (Greco) hanno invocato, in contrario, ragioni di equità sostanziale ma l’osservazione non convince, considerato che, ricorrendone i presupposti, il possessore impoverito potrà richiedere l’indennizzo previsto dall’art. 2041 c.c. 

Quale (apparente) eccezione (in realtà ulteriore fattispecie di tutela) alla norma in rassegna si pone l’art. 2756 c.c., che prevede il privilegio a favore di colui che abbia un credito per prestazioni e spese relative alla conservazione ed al miglioramento di beni mobili, attribuendogli altresì, fino al soddisfacimento del credito, un particolare diritto di ritenzione che include anche lo jus vendendi come nel pegno; infatti la norma si applica a qualsiasi ipotesi di credito per spese necessarie od utili, da chiunque siano state eseguite e quindi anche da un possessore di malafede.

E dunque in materia immobiliare il diritto di ritenzione spetta solo al possessore di buona fede mentre in materia mobiliare esso spetta anche al possessore di mala fede, ma limitatamente alle spese per la conservazione della cosa e per i miglioramenti apportati.

Una vera e propria eccezione all’attribuzione della ritenzione al possessore di buona fede è data, invece, dall’art. 2864 2° co. c.c. che vieta la ritenzione dell’immobile ipotecato a favore del terzo acquirente che vi abbia effettuato miglioramenti, sebbene gli attribuisca il diritto di far separare dal prezzo di vendita la parte corrispondente ai miglioramenti eseguiti dopo la trascrizione del suo titolo, fino a concorrenza del valore dei medesimi al tempo della vendita.     

Tuttavia è stato giustamente osservato (Montel) che trattasi di un’eccezione più apparente che reale, giacchè, a ben vedere, in forza della natura dichiarativa del sistema di pubblicità immobiliare, rispetto al creditore ipotecario il terzo acquirente non può certo considerarsi possessore di buona fede. 

Non può essere considerato possessore di buona fede e quindi non può invocare il diritto di ritenzione previsto dall’art. 1152 c.c. colui che, dopo aver venduto e consegnato al compratore un immobile, ne sia rientrato in possesso in forza di sentenza provvisoriamente esecutiva ma poi riformata in appello (App. Firenze 2/8/1955); oppure l’acquirente di un immobile in forza di un’alienazione dichiarata nulla e convenuto in rivendicazione dal proprietario (Cass. 13/10/1970 n. 1979); oppure il possessore di beni ereditari che abbia giudicato per errore di essere erede, nel caso in cui l’errore dipenda da colpa grave (Trib. Roma 29/10/1985).   

Il diritto di ritenzione del possessore è concesso solo a chi possiede in nome proprio e dunque non può essere invocato né dal possessore in nome altrui né dal detentore nomine alieno (Greco) (App. Milano 22/2/1955; App. Cagliari 30/7/1962), nemmeno se qualificato (Bianca, Masi, Balestra, Cass. 26/4/1983, n. 2867; Cass. 21/12/1993 n. 12627; Cass. 16/9/2004 n. 18651) e la ragione della limitazione, nonostante l’evidente assimilabilità delle posizioni sostanziali, è ravvisata nel divieto dell’estensione analogica delle ipotesi tipiche di ritenzione, a sua volta fondata sulla loro natura eccezionale.

E così non viene riconosciuto il diritto di ritenzione al promissario acquirente che ha avuto la disponibilità del bene prima della stipula del contratto definitivo, giacché egli deve qualificarsi come detentore qualificato ma non come possessore (App. Campobasso 16/2/2017 n. 59), come vedremo ancora infra.

In giurisprudenza si è ritenuto che il diritto di ritenzione previsto dall’articolo in commento non spetti al condomino che sostiene spese per la cosa comune da lui posseduta durante lo stato di comunione e in particolare su parte della cosa comune attribuita con la divisione ad altro condomino in quanto non può essere considerato possessore di buona fede (Cass. 29/4/1941 n. 1253); né al conduttore che abbia fatto riparazioni sull’immobile locatogli (Cass. 28/2/1953 n. 498); né all’occupante abusivo per migliorie e addizioni fatte sulla cosa detenuta senza titolo (Cass. 20/7/1955 n. 2343); né all’occupante, coniuge del venditore, nei confronti del compratore, perché gli manca l’animus rem sibi habendi, essendo solamente detentore per conto del proprietario-possessore (App. Venezia 27.5.1955).

