Si torna sull'istituto dell'affidamento diretto, come in altri precedenti articoli, su cui riemerge da parte del Consiglio di Stato il principio di diritto per il quale si ribadisce che la mera procedimentalizzazione dell’affidamento diretto, mediante l’acquisizione di una pluralità di preventivi e l’indicazione dei criteri per la selezione degli operatori non trasforma l’affidamento diretto in una procedura di gara, né abilita i soggetti che non siano stati selezionati a contestare le valutazioni effettuate dall’amministrazione circa la rispondenza dei prodotti offerti alle proprie esigenze.
Segue un estratto dal pronunciamento del giudice amministrativo di secondo grado.
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Consiglio di Stato, Sez. V, 15/01/2024, n. 503
FATTO e DIRITTO
1. – Con l’appello in decisione, L’xxxxxxxx ha chiesto la riforma della sentenza del TAR Lombardia, meglio individuata in epigrafe, che ha respinto il suo ricorso contro il provvedimento di aggiudicazione, in favore della controinteressata xxxxxxxx , dei servizi di rassegna stampa-web e audio-video e di analisi semestrale e annuale della rassegna stampa, servizi che la stazione appaltante xxxxxxxx aveva sottoposto alla procedura semplificata di affidamento diretto, prevista dall’art. 1, comma 2, lettera a), del decreto-legge n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020.
La sentenza gravata, premessa la giurisdizione del giudice amministrativo, ha respinto tutti e tre i motivi sollevati con il ricorso introduttivo di primo grado, tra i quali, anzitutto, quelli che erano volti ad ottenere l’esclusione dell’offerta presentata da xxxxxxxx Il TAR, in particolare, in sede di esame del primo motivo, ha disatteso la censura che configurava la clausola stabilita all’art. 3.1 del disciplinare (secondo cui “Il Fornitore dovrà essere in possesso di accordi con gli editori (xxxxxxxx ) per la distribuzione degli articoli”) quale condizione di ammissione in gara, osservando che essa, piuttosto, doveva intendersi come requisito di esecuzione del contratto: per l’effetto, nonostante che la ricorrente avesse allegato il mancato rispetto, da parte dell’offerente aggiudicataria, dell’accordo de quo, il TAR non ha ravvisato alcun effetto viziante sulla scelta del fornitore e sulla conseguente aggiudicazione del servizio. Analogamente, nel respingere il secondo motivo, il TAR ha ritenuto non apprezzabile la dedotta violazione dell’accordo medesimo, da parte di xxxxxxxx xxxxxxxx , con conseguente insussistenza di ulteriori ragioni atte ad escludere l’offerta dell’aggiudicataria. Infine, il TAR ha respinto il terzo motivo, con il quale la ricorrente aveva lamentato alcune violazioni procedimentali asseritamente commesse dalla stazione appaltante (con censura che, dunque, questa volta, puntava anche all’annullamento dell’intera procedura); in particolare, il TAR ha ritenuto la valutazione finale compiuta dal RUP (di cui al verbale del 4 novembre 2022) “pienamente legittima, in quanto specificamente e dettagliatamente motivata con riferimento a tutti i criteri valutativi predeterminati dall’Amministrazione”, in ragione “della ritenuta maggior rispondenza dell’offerta di xxxxxxxx alle esigenze del xxxxxxxx ”; il TAR, inoltre, ha aggiunto che le semplificazioni procedimentali poste in essere dall’amministrazione (su tutte, l’omessa formazione di una graduatoria finale) trovavano rispondenza, oltre che nella clausola di cui all’art. 7 del disciplinare, anche e soprattutto nelle previsioni del decreto-legge n. 76 del 2020, come convertito, in base alle quali la procedura posta in essere doveva considerarsi alla stregua di un mero confronto di preventivi, più che di una vera e propria gara, con l’unica imposizione consistente nell’onere di motivazione della scelta dell’operatore in termini di economicità e di rispondenza dell’offerta alle esigenze della p.a.
Nel chiedere l’annullamento e/o la riforma della sentenza del TAR, la società appellante, attraverso tre motivi di appello, ha riproposto le censure di primo grado, disattese dalla pronuncia gravata.
2. – Nel presente giudizio si è costituita la controinteressata xxxxxxxx, chiedendo il rigetto dell’appello, non senza eccepirne, preliminarmente, l’irricevibilità e l’inammissibilità sotto diversi profili.
Si è altresì costituito il xxxxxxxx, in persona del Rettore pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per il rigetto dell’appello in quanto infondato nel merito. La difesa dell’amministrazione ha anche eccepito la carenza di interesse in capo alla parte appellante, in quanto a propria volta priva dei necessari accordi con gli editori, prescritti dall’art. 3.1 del disciplinare.
