Deboli, svantaggiati  -  Elvira Reale  -  19/04/2024

Questioni psico-forensi: vulnerabilità contra fragilità; vittimizzazione secondaria  contra strumentalità delle denunce;  prospettiva di genere contra ideologia di genere

Elvira Reale, Gabriella Ferrari Bravo,  Comitato tecnico-scientifico ‘Protocollo Napoli’ 

Esamineremo alcuni provvedimenti del tribunale di Roma e della Cassazione che fanno chiarezza su temi cruciali dibattuti in ambito psico-forense: a. la vulnerabilità delle vittime di violenza equivocata come fragilità, gracilità, tratto di personalità; b. i diritti di difesa delle donne malinterpretati come strumentalità delle denunce contra l’altra parte genitoriale nei procedimenti giudiziari di affido; c. la prospettiva di genere  che illumina il contesto della violenza domestica  equivocata come parzialità e mancanza di neutralità del giudice o del consulente tecnico di ufficio e/o di parte.

A. Cominciamo dal provvedimento della giudice per le indagini preliminari (GIP) del tribunale di Roma (16.3.2020) contro un decreto di archiviazione nei confronti di un autore di violenza; decreto rafforzato dai provvedimenti del tribunale civile di Roma che toglie la responsabilità genitoriale alla vittima, sottraendo un figlio piccolo alla madre e dandolo in affido esclusivo al padre, grazie a una CTU di stampo impropriamente “neutrale” ovvero che non ha preso in considerazione il contesto della violenza grave agita contro la donna, non mettendo in atto la prospettiva di genere, necessaria a individuare, ‘vedere’ e prendere in considerazione la violenza con il suo giusto peso. 

Questo provvedimento, che dispone l’imputazione coatta al PM, aggiunge al tema di una malintesa vulnerabilità quello della vittimizzazione secondaria causata proprio dall’aver equivocato un concetto giuridico (la vulnerabilità) che poggia la sua base sulle condizioni oggettive della vittimizzazione primaria (causata dal primo autore) che nulla hanno a che vedere con tratti di personalità come la fragilità o similari.

Partiamo quindi dalla storia di D. una giovane ragazza che subisce violenza fin da primi tempi della relazione e che dopo una gravidanza non cercata, viene abbandonata dal compagno nel momento di maggiore bisogno affettivo, psicologico e economico; la stessa ragazza è poi oggetto di violenza in più occasioni, documentate anche con referti, fino ad arrivare a un tentativo di suicidio - con assunzione di farmaci in dose non terapeutica - immediatamente successivo a un episodio di violenza grave, per altro denunciato. Il tentativo suicidario, valutato in modo  avulso dal contesto di violenza più volte subita in cui si era verificato, incide sulla decisione del tribunale civile di togliere la responsabilità genitoriale e il bambino alla madre.

In questo caso sia l’intervento del giudice civile sia la consulenza tecnica guardano alla donna senza alcun rispetto per l’ obbligo di tutela che discende dalle varie convenzioni e direttive internazionali nonché dalla Cassazione a sezioni unite (Cass., Sez. Unite, n. 10959 del 29/01/2016). Non si è proceduto infatti ad un’analisi di contesto per visualizzare il gesto della donna nell’ambito della violenza domestica in modo da valutarlo come effetto del comportamento violento dell’uomo(1), agendo poi in conseguenza in un’ottica di tutela della stessa dalla violenza. Al contrario il tribunale si è mosso in maniera penalizzante e questo comportamento valutativo assunto, non solo dal tribunale civile, ma anche dai servizi sociali e dal consulente tecnico, secondo il GIP, ha disatteso norme e convenzioni internazionali, procurando alla donna anche i danni di una vittimizzazione secondaria. 