Non spetta nemmeno al comodatario (Cass. 12/7/1958) né a colui che, avendo ottenuto la consegna di un immobile in virtù di accordo con il quale il proprietario gli aveva fatto la promessa, poi non adempiuta, di venderlo, pretende di rimanere nel possesso dell’immobile stesso per miglioramenti in esso eseguiti (Cass. S.U. 9/12/1960 n. 3214).

Con una recente pronuncia (Cassazione civile sez. I - 19/04/2022, n. 12483), assai interessante per i suoi collegamenti con il diritto amministrativo, si è ribadito il consolidato orientamento secondo cui il diritto di ritenzione, essendo un mezzo di autotutela di natura eccezionale, non è applicabile in via analogica a casi che non siano contemplati dalla legge e non può quindi essere esercitato dall'appaltatore rispetto alle opere da lui costruite su suolo del committente (v. Cass. n. 51 del 1975, n. 5828 del 1984, n. 5346 del 1999, n. 12232 del 2002). Al diritto di credito dell'appaltatore, infatti, non corrisponde un diritto di ritenzione del cantiere, essendo l'obbligo di riconsegna dello stesso configurabile non come una prestazione in relazione sinallagmatica con l'obbligo del committente di pagamento del corrispettivo, ma soltanto come un effetto del venir meno del rapporto contrattuale tra le parti. In altri termini, l'exceptio inadimplenti non est adimplendum, ex art. 1460 c.c., "non può essere svolta per paralizzare la richiesta restitutoria conseguente al venir meno del vincolo contrattuale per effetto della rescissione, L. 2248 del 1865, ex art. 340, [applicabile ratione temporis, ndr] poiché tale restituzione non trova la sua giustificazione in una controprestazione, ma è l'effetto del venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite dalle parti"

Infine, in materia fallimentare si è deciso che il diritto di ritenzione, spettante al possessore di buona fede nei confronti del proprietario a tutela del credito per le spese di conservazione e miglioramento della cosa, è inopponibile alla massa dei creditori in sede fallimentare (Trib. Torino 9/6/1995).

La ritenzione è concessa al possessore di buona fede tanto per le spese utili quanto per le spese necessarie mentre non è prevista a garanzia del rimborso delle spese fatte per la produzione ed il raccolto.

La dottrina concorda che oggetto della ritenzione qui in esame sono solamente le cose alle quali si riferiscono le spese e non gli altri beni posseduti. In tale nozione, poi, possono comprendersi i soli beni immobili, giacchè per i beni mobili il possesso di buona fede vale titolo (Greco). Il divieto di estensione agli altri beni opera anche se essi facciano parte di un complesso ereditario (De Martino).

Fermo restando che il retentore-possessore di buona fede non può appropriarsi dei frutti per rimborsarsi motu proprio delle spese sostenute (Greco, Masi; Cass. 26/7/1941. In giurisprudenza, però, nel senso di escludere la responsabilità del possessore per i frutti percepiti dopo la domanda di rilascio del fondo vedi Trib. Cagliari 9/12/1963), il suo diritto di ritenzione si estende anche ad essi frutti, che dunque potranno essere trattenuti dal possessore (Masi, Balestra, Montel), giacché, altrimenti, l’istituto sarebbe svuotato di efficacia e si risolverebbe negli incommoda per il retentore e nei commoda soltanto per il proprietario rivendicante.

Condizione per l’esercizio del diritto è la conservazione del possesso della cosa, cosicchè esso non si può esercitare se tale possesso si è perduto sia volontariamente che coattivamente per effetto di una sentenza di condanna al rilascio od alla restituzione (Greco) oppure se il possesso sia stato rinunciato (De Martino).

Altro presupposto del diritto di ritenzione è la proposizione della domanda giudiziale per il pagamento delle indennità che, dice la norma, deve essere svolta nel corso del giudizio di rivendicazione, così come allo stesso modo debbono essere richieste anche le indennità relative alle spese (Greco). Giova, peraltro, precisare che il possessore convenuto nel giudizio di rivendica pretende e domanda il pagamento delle indennità e non già il riconoscimento del diritto di ritenzione, il quale è un diritto soggettivo che si acquista ope legis (e che, al più, può essere accertato con sentenza dichiarativa). 

