-  Valeria Cianciolo  -  03/04/2016

Quant'è bella 'a morte 'e subito - Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2016, n. 1298 – Valeria Cianciolo

Nella notte tra il 12 e il 13 novembre 2012, William Holmes, 66 anni, uccideva la moglie gravemente malata, Patricia Ann, con una coltellata al torace dopo averle somministrato una forte dose di Lexotan.

Dopo avere ucciso la moglie e averla avvolta in un telo, Holmes l"aveva vegliata per alcuni giorni e poi era andato a costituirsi dichiarando che la donna "voleva morire" perché soffriva da dieci anni di artrite reumatoide.

In primo grado, l"uomo veniva condannato a dieci anni di reclusione con rito abbreviato e gli venivano riconosciute le attenuanti ed è stato assolto dal reato di occultamento di cadavere.

In carcere, poco tempo dopo, manifestò un comportamento patologico, accompagnato da allucinazioni, di cui non si riuscì a pronunciare una diagnosi precisa.

Fenomeno psicotico «nas» fu la conclusione dello specialista, sigla che sta per «non altrimenti specificato».

E se quelle allucinazioni fossero state uno strascico del periodo precedente al delitto?

Il difensore, anche in Cassazione, ha insistito, come già nei precedenti gradi di giudizio, perché si disponesse una perizia finalizzata ad accertare se, al momento del fatto, Holmes fosse in grado di intendere e volere. La Corte Suprema non ha accolto l"istanza.  E neppure ha condiviso la tesi dell"«omicidio del consenziente» dal momento che non vi era in proposito, alcuna dichiarazione scritta della vittima né vi erano testimonianze in tal senso.

Forse, la vittima avrà pronunciato nel tempo frasi volte ad annunciare con enfasi il momentaneo desiderio di morire. Ma forse, erano espressive di deprecazioni non infrequenti nelle persone seriamente malate, dettate da abbattimento, tristezza o scoramento.

In proposito è bene fare alcune precisazioni. Il momento storico lo chiede e parole come "eutanasia", "accanimento terapeutico", "testamento biologico" sono ormai divenute di uso comune, pur nella confusione concettuale che sovente si riscontra su tali aspetti.

Non è pensabile fornire in questa sede una visione esaustiva dei problemi connessi alla tutela della vita nella sua fase finale, ma sembra, comunque, utile fornire una panoramica generale.

Pur nella consapevolezza dell'esistenza di alcune opinioni giurisprudenziali di segno diverso , si può proporre il seguente schema:

a) ogni pratica attiva volta a sopprimere un essere umano, sia pur con il suo consenso, deve ritenersi illecita, in quanto configurabile, quantomeno, quale omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), ove un effettivo consenso del soggetto passivo vi sia (es., sospensione delle cure con il consenso del paziente realizzata tramite condotta attiva). La c.d. eutanasia passiva consensuale è da ritenersi lecita solo in presenza di un dissenso rispetto alle cure consapevole ed attuale del paziente stesso. Non dovrebbero valere a rendere lecita tale forma di eutanasia né il consenso presunto, né  quello prestato dall'eventuale rappresentante legale, dal tutore o dall'amministratore di sostegno, né, tantomeno, fino ad oggi, il c.d. testamento biologico, le cui disposizioni, allo stato attuale, secondo quanto disposto dall'art. 9 della Convenzione di Oviedo, possono solamente essere "prese in considerazione" (il che si dovrebbe tradurre, in concreto, sempre nella scelta in favore della vita, non potendo il medico che decidere in conformità all'obbligo curativo impostogli dall'art. 32 Cost.).

b) Le c.d. cure palliative (eutanasia indiretta) sono lecite se, senza il dissenso del paziente, possa ritenersi rientrante nel dovere curativo del medico somministrarle, a costo di accorciare la vita del paziente stesso. Ciò si verifica quando la terapia del dolore risulta proporzionata all'esigenza di alleviarlo. In caso contrario, si configurerà responsabilità penale.

c) È sempre lecita la sospensione dell'accanimento terapeutico, essendo esso, al contrario, antigiuridico .

Infine. Con il ricorso alla Suprema Corte, l"imputato chiedeva l"applicazione dell"attenuante "per aver agito per motivi di particolare valore sociale" (art. 62, co. 1, c.p.), essendo stato mosso dalla "finalità altruistica di porre fine alle atroci sofferenze della consorte", affetta da almeno dieci anni da una grave forma di artrite reumatoide e bloccata a letto.

Secondo la lettura della Cassazione i motivi di particolare valore sociale "devono corrispondere a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività ed intorno ai quali si realizzi un diffuso consenso". Deve trattarsi "di principi generalmente approvati dalla società, in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire l'antisocialità dell'azione criminale".

Le "discussioni tuttora esistenti sulla condivisibilità dell'eutanasia sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea: non ricorre pertanto la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come di particolare valore morale e sociale".

Quale il problema? Il punto sta che non possiamo sostituirci agli altri perché il dolore non è un"entità sempre dimensionabile con certezza, specie quando il paziente sia in condizioni di gravissima disabilità e non abbia dunque possibilità di espressione.

