Quando la Convenzione di Istanbul docet, la bigenitorialità cessat
(Sentenza n. 258/2023, Tribunale di Palmi, pres. Viola, rel. Anna Maria Nesci)
Elvira Reale, Associazione Salute Donna e componente CTS Protocollo Napoli
Il caso riguarda la vicenda di una madre che ha denunciato il partner allontanandosi da casa e cercando riparo in una struttura protetta. La donna denuncia maltrattamenti gravi e come spesso capita anche i tentativi di strangolamento con mani al collo, fatto che presso il Pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli, negli anni dal 2015 al 2023, è capitato nel circa 40% dei casi. Il processo penale è avviato ma lontano dai famosi 3 gradi di giudizio che servono a tanti giudici del civile e ai loro consulenti per poter in qualche modo introdurre i fatti di maltrattamento nelle loro decisioni de potestate. Bene meraviglia delle meraviglie, in questa sentenza, si fa a meno del terzo grado di giudizio e si introducono i fatti di maltrattamento nelle decisioni sull’affidamento e sul ruolo genitoriale paterno, confermando la sua decadenza, per altro anche richiesta dal tribunale per i minorenni. Cosa c’è di nuovo in questa sentenza? C’è di nuovo che non troviamo solo le norme della cassazione a favore del diritto della bigenitorialità come inderogabile o per converso come recessivo, ma troviamo in posizione centrale la tanto misconosciuta Convenzione di Istanbul. E questo veramente costituisce la differenza, dopo anni e anni, tra una sentenza rispettosa delle leggi e delle convenzioni e sentenze superficiali che si affidano a un sapere psicologico raccogliticcio e men che meno scientifico, che sposa questo o quel costrutto, più o meno negazionista della violenza e misogino. Ci piacerebbe raccogliere ambedue i filoni della giurisprudenza in materia suddivisi in ‘buone e cattive’ disposizioni e sicuramente annovereremmo questa sentenza tra le buone disposizioni in materia di affido dei minori.
Immaginiamo la stessa vicenda processuale in altro tribunale o con altri giudici. Avremmo avuto subito invece dell’istruttoria un affido condiviso, un tentativo di mediazione, un affidamento ai servizi sociali, una reprimenda della madre valutata come ostativa, un passaggio obbligato attraverso una consulenza tecnica con quesiti puntati sull’obiettivo del ripristino della bigenitorialità, sulla valutazione dei profili di personalità, del rispetto del criterio dell’accesso e dell’indagine sulla manipolazione della volontà dei figli ecc. ecc. Poi avemmo avuto la trafila di figli rifiutanti e costretti a visite protette e, finale non escluso, un collocamento dei minori in una struttura extrafamiliare adatta a far riflettere, in cattività, i figli sulle proprie colpe per aver aderito ai desiderata materni di tenerli lontano dal padre; infine con la prospettiva di essere affidati nelle mani di ‘bravi e esperti’ psicologi nell’arte della manipolazione mentale dei bambini, con il favore di un regime reclusorio, che favorisce e rende possibile la manipolazione (che per altro non può essere provata in ambito forense stante la pronuncia della Corte Costituzionale sul reato di plagio), così come succede anche ai prigionieri adulti di qualsiasi guerra (vedasi a questo proposito la Chart of Coercion del sociologo Albert Biderman).
Il tribunale di Palmi non si è piegato al copione solito ma ha scritto un’altra storia, di cui vogliamo tracciare qui gli aspetti più significativi e riproporli alla lettura dei professionisti del diritto (giudici, ma anche avvocati, curatori e consulenti); tutti coloro che onestamente devono ammettere che di violenza domestica contro le donne sanno poco (basta riferirsi all’inchiesta della Commissione femminicidio della scorsa legislatura sulla formazione nella realtà giudiziaria) perché non si insegna alle università e perché scarse sono le possibilità di formarsi, mentre elevate sono le probabilità, sia per uomini e sia per donne, di crescere all’ombra di copiosi pregiudizi e stereotipi culturali.