Ecco l’analisi presente nel provvedimento della GIP che riportiamo unitamente a un’interessante e innovativa disamina degli atti del civile presenti nel procedimento penale:  

La colpevolizzazione della persona offesa, oggettivamente, avvenuta da parte dei servizi sociali di Roma e dalla consulente tecnica d’ufficio che mai hanno fatto riferimento alla violenza di genere patita dalla D. pur risultando la stessa documentalmente, è la tipica (e spesso inconsapevole) conseguenza di un’operazione valutativa inquinata da una visione pregiudiziale e stereotipata di una delle parti del processo, che ha omesso l’esame di tutti gli atti, in primis la denunciata violenza dell’uomoDalla descrizione dei fatti in precedenza riassunti emerge che i diversi soggetti istituzionali che hanno esaminato le prove del presente processo - dagli assistenti sociali di Roma alla consulente tecnica del tribunale civile - hanno ritenuto la D., aldilà dell’essere colei che ha subìto sopraffazioni e violenze da parte del compagno, una persona vulnerabile, inadatta a prendersi cura del proprio figlio, così qualificandola come madre inadeguata, incapace e dunque in qualche modo colpevole. Dalla mera lettura della relazione dei sevizi sociali e della consulenza tecnica d’ufficio risulta che è stata posta sotto osservazione solo la D., lasciando del tutto in ombra la posizione del compagno di cui si è omesso del tutto l’indole pericolosa, desumibile dalle dichiarazioni della donna e dei suoi parenti – che hanno fatto espresso riferimento ai precedenti penali di G -, oltre che comprovata dal certificato penale per reati violenti. Gli approfondimenti, le critiche, le osservazioni hanno infatti riguardato solo il “rapporto madre- bambino” e la conclusione era stata nei termini di un’immaturità genitoriale, ovviamente della madre, senza compiere alcuna analisi del fatto che questa percezione, aldilà dei profili derivanti da circostanze fisiologiche come la depressione post partum (agli atti non vi è peraltro alcuna certificazione) riguardasse anche forme di violenza subìte da parte del compagno”. 

E ancora: “D’altra parte sarebbe bastato poco per approfondire, in fatto, gli accadimenti visto che la donna aveva denunciato G. per la grave aggressione avvenuta a giugno 2016 di cui vi era il riscontro nella certificazione medica. Si tratta di un dato essenziale che non è stato approfondito da nessuna delle autorità intervenute e che la consulente tecnica di ufficio aveva l’obbligo di evidenziare ai giudici civili.  La vittimizzazione secondaria di D è stata posta in essere da una consulente tecnica del tribunale che ha l’obiettivo istituzionale di tutelare i bambini e il loro rapporto con i genitori, purché al di fuori di evidenze di violenza, e che ha qualificato la vulnerabilità e la fragilità della donna non come indici che imponessero la sua tutela rafforzata anche rispetto al piccolo X, ma come condizioni per colpevolizzarla e per ridurre il suo diritto ad un rapporto pieno con il proprio  figlio. Il risultato finale, ad oggi, è che chi ha picchiato la propria compagna, chi l’ha portata al tentativo di suicidio, chi l’ha ostacolata nell’esercizio del diritto di visita, chi ha precedenti penali per reati violenti, chi si è servito della propria posizione di potere economica e di età, chi ha sottratto il figlio con violenza, facendolo piangere e strappandolo alla propria madre in un servizio sociale ha l’affido esclusivo. Si tratta di una evidente forma di vittimizzazione primaria e secondaria vietata a chiunque da qualsiasi autorità”.

Leggiamo da questa disamina degli atti un vero e proprio j’accuse contro la procedura penale o civile che non tiene in dovuta considerazione le norme internazionali e nazionali: 

Le norme citate(2) non hanno valenza programmatica, ma assumono carattere precettivo nel nostro ordinamento tanto da imporre all’Autorità giudiziaria di interpretare i singoli istituti, processuali e sostanziali, non in modo parcellizzato, ma in un’ottica globale, che pone al centro la tutela delle vittime dei reati di violenza di genere, senza distinguere il settore civile e minorile da quello penale, ma armonizzandoli al fine di evitare contraddittorietà tra i giudicati ed offrire uno spazio di tutela effettiva e sostanziale alle persone offese”.  