3. – In vista della pubblica udienza di discussione, la parte appellante ha svolto difese con memoria depositata il 10 ottobre 2023. Ne sono seguiti atti di replica depositati dalle due controparti, entrambi in data 13 ottobre 2023.
Alla pubblica udienza del 26 ottobre 2023, quindi, la causa è stata trattenuta in decisione.
4. – L’appello è in parte inammissibile e in parte non fondato.
Tutti i motivi di appello, al loro interno articolati in plurime e diverse censure, sono affetti – in misura più o meno marcata, come di seguito si passa a riferire – dal vizio di inammissibilità puntualmente eccepito dall’appellata xxxxxxxx , quello cioè di limitarsi alla mera riproposizione delle censure formulate in primo grado, senza che siano stati dedotti specifici motivi di contestazione del percorso argomentativo sul quale si fonda l’appellata sentenza del TAR.
Deve ricordarsi, in proposito, che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall’art. 101, comma 1, cod. proc. amm., impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo; il giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo, infatti, si presenta come revisio prioris instantiae i cui limiti oggettivi sono segnati dai motivi di impugnazione (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, questa sez. V, sentenze n. 2843 del 2021 e n. 5208 del 2020; più di recente, sez. II, sentenza n. 4190 del 2023).
4.1. – Quanto al primo motivo di appello (che corrisponde, nella sostanza, al primo motivo del ricorso in primo grado), sono dunque inammissibili, per tale ragione, le censure che ripropongono il vizio di violazione dell’art. 3.1 del disciplinare e che, nel far ciò, argomentano la sussistenza di un “autovincolo” della stazione appaltante in ordine alla valutazione, come causa di esclusione, del possesso, in capo all’offerente, di un accordo con gli editori. Per la stessa ragione, sono inammissibili anche le censure che sostengono l’apprezzabilità, sempre in chiave di esclusione dell’offerta, di profili di asserita violazione dell’accordo medesimo, in tesi rinvenibili nella fattispecie che interessa l’affidataria (odierna appellata) cui si rimprovera il superamento del numero massimo di articoli ammessi nella rassegna stampa, tramite la possibilità, consentita dalla sua offerta, di visualizzazione delle pagine con la modalità c.d. “sfogliatore” e/o con il meccanismo di accesso e di ricercabilità full-text nella banca dati totale. Si tratta, infatti, di censure che già erano state sollevate in primo grado, attraverso il primo motivo, e che il TAR – nel riferirsi alla preventiva opera di filtro, posta in essere dal Politecnico prima dell’effettiva diffusione degli articoli – ha disatteso con motivata risposta, non adeguatamente considerata, in parte qua, dall’appellante.
Quest’ultima, piuttosto, ha specificamente sottoposto a censura soltanto alcuni degli aspetti che formano oggetto della motivazione resa dal TAR; limitatamente a tali aspetti, pertanto, le censure di cui al primo motivo non incorrono nel vizio di inammissibilità.
Per tale parte, tuttavia, tali censure, nel merito, non sono fondate.
Tale è la sorte delle doglianze che si riferiscono alle ragioni, indicate dal TAR, per le quali la clausola di cui all’art. 3.1 del disciplinare è stata intesa nel senso di riferirsi ad un requisito di esecuzione della commessa, piuttosto che ad una condizione di ammissione dell’offerta. Giova qui riportare nuovamente il contenuto letterale di tale clausola: “Il Fornitore dovrà essere in possesso di accordi con gli editori (xxxxxxxx ) per la distribuzione degli articoli”. Al di là dell’equivoco tenore del termine “Fornitore” (che il TAR ha ritenuto riferirsi alla figura incaricata dell’esecuzione, piuttosto che all’offerente in sede di gara), assume qui rilievo decisivo non solo (e non tanto) il fatto che – come pure puntualizzato dal TAR – la clausola in questione non è stata qualificata espressamente come escludente, quanto soprattutto il fatto che la censura di parte ricorrente era volta a valorizzare una presunta situazione di inadempimento dell’accordo con gli editori, piuttosto che l’effettiva sussistenza di un accordo concluso dalla ditta affidataria.
Che l’aggiudicataria fosse in possesso dell’accordo con l’editore è circostanza pacifica; ciò che è contestato, piuttosto, è il non esatto adempimento di tale accordo. Tuttavia la clausola in questione si riferisce chiaramente al possesso dell’accordo, non potendo del resto pretendersi, da parte della stazione appaltante, per di più in sede di procedura di gara, una preventiva disamina circa lo stato di adempimento di accordi, stipulati con terzi, da parte dei singoli offerenti. Nella prospettiva della stazione appaltante, il mancato adempimento potrà, invero, risultare rilevante solo nell’ipotesi in cui esso, fatto valere dall’avente diritto nelle forme consentite, abbia condotto alla caducazione degli accordi, determinando in tal modo una situazione sopravvenuta di inosservanza della clausola del disciplinare. Ma non è questa la situazione che viene in rilievo nella presente fattispecie, in cui l’inadempimento degli accordi, da parte dell’aggiudicataria, è meramente allegato dall’appellante e non si fonda su alcun elemento comprovato.