Nonostante infatti che il lavoro della già citata Commissione Femminicidio abbia svolto un’indagine accurata sulla vittimizzazione secondaria ad opera dei tribunali , dando così impulso alla riforma Cartabia (ricordiamo che nel campo civilistico è stato introdotto un capitolo specifico sulla violenza domestica e di genere) si percepiscono nel primo anno di applicazione resistenze diffuse - da parte di ampi settori della magistratura - a tradurre in pratica i nuovi articoli di legge (artt. 473 - bis . 40/46).
Si nota infatti come sia abbastanza diffuso un atteggiamento che intende dare interpretazioni che mitigano la portata trasformativa della riforma, quando ad esempio ci si sofferma su cosa siano le allegazioni, sminuendo il loro valore, e arrivando sempre a concludere secondo il solito rituale che allegazioni di violenza valide (potremmo dire oltre ogni ragionevole dubbio) sono solo le sentenze del penale giunte alla loro conclusione (cassazione), riportandosi nel civile alle regole penali del garantismo che prevede il favor rei rispetto al favor pueri.
La sentenza che presentiamo del tribunale di Palmi getta invece una luce positiva sulla possibilità che la Convenzione di Istanbul abbia fatto breccia nei nostri tribunali così come il maltrattamento assistito e le regole di protezione che, in questi casi, non devono mai separare le madri vittime di violenza dai loro figli, senza propendere e far prevalere il richiamo alla bigenitorialità.
Nella sentenza troviamo prima di tutto una vera istruttoria autonoma dal penale che riporta al centro della discussione i fatti di violenza. Così vengono analizzati nel procedimento civile, come si dovrebbe sempre fare e come è stato indicato con chiarezza dalla riforma (art. 473bis- 44) e prima ancora anche da una nota sentenza di cassazione (Cass. n. 10055, del 27.4.2010) : i referti, la denuncia della donna coerente e dettagliata come raccolta dalle FFOO e con valore di prova giurata, le testimonianze di persone terze raccolte nelle indagini preliminari, con lo stesso valore di prova giurata, l’ascolto dei figli, con i loro esiti, come raccolto presso il tribunale per i minorenni. Il quadro che se ne ricava, al di là del procedimento appena avviato nel penale ma tuttora in corso, è che vi sia quel contesto di elevata probabilità, che il coniuge/padre dei minori, si sia reso responsabile di condotte gravi, che lo rendano giustificatamente inviso ai figli e tali da rendere per se stesse, come afferma la Convenzione, non idonea la sua figura genitoriale. Da qui ripartono le considerazioni sul diritto alla bigenitorialità , diritto del minore e non degli adulti, che diventa recessivo rispetto ad altri diritti che sarebbero messi a rischio dalla frequenza del padre o da un affido condiviso.
Percorriamo in 8 passi il procedimento logico-giuridico che la sentenza ci propone.
“La ricorrente ha sostenuto che la separazione è stata determinata dal comportamento del marito che ha, nel tempo, tenuto condotte aggressive nei suoi confronti anche in presenza dei figli. Ha quindi precisato che la ragione per cui aveva deciso di separarsi dal marito va rintracciata nell’aggressione subita nel gennaio 2019, durante la quale il marito tentava di strangolarla e lei riusciva a liberarsi solo grazie all’intervento del figlio. Precisava che da allora si era trasferita in una struttura di accoglienza assieme ai figli, struttura individuata con l’ausilio dei servizi sociali, e che non aveva fatto più rientro nella casa familiare per timore di aggressioni; che successivamente si era trasferita a vivere in città del nord Italia unitamente ai figli. A riprova delle violenze subite ha fornito copiosi e rilevanti elementi da cui è emersa la fondatezza dell’allegazione relativa all’aggressione del gennaio 2019, oltre che un quadro generale di condotte aggressive realizzate anche in presenza della prole”.