Proseguendo:   E’ di tutta evidenza che la Direttiva, così come la Convenzione di Istanbul, mirano ad imporre allo Stato e alle sue Autorità di ovviare al rischio che le vittime di violenza di genere possano provare timore e sfiducia proprio nei confronti di chi è deputato istituzionalmente a proteggerle”

Vi è quindi una robusta normativa per visualizzare i diritti delle vittime, a cui tutti, consulenti e giudici,  devono attenersi. Soprattutto, poi, il procedimento civile non può trasformare la donna da vittima di violenza in colpevole, se guardata dal punto di vista del ruolo genitoriale nei confronti dei presunti diritti genitoriali dell’altra parte, che si profila come autore di violenza diretta sulla madre e di violenza assistita sul figlio minore. 

Il provvedimento procedendo nel solco di come la vittimizzazione secondaria colpisca le donne in vari modi – con la misinterpretazione o l’inapplicazione delle leggi e delle convenzioni - affronta il tema della vulnerabilità che va intesa come categoria giuridica e non come categoria di stampo psicologico, attribuibile ad esempio ad un profilo di personalità estraneo alla dinamica della violenza: 

L’esperienza, vissuta da D. di grave marginalizzazione e sostanziale criminalizzazione della sua vulnerabilità, l’ha privata di qualsiasi soggettività sia rispetto alla relazione affettiva intrattenuta con l’indagato, che non le ha mai riconosciuto alcuna dignità di donna e di madre; sia rispetto alla relazione con il proprio figlio con riguardo al quale l’intero contesto istituzionale le ha fatto credere di essere inadeguata ed incapace, così perpetuando quell’immagine distruttiva, a lei quotidianamente proposta dal compagno. In conclusione, si ritiene che la persona offesa sia stata vulnerabile sino al momento in cui è rimasta all’interno di quella relazione violenta, in quanto esposta alla quotidiana violazione dei suoi diritti umani, ma una volta rimossa la situazione che ha determinato quella condizione,  ovverosia la pratica sopraffattrice del compagno,  la  D. ha recuperato la propria soggettività di donna e di madre…Non v’è chi non veda che, aldilà delle migliori intenzioni di ognuno, è avvenuto proprio ciò che G ha quotidianamente minacciato: togliere il figlio alla madre. Questo è potuto accadere in quanto, nel complesso percorso della D. nei diversi ambiti istituzionali e medici, non si è tenuto in debito conto il concetto di vulnerabilità, intesa appunto come categoria giuridica che appartiene al nostro ordinamento in forza della normativa richiamata e con uno specifico perimetro interpretativo di contenuto relazionale e dunque relativo;  concetto giuridico da non confondere con l’incapacità e la fragilità soggettiva di chi ne è colpita a causa della violenza che subisce”.

Si aggiunge a questa interpretazione quanto indicato dall’art. 90 quater cpp sulla condizione di particolare vulnerabilità attribuibile alle vittime in rapporto al reato di cui sono persone offese e tra queste condizioni conta anche la violenza domestica in cui “la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall'autore del reato”.