Pertanto, il diritto di ritenzione, che trae la sua origine dalla previsione normativa e che si può esercitare anche fuori del giudizio, si fa valere processualmente come eccezione, atta a contrastare la domanda di restituzione del bene e ad ottenere, mediante domanda riconvenzionale, la soddisfazione del proprio credito per le spese e i miglioramenti effettuati sulla cosa (Mezzanotte).

La sentenza potrebbe condannare il possessore alla restituzione della cosa, sotto condizione sospensiva del pagamento delle indennità dovutegli (Bianca).

La domanda giudiziale del proprietario converte la posizione del possessore in quella di detentore in nome altrui e quindi la cosa dev’essere diligentemente custodita e il retinente risponde per le perdite ed i deterioramenti imputabili a suo dolo o colpa. Non risponde invece per l’impossibilità sopravvenuta per causa a lui non imputabile, in quanto l’esercizio del diritto di ritenzione esclude il suo stato di mora e l’applicazione della regola sul passaggio del rischio (Bianca).

Per lungo tempo la natura di domanda (riconvenzionale) oppure di eccezione della richiesta di pagamento delle indennità e del riconoscimento della legittimità dell’esercizio della ritenzione ha diviso la dottrina, che la riteneva una mera eccezione come tale proponibile in qualunque grado del processo, e la giurisprudenza, secondo cui, invece, si tratta di una vera e propria domanda da proporsi in via riconvenzionale.

Con le rigide preclusioni temporali per la proposizione delle eccezioni (in senso proprio) previste dal novellato art. 167 c.p.c., la distinzione ha perso di significato, fatta eccezione per le forme di proposizione.

Recentemente la Suprema Corte (Cass. 31/10/2019 n. 27990), pur in obiter dictum, ha affermato la possibilità di far valere il diritto di ritenzione mediante eccezione ed in tal caso il giudice non può limitarsi ad accertare l’esistenza delle opere realizzate dal retentore ma deve anche verificarne l’indennizzabilità, quale presupposto per la configurazione stessa del diritto di ritenzione. La sentenza nulla dice al riguardo ma appare corretto aggiungere che, con tali presupposti, la condanna al pagamento delle indennità non possa essere oggetto di eccezione bensì debba proporsi mediante una domanda (riconvenzionale od in via autonoma).

Si riteneva, invece, che essa non è proponibile in sede esecutiva, mediante l’opposizione al precetto od all’esecuzione, in quanto il diritto di ritenzione non può limitare l’efficacia del giudicato rispetto all’avente causa (App. Roma 15/11/1948; App. Napoli 29/11/1955). Ma Cass. 16/6/2016 n. 12406 ha stabilito che il diritto di ritenzione del possessore di buona fede può essere esercitato sotto forma di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ma a condizione che la domanda per i miglioramenti sia stata avanzata nel corso di giudizio per rivendicazione (ovviamente non ancora definito né in senso favorevole cioè con il riconoscimento della proprietà in capo all’opponente né in senso sfavorevole con conseguente negazione del diritto alle indennità).

La serietà della pretesa (sia essa avanzata con domanda o con eccezione) deve inoltre essere attestata mediante la prova –seppur generica- dell’esistenza delle riparazioni e dei miglioramenti. La ratio della necessità di una prova almeno generica prevista espressamente dall’art. 1152 c.c. risiede nel fatto che, in tal modo, si consente al proprietario di valutare la fondatezza della richiesta del possessore e si apre la via ad una definizione stragiudiziale della controversia.

Ciò significa che indipendentemente dalla condanna del proprietario al pagamento dell’indennità verso il possessore si può esercitare il diritto di ritenzione, purchè almeno sussista la prova dell’esistenza effettiva di riparazioni e miglioramenti. Questa prova può anche essere generica, cioè non riguardare in modo specifico l’entità delle singole opere ma limitarsi al fatto che riparazioni o miglioramenti vi sono stati (De Martino).

Si è esattamente affermato (Montel) che può costituire proficua prova generica una consulenza di parte sullo stato attuale delle riparazioni o dei miglioramenti oppure un atto notorio sulla consistenza del domandato oppure un atto generico che possa inquadrare, sia pure superficialmente, le somme spese dal possessore sulla cosa. 

Non può, invece, dirsi sufficiente la condanna generica al pagamento dell’indennità ottenuta in separato giudizio.