4.2. – Il secondo motivo di appello, con il quale l’appellante ripropone, nella sostanza, il secondo motivo del ricorso di primo grado, deducendo la violazione delle norme sul diritto d’autore, è interamente affetto dal vizio di inammissibilità più sopra evidenziato.
L’appellante si limita a reiterare le censure di primo grado, senza considerare le ragioni di rigetto esposte dal TAR, il quale, oltre a rimarcare la mancata dimostrazione delle violazioni del diritto d’autore, aveva sottolineato la natura del tutto eventuale della questione. Soltanto nella fase dell’esecuzione contrattuale – aveva precisato il TAR – sarebbe stato possibile, per la stazione appaltante, apprezzare eventuali violazioni commesse dall’aggiudicataria quanto alle norme sul diritto d’autore, ma ciò, evidentemente, sempre in chiave di sopravvenuta caducazione degli accordi (cui il xxxxxxxx , si ribadisce, è estraneo), e quindi solo una volta definiti i rapporti tra le parti firmatarie dei medesimi. Profili, questi ultimi, in ordine ai quali le censure dell’appellante nulla deducono.
4.3. – Anche il terzo e ultimo motivo di appello non si sottrae alla censura di inammissibilità, nei sensi poc’anzi rilevati.
L’appellante si è infatti limitata a riproporre pedissequamente le censure di cui al terzo motivo del ricorso di primo grado, insistendo sul difetto di motivazione in ordine alla scelta dell’aggiudicataria e sulla mancata formazione di una graduatoria. Nel far ciò, tuttavia, essa non ha considerato le ragioni di rigetto argomentate dal TAR, che si riferiscono alla natura semplificata della procedura posta in essere, regolata dall’art. 1, comma 2, lettera a), del decreto-legge n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020.
In particolare, il TAR ha rimarcato che l’omissione della graduatoria finale risultava coerente con le previsioni del disciplinare, intitolato “Condizioni particolari di RDO – Confronto di preventivi” (richiamandone l’art. 7, paragrafo finale), e che la scelta dell’aggiudicataria è stata specificamente e dettagliatamente motivata con riferimento a tutti i criteri valutativi predeterminati dall’amministrazione.
Il Giudice di prime cure, inoltre, ha affermato che la previsione di questi ultimi, insieme all’acquisizione di più offerte, non comportava la trasformazione della procedura in una gara vera e propria, trattandosi piuttosto di un mero confronto di preventivi, con conseguente dovere della stazione appaltante di motivare la scelta dell’aggiudicatario non in ottica comparativa, ma solo in termini di economicità e di rispondenza dell’offerta alle proprie esigenze.
Gli atti posti in essere dall’amministrazione, a giudizio del TAR, sono stati coerenti con le previsioni dell’art. 30 del d.lgs. n. 50 del 2016 (richiamato dall’art. 1, comma 2, lettera a, del decreto-legge n. 76 del 2020, come convertito) e ciò proprio in considerazione della pubblicità della procedura, della predeterminazione dei criteri valutativi e della completezza della motivazione in relazione alla tipologia di procedura espletata.
A fronte della motivazione del TAR, l’appellante ha ribadito che quella posta in essere dall’amministrazione doveva ritenersi alla stregua di una vera e propria procedura selettiva, dovendosi far prevalere il “dato sostanziale” consistente nel “procedimento in concreto posto in essere”. A suo modo di vedere, il xxxxxxxx , una volta deciso “di aprire l’affidamento al mercato attraverso l’introduzione di regole improntate al confronto concorrenziale”, avrebbe dovuto farsi guidare dai principi generali dell’evidenza pubblica e, quindi, avrebbe dovuto prestabilire i criteri di valutazione delle offerte e valutare queste ultime in comparazione tra di loro, redigendo apposita graduatoria. La motivazione finale del RUP sarebbe, in tale prospettiva, “apodittica” e, comunque, “generica ed indeterminata”.
Così argomentando, tuttavia, l’appellante non ha fatto altro che riproporre gli argomenti già prospettati al TAR, ai quali il primo giudice ha già offerto motivata risposta, non adeguatamente considerata, né efficacemente contrastata. La stessa prospettiva che vorrebbe prediligere le caratteristiche del “procedimento in concreto posto in essere” non giova all’appellante, in quanto essa, a ben vedere, prova troppo: la procedura in concreto posta in essere, infatti, era proprio quella dell’affidamento diretto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lettera a), del decreto-legge n. 76 del 2020, come convertito, le cui caratteristiche erano ben delineate dal disciplinare che, come rimarcato dal TAR, escludeva in radice la natura comparativa della valutazione. In tale prospettiva, la motivazione finale è del tutto adeguata e sufficiente, in quanto doveva limitarsi ad un giudizio di rispondenza dell’offerta alle esigenze dell’amministrazione.