A sostegno del punto di vista della ricorrente il tribunale riporta l’esame delle prove che possiamo riassumere per capitoli:
“È a tal fine significativo il provvedimento assunto dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, con cui è stata dichiarata la decadenza in via d’urgenza del sig. C dalla responsabilità genitoriale: nel corso delle audizioni effettuate in seno a tale procedimento i minori hanno precisato di aver assistito a più condotte violente realizzate dal padre nei confronti della madre; il figlio S. in particolare ha dichiarato che all’uscita da scuola era solito chiamare la madre per sapere se il padre fosse ubriaco mentre la figlia A. ha raccontato di una volta in cui il padre aveva preso le schede del cellulare suo e della madre e le aveva buttate nel fuoco. È quindi emerso che il sig. C. ha mantenuto nel tempo un atteggiamento violento ed aggressivo nei confronti della moglie.
“Risulta poi depositato in atti, in quanto acquisito dal giudice istruttore, il rinvio a giudizio del resistente per maltrattamenti a carico della moglie (procedimento non ancora concluso). Risulta inoltre che il ricorrente è stato condannato per giuda in stato d’ebrezza: ciò conferma la deduzione della ricorrente sull’abuso di sostanze alcoliche”.
“Vi sono poi molteplici riscontri in relazione alla violenza subita dalla ricorrente in data 2019, occasione in cui la parte ha sostenuto di aver subito un tentativo di strangolamento. È in atti, in quanto allegato al fascicolo acquisito già in sede di prima udienza dal Tribunale per i minorenni, il referto reso dalla guardia medica da cui si evince che in data 2019 la ricorrente era stata accompagnata dai Carabinieri presso la Guardia Medica ed il medico aveva riscontrato “segni di escoriazione sulla superficie laterale del collo, a carattere digitiforme”. Tale circostanza lascia dedurre con chiarezza che in data 2019 la donna aveva subito una significativa pressione al collo (tanto da lasciare escoriazioni a carattere digitiforme): circostanza chiaramente compatibile con il dedotto tentativo di strangolamento.
“Che le escoriazioni riportate siano conseguenti alla lite avuta con il marito emerge dalle prove testimoniali: la madre ed il nipote della ricorrente, sentiti come testimoni, hanno infatti confermato che in tale data erano intervenuti a casa della sig.ra L. dopo aver sentito delle grida. La madre della ricorrente, in particolare, ha dichiarato: ricordo di avere assistito ad una violente discussione tra mia figlie ed il C. nel gennaio 2019. Io abito al piano di sotto rispetto a mia figlia. Quella sera avevo sentito i bambini gridare e sono salita a verificare cosa fosse successo. Alla mia presenza mi figlia e mio genero stavano litigando dopo poco il C. si è calmato. Non so perché stessero litigando in quel momento, ma visto che il C. si era calmato sono scesa a casa mia. I minori sono rimasti con loro , dopo poco tempo verso le 21 mia figlia scende a casa mia con dei segni al collo . Si vedevano i segni delle dita. Mia figlia mi riferiva che il marito voleva ammazzarla ed io sono salita subito al piano di sopra chiedendo spiegazioni. C, mi ha risposto con delle parolacce, mi voleva cacciare di casa. A quel punto ha cominciato ad insultare mia mia figlia on epiteti che non voglio ripetere. Ho invitato mia figlia ed i bambini e scendere casa mia e in quel frangente mia figlia, visto che io avevo il telefono, ha chiamato i Carabinieri. Alla mia presenza il C. continuava a minacciare mia figlia con queste parole: << NON TI FACCIO VEDERE IL SOLE DI DOMANI MATTINA BRUTTA TR…..>> ed altre minacce. Durante quella stessa giornata il C. la aveva anche picchiata intorno alle 13 per come riferito dai miei nipoti. Mia figlia in quel momento non mi aveva chiesto aiuto. Quella sera il C. era ubriaco come sempre ed era violento. Devo dire per averlo visto che il C. era violento anche quando era sobrio. A quel punto sono andata a chiamare la madre di C. con il telefono della vicina. La madre ivi giunta ha cercato di negare l’evidenza.