Quale il pericolo di fondo? Quello di trovare degli alibi di comodo: se non puoi vivere più a lungo, se non puoi consentire agli altri di vivere più a lungo (e se il vivere più a lungo in condizioni dignitose costa troppo) meglio dire che non ne vale la pena in modo che l"impossibilità di proseguire nella lotta per la vita trovi consolazione nell"idea che quella parte di vita — privata di sostegno o semplicemente di raggiungibilità — sarebbe comunque stata troppo penosa. Alla lotta per la vita si sostituisce così la richiesta della qualità della vita. Richiesta più che condivisibile se fosse volta all"espansione del diritto sociale a cure tecnologicamente ed umanamente più elevate, ma miseramente ridotta, nella sua formula più individualista, ad una mera richiesta di riduzione del tempo della "vita fragile" rispetto alla soglia del possibile.

E" una richiesta più che legittima, intendiamoci.

Questa richiesta proviene talvolta da lottatori stanchi — è il caso, notissimo, di Welby — protagonisti di casi-limite che invitano ad una riflessione non semplificata e non racchiusa entro il biodiritto.

Emerge però, un cupo senso comune delle cose che pone, non sempre velatamente, alcuni gravi interrogativi: quanto costa la cura di invalidi gravi? per quanto tempo una famiglia può occuparsi amorevolmente di un suo membro allettato e bisognoso di misure quotidiane di sostegno alla vita? che senso ha la vita quando si diviene dipendenti dall"affetto e dalle cure degli altri tante volte al giorno? che fare se si giunge al momento della vecchiaia o della malattia invalidante in una condizione esistenziale di "single integrale"? è sostenibile, per la società e per la famiglia (oggi composta da pochi congiunti e per di più assai invecchiati) un declino fisico così prolungato e lento nel morire dei propri cari?

E dunque, resta da stabilire in cosa consista il principio di dignità. Missione della quale non è sicura la possibilità di riuscita.

La cancellazione della pena di morte dalla nostra Costituzione e dal codice penale di guerra sembra confermare che non esistono, almeno a livello penale, condizioni di indegnità tali da meritare la sottrazione della vita.

Nel Manifesto di bioetica laica, presentato nel settembre 2007 dalla Consulta Torinese per la laicità delle Istituzioni, si chiedeva "la possibilità di scegliere, per mezzo di strumenti come il testamento biologico, i modi nei quali morire, esercitando il diritto di accettare, di rifiutare o di interrompere le terapie, il diritto di respingere tutti gli interventi medici non voluti…". Si respingevano "le sofferenze inflitte senza bisogno, il prolungamento della mera vita biologica, quando sia venuta meno ogni prospettiva di guarigione o di ritorno alla vita cosciente" e si richiedeva un riconoscimento da parte dello Stato al "diritto all"eutanasia volontaria, cioè alla richiesta che si ponga termine alla propria vita, per evitare forme di esistenza dolorose o ritenute per sé non dignitose."

A dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby il 60% degli italiani è a favore di una legge che regolamenti l'eutanasia, il 4,8% in più rispetto al 2015, secondo Eurispes 2016.

Dopo quattro sedute di dibattito generale sulle Direttive Anticipate di Trattamento (DAT) in Commissione Affari sociali, il 7 marzo 2016 sono iniziate le audizioni degli esperti.

A fronte di un quadro normativo sufficientemente determinato in materia, si teme il rischio che sia una legge a regolare vicende umane che dovrebbero, invece, restare affidate all"autonomia decisionale dei singoli.

Il diritto della persona di esprimere la propria volontà, o per acconsentire o per rifiutare trattamenti di prolungamento di una "vita artificiale", non sono in contrasto con il diritto alla vita, bensì una decisa affermazione del diritto alla vita vissuta con dignità fino all"ultimo istante. Drammatica la scelta che si impone quando decidere se e quando sia lecito sospendere la rianimazione o prolungare di una vita «artificiale» per il necessario contemperamento del "bene vita" della libertà dell"individuo.

Consoliamoci. Non siamo soli in Italia.

Bob Cole, un uomo inglese di 68 anni malato di mesotelioma pleurico, ha deciso di morire nell"agosto dello scorso anno nella clinica svizzera Dignitas. Un suicidio assistito diverso dagli altri, perché un anno e mezzo fa anche la moglie di Bob, Ann, colpita da una patologia neurologica senza speranza di cura, aveva scelto di porre fine alla sua esistenza nello stesso modo, sempre nella struttura zurighese. "Dovrei avere il diritto di morire con dignità nel mio Paese e nel mio letto", ha dichiarato l'uomo al Sun che racconta la storia. "La legge deve cambiare", è l'ultimo desiderio di Bob.

In Inghilterra e Galles chi incoraggia il suicidio assistito o vi presenzia, commette un reato che prevede fino a 14 anni di carcere.

«Quant'è bella 'a morte 'e subito», dice un proverbio napoletano. Se uno ha la fortuna di morire repentinamente, tutte le sofferenze del morire gli sono risparmiate. Ma se morire diventa un processo lungo e tormentato, il morente è espropriato della sua libertà di passare a miglior vita, come meglio crede.

Ma comunque sia, non il diritto di morire anche per mano altrui, ma il diritto di non soffrire è opportuno che trovi adeguato riconoscimento anche con lo strumento delle dichiarazioni anticipate di trattamento.

 

 

 

 

 






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