A sostegno poi dell’interpretazione oggettiva dello stato di vulnerabilità ricordiamo anche la sentenza della Corte EDU (Opuz contro Turchia 2009) dove si precisa che la condizione di particolare vulnerabilità è determinata «dalla condizione di assoggettamento in cui la donna è costretta a vivere a causa delle continue intimidazioni e offese, delle reiterate violenze fisiche e psicologiche, delle minacce che causano nella stessa la paura di ulteriori violenze, comprimendo la sua sfera di autodeterminazione e causandone la lesione dell’integrità psicofisica»

In sintesi la vulnerabilità non è uno status della persona, ma una “posizione” o “condizione” connessa proprio ad una specifica relazione di potere.  Di contro quindi a un’accezione di vulnerabilità clinica - che la consulenza tecnica di stampo psicologico porta avanti-  si apre lo scenario della vulnerabilità di posizione correlata cioè: al dislivello di potere relativo all’età, alla condizione economica, all’isolamento conseguente all’allontanamento dal proprio contesto sociale e familiare, alle denigrazioni che minano l’autostima, alle minacce di violenza fisica, rese credibili anche dal divario di potenza fisica, alle minacce di violenza psicologica (come sottrarre il bambino) rese credibili dal divario di status socio-economico; è proprio questo contesto complesso e complessivo di violenza che crea  un clima di terrore, terreno fertile per la sudditanza e la soggezione della vittima al violento, insieme alla reale e concreta dipendenza economica. In questo contesto tra le varie minacce troneggia la minaccia più terribile che colpisce una madre, la minaccia cioè di sottrazione di un figlio piccolo, bisognoso di cure materne; ed è questa minaccia che rende le donne in generale maggiormente vincolate al violento e piegate alla tolleranza degli agiti violenti. Questa minaccia poi prende corpo proprio nelle decisioni delle istituzioni a cui la donna si rivolge per chiedere aiuto e protezione. Non deve quindi meravigliare se verso queste istituzioni, percepite come ostili, la donna mostri rabbia, timore, non collaborazione: 

La violenza che ha subìto la D. anche attraverso questo percorso di quotidiana minaccia nell’esercizio del proprio diritto di visita, posta in essere dal padre di suo figlio e dalla suocera, viene definita violenza di prossimità in quanto è il rapporto affettivo che fiacca e depotenzia la capacità della persona offesa di accorgersi dei maltrattamenti, specie di quelli psicologici, e arrivare a denunciarli. Anche la rabbia verso le istituzioni è comprensibile, alla luce di un contesto ‘oggettivamente ostile’ perché le ha persino imposto incontri protetti con il figlio di due anni alla presenza di due persone che la controllano a vista”.

 Dobbiamo poi mettere l’accento sul ruolo della consulenza tecnica e sul suo peso nella decisione del giudice civile. La consulenza tecnica diviene cioè strumento operativo di una sostanziale inversione nella mission di tutela del tribunale, sancito dalle norme nazionali e internazionali, nei confronti delle vittime di violenza domestica e di genere. 

E’ infatti attribuita alla consulenza tecnica un’interpretazione erronea della sopraffazione:

  una continuativa forma di sopraffazione erroneamente qualificata come “tensione tra i genitori” che si è tradotta nella sola incapacità della madre “di assicurare una partecipazione stabilmente collaborativa e appropriata alla gestione del figlio”, nonostante il padre si fosse reso responsabile di comportamenti violenti verso la compagna e di sottrazione del proprio figlio”.

In questo caso leggiamo che la c.t.u. concludeva che:

 nel prevalente interesse del minore l’affidamento di questi doveva essere dato in via esclusiva al padre in quanto la madre ha manifestato scarsa aderenza al piano di realtà, ha lanciato accuse infondate poi ritrattate, ha espresso giudizi incongrui, è risultata altalenante nelle sue valutazioni, ha avuto comportamenti contrari alla salvaguardia del figlio, ha dialogato con il bambino proponendo conflitti di lealtà. Con riferimento al padre ha rappresentato come questi non sia esente da criticità, tuttavia sono di natura e rilevanza del tutto diverse rispetto a quelle della madre.  Da dette conclusioni emerge che la CTU non ha in alcun modo esaminato gli atti da cui risultavano fatti di violenza di G nei confronti della D., così violando la Convenzione di Istanbul e gli obblighi da questa derivanti per tutti coloro che entrano in diretto contatto con le vittime di violenza di genere“.