“Il nipote della ricorrente, L. N., intervenuto assieme alla nonna nell’occasione sopra riportata, ha dichiarato: ricordo che la sera di gennaio 2019 ed io ero a casa di
mia nonna e nel mentre stavamo cenando sentiamo bussare i maniera violenta alla porta. Era mia zia che era sconvolta ed aveva dei segni sul collo, che erano evidenti. Lei ci ha raccontato in maniera agitata che il marito la voleva ammazzare. Io e mia nonna siamo saliti sopra a casa loro. Il C. era molto alterato e nervoso ed alla mia presenza ha cercato di aggredire mia zia a quel punto io sono intervenuto per fermarlo.
“ Devo precisare che il C. in mia presenza ha tentato ad andare contro mia zia con le mani ed io subito l’ho bloccato fisicamente. Mia zia ea lì. I bambini erano terrorizzati, il clima era di terrore. Io non ho mai saputo delle situazioni di violenza subite da mia zia, quella volta era a casa di mia nonna ed ho assistito. Al momento dell’aggressione a mia zia i minori erano presenti, quando sono salito i bambini tremavano.
“Le testimonianze rese e sopra riportate sono tra loro concordanti e coerenti con le deduzioni della ricorrente oltre che con il referto medico in atti. A nulla rileva la circostanza per cui i testimoni del resistente abbiano dichiarato di non essere a conoscenza di alcuna lite, posto che ogni singolo testimone indicato dal Sig. C. ha precisato di essersi recato, nel gennaio 2017, a casa del resistente della sig.ra L. a lite conclusa: nessuno dei testimoni ha quindi assistito agli accadimenti riferiti dai testimoni della ricorrente”.
“La gravità dell’aggressione e la vicinanza temporale tra tale aggressione e la decisione di proporre ricorso per separazione rendono evidente la sussistenza del nesso causale tra la condotta allegata e l’addebitabilità della separazione al resistente”.
“La rilevanza dell’aggressione violenta subita dalla ricorrente nel gennaio 2019 ai fini della declaratoria di addebito della separazione è indubbia, dovendosi attribuire rilievo, in quanto contraria ai doveri matrimoniali, ad ogni condotta suscettibile di provocare danni o sofferenze di natura sia psichica che fisica. Devono quindi essere considerati rilevanti ai fini della pronuncia di addebito le condotte rivolte ai danni del partner di:
In questi casi la dedotta contrarietà ai doveri matrimoniali si risolve in realtà in ipotesi di violenza domestica: si risolve quindi in violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo che si verificano all’interno dell’ambito familiare, che è invece l’ambito in cui ogni individuo dovrebbe sentirsi più tutelato. La condotta imputata al partner assume, così, i connotati di una violazione dei diritti umani – libertà, dignità della persona, incolumità fisica e psichica etc. -, violazione rispetto alla quale vengono in rilievo non solo le disposizioni del codice civile già richiamate ma altresì le previsioni di cui agli articoli 2 nonché da 32 a 40 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (nota come Convenzione di Istanbul)”.
….. “Come precisato, la famiglia è la formazione sociale in cui si esplica maggiormente la personalità di ciascun individuo ed in cui ognuno dovrebbe veder garantito il proprio diritto a sentirsi sicuro. La corretta lettura delle allegazioni di violenza domestica è, pertanto, nei procedimenti di famiglia, un passaggio fondamentale ai fini del contrasto efficace di tali tristi e purtroppo ricorrenti fenomeni. La risposta data dalle “autorità preposte all’applicazione della legge” può essere, in ambito civile, tempestiva ed appropriata solo se la violenza domestica – adeguatamente allegata e opportunamente dimostrata in corso di causa – viene, anche nei provvedimenti giudiziari, definita come tale tramite l’esplicito richiamo alle disposizioni sovranazionali di cui alla Convenzione di Istanbul ed alla categoria specifica “violenza domestica”. Ciò è quanto mai necessario al fine di dar seguito a quanto richiesto dagli articoli 29 e 50 (NdR: della Convenzione di Istanbul) nonché al fine di garantire che la violenza perpetrata entro le mura domestiche non venga “degradata” a “mera” condotta contraria ai doveri coniugali, ma venga riconosciuta con una dignità sua propria quale violazione di diritti fondamentali della persona. Detto in altri termini, è attraverso questo lavoro esegetico che tali condotte non verranno più considerate rilevanti solo in quanto violazioni di un dovere discendente dal matrimonio – che come tale è un dovere relazionale tra i due coniugi – ma in quanto violazione di diritti propri di ciascun coniuge, commessa in costanza di matrimonio.