Infatti, secondo la Suprema Corte, <<la condanna generica al pagamento delle indennità per i miglioramenti e le riparazioni eseguiti dal possessore di buona fede tenuto alla restituzione del bene è una semplice declaratoria "iuris", dalla quale esula ogni accertamento relativo non soltanto alla misura, bensì alla stessa esistenza in concreto delle riparazioni e dei miglioramenti che il possessore asserisce di aver eseguito: tale pronuncia, quindi, non implicando necessariamente la prova circa l'esistenza dei miglioramenti e delle riparazioni, non può essere invocata a sostegno del diritto di ritenzione previsto dall'art. 1152 c.c. a favore del possessore di buona fede>> (Cass.  22/1/1980 n. 506). 

Nel caso in cui, a norma dell’art. 1151 c.c, l’autorità giudiziaria abbia disposto che il pagamento delle indennità dovute dal rivendicante sia fatto ratealmente, il possessore ha il diritto di ritenere la cosa finchè non siano fornite le garanzie opportune ordinate dall’autorità stessa, come espressamente dispone il capoverso della norma in esame.

E’ controverso se l’offerta di una cauzione da parte del proprietario valga ad estinguere il diritto di ritenere concesso al possessore. 

Si è osservato, in proposito, che è evidente che, secondo lo schema tracciato, un diritto di autotutela legale non può certo estinguersi per l’offerta di una garanzia, a meno che il retentore non acconsenta, rinunziando in tal caso al diritto di ritenere, ma allora si rientrerebbe nella causa di estinzione per rinunzia (Mezzanotte).

Secondo l’Autrice, il giudice potrà soltanto accertare i presupposti dell’esistenza o l’insussistenza del diritto di ritenzione (vale a dire la previsione normativa e gli elementi essenziali), ma non potrà certo negarlo se la legge lo attribuisce, né tantomeno sostituirlo con un provvedimento diverso quale la cauzione od il sequestro.

Per contro si è sostenuto che appare però conforme ai canoni sopra richiamati che lo jus retentionis si estingua e che il bene ritenuto vada pertanto reso al debitore, anche in seguito ad un’idonea cauzione offerta da quest’ultimo prima ed indipendentemente dall’accertamento del credito del retentore, ma proprio per garantirne la soddisfazione in tal caso. La prevalente dottrina nega però in modo assoluto questa possibilità in quanto, nel silenzio della legge al riguardo, invito creditore non è consentito al debitore mutare la condizione in cui questi si trova.  Ma, invero, la cauzione costituisce garanzia specifica del soddisfacimento del creditore e non lascia quindi quest’ultimo in una posizione deteriore rispetto a quella che gli compete come mero retentor. Pertanto né la stessa mancanza di previsione sul punto né il rilievo prima descritto valgono ad escludere che al debitore possa attribuirsi la facoltà di prestare idonea cauzione per evitare gli effetti della ritenzione, a meno di non sostenere, contro ogni principio solidaristico di correttezza e buona fede, che la posizione del creditore non possa in alcun modo essere modificata (Saturno).

4.1  segue:  ed a favore del possessore di buona fede di beni ereditari (art. 535 c.c.)

L’art. 535 c.c. al primo comma dispone che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni.

L’ultimo comma, dal canto suo, dispone che è possessore in buona fede colui che ha acquistato il possesso dei beni ereditari ritenendo per errore di essere erede e che la buona fede non giova se l’errore dipende da colpa grave.

Come si vede la definizione di buona fede somministrata dalla norma in commento è sostanzialmente coincidente con quella contenuta nell’art. 1147 c.c. 

Occorrono, tuttavia, le seguenti precisazioni:  

a) non occorre, per la qualificazione del possesso come possesso di buona fede l’esistenza di un titolo, sebbene in concreto non idoneo a qualificare l’acquisto, ma deve ritenersi sufficiente l’opinione del possessore che un titolo ci sia. Basta, in sostanza, quello che suole definirsi un titolo putativo (Ferri). Il possessore dovrà pertanto aver acquistato il possesso ritenendo, in buona fede, di essere erede (o legatario) e naturalmente non potrà crederlo che sulla base di un titolo, anche se questo non esista oggettivamente;