In sintesi il provvedimento del tribunale di Roma ispira la sua analisi al rispetto dei principi contenuti essenzialmente nella Convenzione di Istanbul e nei suoi collegamenti con altre direttive europee, con la legge italiana di recepimento, nonché con sentenze di Cassazione anche a sezioni unite. 

B. La sentenza di Cassazione della sesta sezione penale n.12066/23(3), che affronta temi analoghi, ammonisce sull’utilizzo di pregiudizi nei confronti delle donne che sono alla base della sottovalutazione delle violenze dirette o indirette (patite dai figli) e causa della vittimizzazione secondaria di donne e bambini censurata dagli organismi sovranazionali.  

Si affronta qui il tema delle denunce strumentali e su come la vittimizzazione secondaria operi e sia rappresentata nel procedimento civile. In questo ambito di valutazione la giudice relatrice ammonisce il contesto giudiziario a non penalizzare le donne quando ricorrono alle denunce attribuendo loro la volontà, consapevole o inconsapevole di ostacolare la relazione padre-figlio. Siamo al paradosso: la denuncia, uno strumento minimale garantito alle donne per difendersi dalle violenze (strumento di un diritto a cui le istituzioni richiamano le donne ogni qualvolta si verifica un femminicidio) diventa, nei procedimenti civili, uno strumento di penalizzazione delle donne nella relazione genitoriale.  

Si afferma nella sentenza: 

“Conseguenza di detta gravissima omissione è stato il ribaltamento pregiudiziale, tale definito in quanto privo di qualsiasi dato fattuale a proprio supporto, della prospettiva valutativa rispetto all'unico dato certo, costituito dal terrore del bambino rispetto al proprio padre, attraverso l'attribuzione alla madre di esserne la vera causa, proprio per il tramite della denuncia penale ritenuta strumento utile ad ostacolare il rapporto genitoriale del padre. Il substrato fattuale della vicenda in esame, l'aprioristica e non provata colpevolizzazione di… per ·avere denunciato l'abuso sessuale rivelatole dal figlio, nei termini rappresentati dalla sentenza impugnata, costituisce un caso emblematico di vittimizzazione secondaria con ciò intendendosi le conseguenze pregiudizievoli, ascrivibili alle istituzioni, che la persona che denuncia e costretta ad affrontare a causa del procedimento penale che ha instaurato. "

Proseguendo sul tema della vittimizzazione secondaria, ad opera delle istituzioni che colpevolizzano la donna come genitore, la sentenza, su menzionata, chiamata a giudicare di un ricorso avente ad oggetto le accuse di abuso sessuale su un minore da parte paterna, indica le distorsioni del sistema della giustizia quando le Convenzioni internazionali vengono ignorate o disapplicate:

“La definizione di vittimizzazione secondaria, che va di pari passo con l'affermazione dello statuto della vittima e di una sua più adeguata tutela anche rispetto a soggetti diversi dall'autore del reato, è contenuta nella Raccomandazione CM/Rec(2006)8, del 14 giugno 2006, al par. 1.3. («vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima»), ed è puntualizzata dal quadro normativo sovranazionale incentrato proprio sull'obbligo degli Stati di garantire le vittime di specifici reati, quali quelli di violenza nei confronti delle donne e dei loro figli in contesti familiari, che ledono la loro integrità, fisica e morale, tanto da renderle particolarmente vulnerabili soprattutto nel percorso processuale (Direttiva 2012/29/UE, recepita ed attuata con il d.lgs. n. 212 del 2015, parr. 17 e 18, nonché l'art. 18 della Convenzione di Istanbul, anch'essa ratificata dall'Italia con la I. n. 77 del 2013) e ponendole, per questo, a rischio, persino di fronte alle istituzioni, anche rispetto alla tutela dei loro diritti. Il divieto di vittimizzazione secondaria, contenuto pressoché in tutti gli atti normativi internazionali di tutela delle donne e dei minorenni, costituisce ormai oggetto di una puntuale elaborazione giurisprudenziale interna, in ambito penale (Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016, C., Rv.265893; Sez. 3, n. 3409.1 · del 16/05/2019, P., Rv. 277686) e in ambito civile (Sez. U, n. 35110 del 17/11/2021, Rv. 662942, parr. 5.3.7.4. e 5.3.7.5.) proprio in ragione dell'inevitabile intersecazione dei due ambiti allorché le denunce riguardino le violenze nel contesto familiare e in fase di affidamento dei figli minorenni; sia di interventi delle Corti sovranazionali (da ultimo Corte EDU I.M. e altri contro Italia 10 novembre 2022 in cui lo Stato e stato condannato per violazione dell'art. 13 della Convenzione perché una donna che aveva denunciate il marito per violenza domestica era stata qualificata come «genitore poco collaborativo» e le era stata sospesa la responsabilità genitoriale). Attraverso le menzionate fonti, tutte recepite dal nostro ordinamento interno e dunque vincolanti, all'autorità giudiziaria è richiesto di non sottovalutare o ignorare le violenze denunciate dalle donne e/o dai figli nel contesto familiare, ritenendole false in assenza di elementi di fatto, per evitare che si producano due effetti che rischiano di esporre lo stato alla responsabilità per violazione degli obblighi sovranazionali assunti e sopra indicati: 1) non adottare strumenti di tutela, nei confronti loro e dei loro bambini, così da esporle ulteriormente alle violenze; 2) limitarne la responsabilità genitoriale perché ritenute pregiudizialmente responsabili della paura dei figli rispetto al padre violento”.

Sempre sul contrasto alla vittimizzazione secondaria richiamiamo anche un’altra sentenza di Cassazione, la n. 3978/23(4), in cui si stigmatizza il comportamento giudiziario che vittimizza le donne e si ricorda come ci sia l’obbligo di non incorrere in tale prassi:

La sentenza (di appello) ha praticato una forma di vittimizzazione secondaria nei confronti della persona offesa, vietata dall'art. 18 della Convenzione di Istanbul nei termini indicati sia dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, civili, n. 35110 del 17/11/2021, Rv. 662942, parr. 5.3.7.4. e 5.3.7.5. e Sez. 6, n. 12066 del 24/11/2022, dep. 2023, T., non mass.) che dalle Corti sovranazionali (Corte EDU J.L. contra Italia 27 maggio 2021, parr. 140 e ss. in cui si ammonisce l'Autorità giudiziaria italiana dall'utilizzo di motivazioni che «espongano le donne alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che potrebbero scoraggiare la fiducia della vittima nella giustizia» e pronuncia del Comitato CEDAW, F.C. contro Italia, n. 148 del 20 giugno 2022)”.

Proseguendo nella valutazione della tutela dei diritti delle vittime nel contesto giudiziario, contro le varie misinterpretazioni giuridiche e anche psicologiche, ci troviamo di fronte a un’altra sentenza di Cassazione che, oltre a ribadire la critica alle denunce strumentali, fa chiarezza su un ricorso di un autore di violenza che incolpa il tribunale di secondo grado di aver operato in base a un’ideologia ovvero in base a pregiudizi ‘rovesciati’ favorevoli alle donne.  

C. Nella successiva sentenza di Cassazione della sesta penale n. 14247/23(5), si torna in modo preciso sulle denunce strumentali attribuite alle donne se sono in separazione. L’ accusa di denuncia strumentale costituisce uno dei pregiudizi maggiormente presente nei nostri tribunali civili e serve a togliere credibilità alla persona offesa; se una donna si separa e denuncia contestualmente il partner per violenza domestica (motivando in questo modo la sua decisione a separarsi) non è credibile, nonostante vi siano dati internazionali che attestano che la violenza sopravvive nel 50% dei casi anche dopo la separazione ed ha come strumento principale il contenzioso sui figli per affermarne un possesso di tipo patriarcale(6). Secondo questo filone di pensiero quindi la donna deve denunciare un partner ma non chiedere la separazione, che è invece la logica conseguenza per sottrarsi a un comportamento di maltrattamenti giunto evidentemente in una fase non più tollerabile e soprattutto rischiosa per sé e i figli minori. 