Nel caso che qui occupa il ricorrente ha tenuto condotte riconducibili alle previsioni di cui agli articoli 33 e 35 della Convenzione.
“Per quanto concerne l’affido dei minori. Nulla va disposto in relazione all’affido della prole considerato che il sig. C. è stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale”.
“In relazione agli incontri tra il padre ed i figli minori ed alle deduzioni rese in atti dal resistente, che ha a più riprese richiamato la violazione del suo diritto alla genitorialità da parte del Tribunale, che non avrebbe avviato tentativi effettivi per far recuperare il rapporto tra il padre ed i figli, si osserva quanto segue. Va rimarcato, in primo luogo, che il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha adottato ben due provvedimenti a carico del Sig. C. un provvedimento di sospensione in via d’urgenza ed un provvedimento di decadenza. Non si riscontrano, in atti, allegazioni di parte in merito all’impugnazione di tali provvedimenti Alcun seguito può poi essere dato alla richiesta di audizione dei minori o di avvio di un percorso di recupero del rapporto con il padre: l’audizione è stata effettuata dal Tribunale per i minorenni ed in tale occasione i figli S. ed A. hanno riportato episodi talmente spiacevoli (già richiamati sopra) da far loro dichiarare di non volere avere nulla a che fare con il padre. Del resto il provvedimento assunto dal Tribunale per i Minorenni si fonda anche su tali dichiarazioni. L’adempimento già svolto renderebbe quindi non solo superfluo, ma inutilmente faticoso per i minori, la sua rinnovazione.
“Quanto alla dedotta lesione del diritto alla (bi)genitorialità in capo al padre si richiamano i principi già più volte ribaditi da questo Tribunale in relazione alla necessità di valutare la commissione di condotte violente a danno del partner anche in relazione alle modalità di affidamento della prole.
L’art. 31 della Convenzione di Istanbul – già ratificata dall’Italia, con le conseguenze in punto di interpretazione conforme delle disposizioni nazionali di cui già si è detto nel paragrafo che precede – impone agli Stati aderenti l’adozione di misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione; impone poi l’adozione di misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini.
L’esigenza di uniformarsi ai principi affermati dalla Convenzione di Istanbul è stata poi avvertita dal legislatore nazionale che ha recentemente delegato il governo ad adottare decreti per la realizzazione di un rito uniforme in materia di persone, minorenni e famiglie, stabilendo tra l’altro che, in presenza di allegazioni di violenza domestica, il giudice si pronunci sull’affidamento dei figli e sulle modalità di incontro con il genitore non affidatario considerando eventuali episodi di violenza domestica (cfr. art. 1 n. 23 lett. B legge n. 206/2021 pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 9 dicembre 2021) e garantendo che gli incontri avvengano, se necessario, con l’accompagnamento dei servizi sociali e senza compromettere la sicurezza della vittima.
Le previsioni sin qui richiamate sono state, di conseguenza, recepite dal legislatore che, con la cd. Riforma Cartabia, ha stabilito che ove sia ravvisata la fondatezza delle allegazioni di violenza il giudice adotti i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima ed il minore e disciplini “il diritto di visita individuando modalità idonee a non compromettere la loro sicurezza”. La disposizione (art. 473-bis.46), che chiaramente non trova applicazione nella fattispecie in esame, costituisce ulteriore conferma dell’approccio interpretativo che deve essere assunto a fronte di procedimenti in cui emergano condotte di violenza domestica”.