Deve qui ribadirsi che la mera procedimentalizzazione dell’affidamento diretto, mediante l’acquisizione di una pluralità di preventivi e l’indicazione dei criteri per la selezione degli operatori (secondo modalità che corrispondono alle previsioni contenute nelle Linee Guida ANAC n. 4 per gli affidamenti diretti), non trasforma l’affidamento diretto in una procedura di gara, né abilita i soggetti che non siano stati selezionati a contestare le valutazioni effettuate dall’amministrazione circa la rispondenza dei prodotti offerti alle proprie esigenze (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 3287 del 2021, opportunamente richiamata dal TAR; va qui aggiunto che le osservazioni compiute su questa sentenza, nella parte finale dell’atto di appello, non sono tali da inficiare la portata generale del principio di diritto così enunciato, il quale – diversamente da ciò che l’appellante ritiene – non appare affatto influenzato dalle particolari caratteristiche che, in quel caso, si riconnettevano alla procedura di affidamento diretto, per come disegnata dall’amministrazione nella richiesta di preventivo).
5. – In definitiva, in accoglimento di una delle eccezioni in rito formulate dalla parte privata appellata (con assorbimento delle ulteriori eccezioni in rito, in ossequio al principio di economia processuale, declinato nel senso della prevalenza della ragione più liquida), l’appello deve essere dichiarato parzialmente inammissibile, perché meramente riproduttivo delle censure già formulate in primo grado, le quali non contengono una specifica censura delle motivazioni rese dal TAR. Per la restante parte, come più sopra chiarito, l’appello deve invece essere respinto nel merito, in quanto non fondato.
6. – L’appellata xxxxxxx ha chiesto la condanna della parte appellante “per lite temeraria”, “ai sensi dell’art. 96 cpc”, giustificandola sulla base della pretestuosità e della manifesta infondatezza e/o inammissibilità delle censure di cui all’atto di appello.
Deve premettersi che la domanda, così formulata, va intesa nel senso di riferirsi alla previsione dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., ossia – nella cornice del giudizio amministrativo – alla fattispecie prevista dall’art. 26, comma 1, secondo periodo, cod. proc. amm., a norma del quale “In ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati”. A ciò conduce il riferimento, compiuto dalla richiedente, alla natura manifestamente infondata (e/o inammissibile) delle censure formulate dalla controparte, che costituisce il fulcro di questa particolare figura di responsabilità. Viene, dunque, sollecitata una misura che, oltre alla connotazione sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, presenta anche (a differenza della tradizionale e diversa figura della lite temeraria, di cui all’art. 96, primo comma, c.p.c.) una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (cfr. Corte cost., sentenza n. 139 del 2019).
Così correttamente intesa la domanda dell’appellata, essa non può essere accolta.
Come di recente ritenuto dalla Sezione, presupposto della condanna ai sensi dell’art. 26, comma 1, secondo periodo, cod. proc. amm. è che la parte soccombente abbia sottoposto al Collegio domande o difese la cui infondatezza o inammissibilità siano “manifeste”, situazione da valutarsi secondo il parametro proprio degli illeciti soggetti a sanzione pubblicistica, ossia quello dell’assenza di ogni ragionevole dubbio (Cons. Stato, questa V Sez., sentenza n. 8487 del 2023). Simile soglia di certezza non può ritenersi raggiunta nel caso di specie, in ragione della complessità delle questioni trattate e della varietà delle censure sollevate con l’atto di appello.
7. – Le spese del presente grado seguono la soccombenza e si liquidano in euro 4.000,00 (quattromila/00) in favore di ciascuna delle parti appellate, per un totale di euro 8.000,00 (ottomila/00).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione quinta, definitivamente pronunciando,
a) dichiara l’appello inammissibile, nella parte indicata in motivazione, e, per la restante parte, lo respinge;
b) respinge la domanda di ......... di condanna dell’appellante ai sensi dell’art. 26, comma 1, secondo periodo, cod. proc. amm.;
c) condanna la parte appellante alla refusione delle spese del grado, liquidate in euro 4.000,00 (quattromila/00) in favore di ciascuna delle parti appellate, per un totale di euro 8.000,00 (ottomila/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati:
Diego Sabatino, Presidente
Stefano Fantini, Consigliere
Alberto Urso, Consigliere
Elena Quadri, Consigliere
Antonino Masaracchia, Consigliere, Estensore