La sentenza su questo punto afferma in modo chiaro: 

“Le vicende processuali del civile con la separazione in atto, richiamate dal ricorrente, non hanno nulla a che vedere con la determinazione delle condotte maltrattanti verso la donna e il figlio minore…Infine, il ricorso concentra la propria intera attenzione, così come la consulenza tecnica in esso inglobata, sulle condotte assunte successivamente o contestualmente ai fatti da M, persino con un inconferente richiamo alle cd "false accuse" delle donne che denunciano violenza con un chiaro «intento manipolatorio del sistema legale, causando spesso errori giudiziari ma soprattutto gravi conseguenze per le persone ingiustamente accusate». Ancora una volta si tratta di apodittiche e generalizzate asserzioni, volte esclusivamente a colpevolizzare la vittima, spostando del tutto l'attenzione e l'analisi da quello che è l'unico oggetto del procedimento penale ovverosia l'accertamento della condotta maltrattante dell'autore”.

Insieme al tema delle false accuse la sentenza mette al centro un tema addirittura nuovo nelle doglianze maschili e cioè il ricorrente lamenta che si sia seguita  "l'ideologia dominante (ideologia gender-based) secondo cui la violenza sia soltanto prerogativa maschile mentre la violenza femminile all'interno della coppia è spesso uguale se non superiore a quella agita dai partner di sesso maschile”. 

In ordine quindi a questa censura secondo la quale il provvedimento impugnato sarebbe basato sull' «ideologia gender-based della violenza tra partner» e sul ‘pregiudizio rovesciato’ che l'aggressività sia sempre dell'uomo nei confronti della donna, la sentenza fa chiarezza richiamando  le fonti normative che disciplinano la materia: 

“Il Preambolo della Convenzione di Istanbul, a cui si è conformata non solo la normativa interna in materia di violenza contro le donne, ma soprattutto la giurisprudenza, anche a Sezioni unite, di questa Corte (a partire da Sez. U., n. 10959 del 29/01/2016, P.O., Rv. 265894), qualifica la violenza contro le donne come «una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione»; poi ne richiama «la natura strutturale», riconoscendola come «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Attraverso il Preambolo, che delinea la radice teorica su cui si fonda l'intera Convenzione - ad oggi unico strumento normativo completo che disciplina la materia in esame -, il giudice è chiamato ad assumere, rispetto a queste fattispecie delittuose, la prospettiva di genere come metodo interpretativo riconoscendo che i reati di "violenza di genere", o per ragioni di genere, sono cosi definiti dallo stesso legislatore, oltre che da tutte le fonti sovranazionali, perché colpiscono quasi esclusivamente le donne e le bambine, proprio per essere tali, e sono commessi dagli uomini per affermare dominazione e controllo. Questo avviene quando l'appartenenza "di genere", intesa come costruzione culturale che assegna determinati attributi sociali alle persone in funzione del loro sesso biologico ex art. 3 lett. c) della Convenzione di Istanbul, vista dal lato sia attivo che passivo, costituisce la ragione stessa del fatto-reato cosicché prescinderne, da parte dell'interprete, non ne consente il corretto inquadramento. Quando la violenza si consuma nell'ambito di una coppia costituita da un uomo e da una donna, come nel caso in esame, o nell'ambito familiare (figlio verso madre, fratello verso sorella, padre verso figlia, ecc.) non c’è alcuna "ideologia di genere", come scritto dal ricorso, ma viene adottata la prospettiva di genere nei termini sopra indicati dalle fonti sovranazionali, ovverosia una categoria interpretativa, correttamente e doverosamente adottata dai giudici di merito, volta ad accertare e valutare la violenza: a) per inquadrare i fatti in modo integrale e non parziale, b) per collocare il delitto non come atto isolato mosso da ragioni naturali, biologiche, religiose, economiche o psicologiche, ma come riproduttivo di una quotidiana relazione di dominio di quell'uomo su quella donna proprio per motivi di genere; c) per riflettere la radice strutturale e discriminatoria del rapporto tra i sessi di cui al citato Preambolo della Convenzione di Istanbul. 