(precisando che: “Le enunciazioni rese nella citata risoluzione, evidentemente prive di efficacia cogente, costituiscono però direttrice interpretativa in quanto provenienti dall’organo legislativo Europeo. Le stesse, peraltro, sono ritenute pienamente condivisibili da questo Tribunale nella misura in cui impongono di attribuire rilevanza alle condotte violente realizzate da un genitore nei confronti dell’altro, anche attraverso la lente dell’interesse dei minori)
in cui si statuisce che:
a.l'esercizio di qualsiasi diritto di visita o affidamento non devono compromettere i diritti e la sicurezza della vittima o dei minori;
b. la protezione delle donne e dei bambini, e l’interesse superiore del bambino, devono avere la precedenza su altri criteri quando si stabiliscono gli accordi per la custodia dei minori e i diritti di visita;
c. la violenza da parte del partner è chiaramente incompatibile con l'interesse superiore del minore e con l'affidamento e l'assistenza condivisi, a causa delle sue gravi conseguenze per le donne e i minori;
d. la revoca dei diritti di affidamento e di visita del partner violento e l'attribuzione dell'affidamento esclusivo alla madre, se questa è stata vittima di violenza, possono rappresentare l'unico modo per prevenire ulteriori violenze e la vittimizzazione secondaria delle vittime;
e. l'incapacità di affrontare la violenza da parte del partner nelle decisioni relative ai diritti di affidamento e alle visite è una violazione per negligenza dei diritti umani alla vita, a una vita priva di violenza e al sano sviluppo di donne e minori.
I consulenti infatti spesso interpongo i loro strumenti interpretativi alla lettura dei fatti, spesso contribuendo ad una loro alterazione o distorsione anche involontaria. Determinati strumenti psicologici possono essere avulsi dal contesto della realtà quotidiana e dagli accadimenti, andando a decifrare in astratto le capacità genitoriali, colte all’interno di un contesto rarefatto, come quello forense. In questo contesto è facile equivocare atteggiamenti e comportamenti dei bambini: in questo contesto ristretto, il minore sperimenta il rapporto con il padre privato di elementi concreti legati alla quotidianità e in un clima dove la dimensione astorica del gioco rende poco leggibile le dinamiche di sopraffazione e abuso. D’altra parte una volta accertata, come in questo procedimento, con i mezzi propri del civile, le condotte maltrattanti sulla madre, esse comprendono in sé anche l’aspetto inscindibile del maltrattamento assistito. La giudice poi dà chiara lettura, confermata da ampia letteratura internazionale, delle conseguenze del maltrattamento assistito e/o diretto sulla salute dei minori e sul loro destino evolutivo.
“Tanto premesso, ritiene il Tribunale che la realizzazione costante di condotte violente (nelle quattro possibili diverse enucleazioni della violenza sopra riportate) a danno del partner, si pone apertamente ed irrimediabilmente in antitesi rispetto alla capacità del genitore violento di perseguire concretamente l’interesse del minore. La contrarietà al suo interesse può, peraltro, concretizzarsi in più modi diversi dovendosi ritenere assodato che tanto la violenza diretta nei confronti della prole quanto quella assistita (ossia l’esposizione dei minori alla violenza realizzata da un genitore nei confronti dell’altro), trasmettono e fanno introitare alla prole modelli valoriali errati, fondati sulla inferiorità di genere e sulla prevaricazione costante oltre che, ovviamente, sulla violenza; nei casi più gravi determinano conseguenze negative sulla salute mentale e/o fisica della prole, sul suo sviluppo fisico, emotivo e sociale, oltre che sul successivo comportamento come adulto. L’esposizione alla violenza in età infantile, sia nei casi di violenza diretta che in quelli di violenza assistita, costituisce peraltro fattore di rischio in relazione alla vulnerabilità ai maltrattamenti, alla commissione di violenze da adulti ed allo sviluppo di problemi comportamentali o di salute fisica o mentale. A ciò occorre aggiungere che la costante esposizione a condotte violente/maltrattanti rischia di rendere anche la prole destinataria di comportamenti violenti e/o maltrattanti in via diretta. Tutte queste dinamiche sono evidentemente contrarie all’interesse della prole”.