b) la buona fede sussisterà anche quando taluno crederà di essere erede in quanto legato col defunto da vincolo di parentela, anche se, in realtà, tale vincolo non sussisteva affatto: non solo, quindi, nell’ipotesi che una parentela sussista ma anche qualora vi siano altri parenti più prossimi da lui ignorati;

c) sarà possessore di buona fede colui che crede di essere stato istituito erede in testamento e non solo se vi è un testamento revocato o nullo o annullabile ma anche se un testamento, sia pure invalido o revocato, non esista altro che nella sua mente (Ferri);

d) deve essere considerato possessore di buona fede anche chi ha conseguito il possesso dei beni ereditari in virtù di un testamento che lo istituiva erede universale pretermettendo i legittimari (Trib. Brindisi 6/12/1953);

e) la credenza di essere erede potrà essere fondata anche su un errore di diritto;

f) secondo alcuni (Azzariti-Martinez-Azzariti) il possessore, per poter essere considerato di buona fede, deve anche apparire erede; ma, in contrario si è giustamente osservato (Ferri) che non si deve confondere la buona fede, che è un dato soggettivo, con l’apparenza che è un dato oggettivo;

g) la buona fede di cui all’art. 535 c.c. deve esistere al momento dell’acquisto (Cass. 16/6/1941 n. 1071) ma, in contrario, secondo alcuni la buona fede deve sussistere sia al momento dell’acquisto del possesso sia al momento dell’alienazione del bene;

h) il limite è costituito dalla colpa grave, ossia da una grave negligenza del possessore.

In senso un po’ più restrittivo la giurisprudenza ha ritenuto che non può considerarsi possessore di buona fede ai sensi dell’art. 535 3° co. c.c. colui che abbia acquistato il diritto contestato anche solo con il ragionevole dubbio o sospetto circa l’esistenza del diritto altrui (Cass. 27/10/1969).  

Secondo una parte della dottrina, tuttavia, il diritto di ritenzione previsto dalle norme sul possesso ossia dall’art. 1152 c.c. non potrebbe essere riconosciuto al possessore dei beni ereditari in virtù di un preteso carattere eccezionale dell’istituto.

L’opinione è condivisa dall’unica decisione della Corte di legittimità reperibile in tema, secondo cui  <<al possessore di beni ereditari, al quale si applicano le disposizioni in materia di possesso concernenti la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni, non può essere riconosciuto anche il diritto di ritenzione nei confronti dell'attore in petizione di eredità, perché tale diritto, che attua un'eccezionale forma di autotutela, è insuscettibile di applicazione analogica a casi non contemplati dalla legge>>. (Cass. 10/2/1986 n. 837).

In senso contrario altra ed importante parte della dottrina ritiene che l’applicabilità sia ravvisabile anche in assenza di un rinvio esplicito alla norma specifica dell’art. 1152 c.c. (Azzariti-Martinez-Azzariti, Prestipino, Ferri, Grosso-Burdese, Giannattasio).

Tale ultima opinione, sebbene minoritaria, appare la più corretta, atteso che, se è vero che la norma non opera un richiamo specifico all’art. 1152 c.c., è altrettanto vero che essa richiama in generale le norme sulla disciplina della restituzione dei frutti, delle spese, dei miglioramenti e delle addizioni dettata per il possessore, senza esclusione alcuna. Pare quindi arbitrario sostenere, in assenza di un dato normativo, che debba escludersi il diritto in esame.

Non è convincente e pare frutto di equivoco l’argomentazione secondo cui il diritto di ritenzione costituirebbe una forma eccezionale di autotutela come tale insuscettibile di applicazione analogica e ciò impedirebbe di riconoscere la ritenzione al possessore di beni ereditari, giacché  occorre considerare che, proprio in forza dell’espresso richiamo in blocco alle norme sul possesso, l’art. 1152 c.c. resta applicabile alla posizione del possessore di beni ereditari in via diretta e non già per analogia.

Ovviamente il giudizio di rivendicazione menzionato dall’art. 1152 c.c. è qui integrato dall’azione di petizione ereditaria.

L’oggetto della ritenzione non è l’eredità nel suo complesso di beni ma i singoli beni cui i miglioramenti si riferiscono. Perciò se si agisca per il recupero di due beni ereditari, di cui uno solo migliorato, il convenuto non potrà pretendere di ritenere tutti e due i beni fino al pagamento dell’indennità per i miglioramenti, ma solo quello cui il miglioramento si riferisce (Ferri).   




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