Quest’ultima critica, è di particolare importanza perché prefigura, in uno scenario futuro prossimo, la messa in campo cioè di un altro costrutto pseudo scientifico (oltre quello ancora vivo e vegeto dell’alienazione parentale da parte di associazioni forensi sedicenti scientifiche) per fronteggiare le accuse di violenza delle donne e di abusi sui minori. E infatti di recente abbiamo assistito alle accuse di una CTU nei confronti di una CTP di non essere neutrale e terze perché si riferiva alla Convenzione di Istanbul mostrando in questo la sua partigianeria ‘ascientifica’. Il cielo dei pregiudizi si fa ancora più denso di nubi rispetto al quale un raggio di luce viene dalla riforma Cartabia che parla appunto di una prospettiva di genere che deve obbligatoriamente illuminare l’analisi dei giudici che si trovano di fronte a denunce per violenza o a allegazioni di violenza (Dlg. 149/22). 

Parlare di uomini come vittime di violenza domestica al pari delle donne, in un contesto universale in cui la disparità a tutti i livelli tra uomini e donne è fatto conclamato, significherebbe  dare vigore all’obsoleta ma sempre attuale regola, ‘della sua parola contro la mia’(7), dove la parola maschile, in questo contesto strutturale a suo favore, la farebbe sempre da padrone.  

1) I tentativi suicidari in presenza di violenza domestica sono considerati  quali  effetti della violenza dall’Organizzazione mondiale della sanità (Global And Regional Estimates of Violence Against Women: Prevalence and Health Effects of Intimate Partner Violence and Non-Partner Sexual Violence, 2013 Geneva)

2) La Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (CEDAW), adottata dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con la legge n. 132 del 14 marzo 1985; La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, detta anche Convenzione di Istanbul, approvata nel 2011, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013 numero 77, entrata in vigore il 1 agosto 2014 a seguito della 10ª ratifica intervenuta da parte di uno Stato membro del consiglio d’Europa; Il Trattato sull’Unione Europea (articoli 2 e 3 § 3); la Carta dei diritti fondamentali (articolo 21), il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea; La Direttiva 2012/29/UE  del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime riguardanti la protezione delle vittime di reato, recepita con il decreto legislativo 15 dicembre 2015 numero 212

 3) E. Reale, Una sentenza di Cassazione illuminante su: abuso sessuale, archiviazione, calunnia,  vittimizzazione secondaria, Persona e danno del  30.3.23,  Key editore

 4) E. Reale. Maltrattamenti, litigi e conflitti: una nuova sentenza sulla differenza, Persona e danno del 26.9.23,  Key editore 

 5) E. Reale, Violenza di genere versus ideologia di genere. La  Cassazione contro le consulenze  prive di fondamento scientifico, Persona e danno del  2.5. 23 Key editore

 6) APA - Psychological American Association (1996), Violence and the Family: Report of the APA Presidential Task Force on Violence and the Family - Executive Summary, Public Interest Initiatives. Stanley N., et al. (2009), Children and Families Experiencing Domestic Violence: Police and Children’s Social Services Responses, NSPCC (National Society for the Prevention of Cruelty to Children), London.

 7) Di Nicola, P. (2018) La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, HarperCollins Italia.


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