“La gravità insita nella realizzazione di condotte violente ai danni del partner e gli elevati rischi che tali condotte determinano sul sereno sviluppo del minore, considerati unitamente al rischio di reiterazione di condotte violente a danno del partner (rischio intrinseco a fronte di comportamenti ripetuti per un notevole lasso di tempo) o di perpetrazione a danno della prole, impongono quindi di ritenere prevalente il diritto alla incolumità psichica e fisica della vittima e della prole rispetto al diritto alla bigenitorialità, da intendersi in prima battuta quale diritto del minore ad avere un rapporto costante ed equilibrato con entrambi i genitori.”
“Senza dilungarsi oltremodo nella presente sede sulle diverse sfumature del diritto alla bigenitorialità, ritiene il Tribunale di dover rammentare che anche la Corte Costituzionale, da ultimo con sentenza del 9 marzo 2021 n. 33 ed ancora prima con la sentenza 102/2020, ha ribadito che nei procedimenti che coinvolgono minori le decisioni devono essere assunte sotto la lente della necessaria tutela del best interest del minore e che, proprio in quest’ottica, quello alla bigenitorialità è un diritto proprio del minore prima ancora che di ciascun genitore. Ciò posto, nel caso di specie i figli hanno già espresso chiaramente la volontà di non incontrare il padre: la loro volontà deve essere tenute in considerazione in ragione del vissuto avuto con il padre e dei traumi a cui egli li ha esposti aggredendo la madre in loro presenza. A ciò si aggiunga che i minori risultano trasferiti al nord Italia con la madre, che si è rifiutata di fare rientro in Calabria per paura per la sua incolumità: la distanza fisica rende quindi impraticabile la programmazione di incontri protetti”.
Si precisa così in questo ultimo paragrafo il percorso del ragionamento della giudice che mette in luce come questo diritto sia prima dei figli e non certo dei genitori ai quali è invece dedicato l’art. 30 della Costituzione che antepone per loro al ‘diritto’ alla genitorialità il ‘dovere’ di cura verso il figlio. Per i figli invece il diritto alla bigenitorialità (a mantenere cioè relazioni con tutte e due i genitori, sempre nel caso che vi siano i due genitori) è un diritto pieno, ma in quanto tale non è un dovere per cui non possiamo affermare che il minore vada obbligato contro la sua volontà ad esercitarlo, tanto più che la cassazione si è più volte pronunciata sul fatto che gli affetti (ovviamente oggetto materia di questo diritto relazionale) non sono coercibili (Cass. 20107 /16; Cass. 20107 /16; Cass. n.11170/19).
Ultimo tassello importante di questo percorso giuridico è sapere quale chance viene data al padre nel suo futuro relazionale con i figli, se allo stato presente è esclusa giustamente ogni ipotesi di riconnessione. Al padre viene data la possibilità, mai indicata però come obbligo, di riposizionarsi nella relazione con i figli, ricercando l’aiuto necessario per rendersi consapevole, assumendosene la responsabilità, del fatto che oggi i figli lo rifiutano, e per modificare aspetti relativi ad una cultura prevaricante e abusante che fino ad oggi gli ha impedito relazioni improntate al rispetto dei diritti.
“A tutela della prole e nel rispetto della volontà espressa dai minori (e cristallizzata nei verbali acquisiti dal procedimento definito innanzi al Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria) nulla va disposto in relazione agli incontri, quanto meno fin tanto che il resistente non avrà effettuato il percorso di sostegno psicologico che gli consenta di superare le difficoltà comportamentali nella relazione con i membri del suo nucleo familiare ed acquisire nuova consapevolezza nelle relazioni familiari.“
In allegato l'articolo integrale con note.
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