La sentenza della prima sezione del Tribunale di Modena del 9 novembre 2022, in commento, affronta una questione importante e delicata, e precisamente quella della validità dei matrimoni contratti all’estero, in assenza di consenso della nubenda; pratica, purtroppo, diffusissima in moltissime parti del mondo. Nel caso di specie, una cittadina italiana, originaria dell’India, chiedeva l’annullamento del proprio matrimonio, avvenuto nel paese asiatico, al Tribunale di Modena, evidenziando di essere stata costretta a sposarsi, sotto minaccia dei propri familiari. La ricorrente precisava, inoltre, nell’atto introduttivo del giudizio, di non aver mai avuto rapporti sessuali con il marito, cittadino indiano e di non aver mai coabitato con lui successivamente al matrimonio, resistendo a diversi tentativi, da parte di quest’ultimo, di violenza sessuale nei suoi confronti. Il Tribunale di Modena, in forza di quanto emerso e provato dalla ragazza in corso di giudizio, nel quale il marito rimaneva contumace, nel ritenere sussistenti i presupposti di cui all’art. 122, comma 1, c.c. accoglieva la domanda della ricorrente, dichiarando nullo il matrimonio. I giudici emiliani decidevano il ricorso, sotto il profilo giurisdizionale, ai sensi dell’articolo 32 della legge 218/1995 la quale, in combinato disposto con l’articolo 115 c.c., prevede che il matrimonio celebrato all’estero, tra cittadini italiani e cittadini stranieri, possa essere ritenuto valido qualora rispetti i medesimi presupposti e requisiti che sarebbero previsti per la validità del matrimonio, secondo l’ordinamento italiano e, quindi, quello del consenso libero dei nubendi. Questione diversa è, invece, quella della pubblicità del matrimonio contratto all’estero, mediante trascrizione dello steso nei registri dello stato civile in quanto, quest’ultimo adempimento ha natura meramente certificativa, e non costitutiva, con la conseguenza della sua impugnabilità, qualora celebrato in assenza dei presupposti dell’articolo 115 c.c, ma non della sua nullità ab origine. Peraltro, nel caso di specie, il Tribunale, correttamente, accoglieva la domanda della ricorrente ritenendo provato che il matrimonio fosse stato celebrato a seguito di violenza, determinata da timore di eccezionale gravità, considerate le minacce ricevute dalla nubenda dai familiari (documentate, tra l’altro, con video e audio telefonici), al fine di costringerla ad accettare, coattivamente le nozze combinate, come avviene ancora, purtroppo, in India, ma anche in molti altri paesi, soprattutto di cultura islamica,con conseguente nullità del vincolo matrimoniale, ex articolo 122 c.c, applicabile, come sopra precisato, a casi quali quello di specie, ai sensi della legge nazionale di diritto internazionale privato. Le circostanze della mancata consumazione del matrimonio e della coabitazione, correttamente allegate dalla ricorrente, rilevano, invece, in relazione al fatto che in forza del principio del favor matrimonii, qualora vi sia stata coabitazione per un anno, successivamente al cessare della violenza, non è più possibile agire per l’annullamento delle nozze, per ragioni legate alla necessità di certezza del diritto. La sentenza in commento, ad avviso dello scrivente, è importante, oltre che condivisibile, laddove applica, concretamente, i principi di diritto nazionali e sovranazionali in materia di prevenzione contrasto alla violenza contro le donne e la violenza domestica, di cui alla Convenzione del Consiglio d’Europa 11 maggio 2011 (meglio nota come “Convenzione di Istanbul) che, all’articolo 32, impone agli Stati aderenti di adottare gli strumenti legislativi adeguati a garantire la possibilità di annullamento dei matrimoni forzati; il successivo art. 37 obbliga, invece, i contraenti, ad adottare gli strumenti idonei a punire la relativa condotta costrittiva. Il nostro Paese, conformemente a tale linea direttiva, ha introdotto all’interno del codice penale, l’articolo 558- bis c.p., rubricato “Costrizione o induzione al matrimonio”, che punisce chiunque, con violenza o minaccia, “costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile”; e di chi, “approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile”. Inoltre, ai sensi del quinto comma della norma suddetta, il principio di territorialità del diritto penale interno è derogato dalla previsione secondo la quale le disposizioni sanzionatorie dei matrimoni forzati trovino applicazione quando il fatto sia commesso all’estero da o nei confronti di un cittadino italiano. La sentenza in commento, oltre che interessante sotto il profilo giuridico, attrae l’attenzione su un tema importante quale è quello della duplice violenza subita dalla ricorrente, come molte altre donne in molte parti del mondo consistita nelle minacce subite a fini di costrizione al matrimonio, contro la sua volontà e, successivamente, nei tentativi di costrizione a rapporti sessuali da parte del marito, poi tornato in India.
Il tema dei matrimoni forzati, che spesso coinvolge ragazze adolescenti o, peggio ancora, bambine, è stato ed è oggetto di attenzione non solo giuridica, ma anche giornalistica, e diversi sono gli episodi segnalati da associazioni, che in diverse zone d’Italia, e in Emilia Romagna in particolare, aiutano bambine e ragazze straniere a fuggire da contesti di violenza e degrado familiare, che possono sfociare, come nel caso di Saman, in vere e proprie esecuzioni pianificate in famiglia, a seguito della ribellione di queste giovani a costumi e usanze lesivi della dignità della persona e del genere femminile.
A tal proposito, e a conclusione id questa breve nota, vorrei riportare le parole di una di queste giovani, che, come la ricorrente della sentenza in commento, hanno trovato il coraggio di ribellarsi e/o e di fuggire dai contesti suddetti; queste parole di speranza e di fiducia nel futuro sono riportate nel libro “Libere”, della giornalista Martina Castigliani: “Vedere la fine di Saman mi ha fatto stare male, ho pensato che avrei potuto essere al suo posto. Ecco perché ho accettato di raccontare quello che è successo a me. Lo faccio per le altre, Perchè devono sapere che c’è un’alternativa”.
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