Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo,
Elvira Reale, Ester Ricciardelli – Centro studi e ricerche ‘Protocollo Napoli’
La vicenda del piccolo Mattia (nome di fantasia), prelevato il 1 dicembre 2023 dalla propria casa per essere trasferito in comunità, non ha né vinti né vincitori, da un punto di vista processuale, perché la Corte d’appello, dopo aver sospeso il provvedimento del Tribunale civile, ha rigettato il reclamo come non ammissibile, senza entrare nel giudizio di merito della vicenda. Nei giorni in cui la Corte d’appello ha concesso la sospensiva del decreto che prevedeva il prelievo (poi avvenuto) abbiamo assistito a un’ondata di critiche attraverso una serie di comunicati affidati ai social e ai media da parte di operatori del diritto - magistrati e avvocati - nei confronti di chi aveva espresso il proprio dissenso dalla decisione del Tribunale civile.
Poi l’epilogo che vede un giorno nero, una sconfitta per lo stato di diritto. In sintesi, senza lo scudo fornito in prima battuta dalla Corte di appello, è stato ripristinato il decreto del tribunale di Napoli sul prelevamento forzoso del bambino con l’ordine di: “rimozione degli ostacoli fissi e mobili che possano impedire la esecuzione del provvedimento”.
La conclusione della vicenda ci dà occasione, ora, di tornare su tre questioni cruciali sollevate.
La prima: la società civile, le associazioni, i singoli cittadini possono liberamente manifestare, come soggetti, il loro pensiero sulle decisioni della magistratura, in ogni momento del processo? Possono accedere a strumenti quali petizioni, appelli, interrogazioni, segnalazioni sugli esiti infausti di taluni provvedimenti sulla salute di un bambino? Noi pensiamo di sì, e lo vediamo fare ogni giorno in più situazioni quando le vittime di violenza (il bambino aveva confidato alla madre di subire abusi dal padre) non trovano la dovuta credibilità nei tribunali (vittimizzazione secondaria) e le loro accuse sono sottovalutate o addirittura danno luogo a provvedimenti punitivi. I cittadini e le loro associazioni avevano e hanno facoltà di esprimere il loro punto di vista - esterno al processo proprio in quanto non ne sono attori e parti - inerente le decisioni operative e pubblicamente note cui il processo è giunto. Il “cittadino comune” ad esempio ha espresso la propria opinione e indignazione, riassunta nelle parole del sindaco di Lacco Ameno di Ischia, che è anche un rappresentante istituzionale e tutore della salute pubblica: “È il giorno più triste da quando sono sindaco ed uno dei più tristi della mia vita in assoluto. Non ho mai visto portar via di peso in questa maniera nemmeno criminali o mafiosi di prim’ordine. Questa è soprattutto una sconfitta dello Stato”.
La seconda questione, su cui si sono espresse le associazioni anti violenza, locali e nazionali per informare l’opinione pubblica, riguarda l’esistenza di convenzioni e diritti dei minori che, nel caso di Ischia, appaiono a molti essere stati disattesi proprio da chi dovrebbe esserne custode. Non parliamo del diritto del minore alla bigenitorialità, anche se ci sarebbe molto da obiettare su una bigenitorialità vista come principio inderogabile. Parliamo di diritti costituzionali garantiti anche per i bambini: tra tutti, il diritto alla salute, quindi a non essere traumatizzato (se non in casi estremi quando è in gioco la loro vita) in seguito a decisione delle stesse istituzioni giudiziarie.
In questo caso, abbiamo assistito a scene non consone a uno stato che difende i diritti dei bambini. Basta ascoltare le grida di Mattia, registrate e pubblicate da un giornalista durante il prelievo presidiato da vigili del fuoco e polizia, che ha comportato l’abbattimento della porta di casa e togliere di forza il bambino dalle braccia della madre, per capire che si è proceduto a provocare in un minore un ingentissimo trauma. La madre di Mattia che si era posta a difesa del figlio che rifiutava di incontrare il padre perché ne aveva denunciato abusi sessuali (archiviati nel penale con una formula che non dà certezze sulla non sussistenza del fatto) è stata considerata non tutelante, ma alienante. Di qui l’emissione di un decreto mettendo anche in conto la sofferenza che il bambino avrebbe sicuramente patito (dal decreto 15.9.23: “reputa il Collegio, che sia preferibile il collocamento in comunità, che arrecherà sofferenza al bambino… ma è l’unica soluzione che dovrebbe scongiurare il gravissimo pregiudizio alla sua condizione psichica, derivante dalla frequentazione unica ed esclusiva della madre”). Quale sarebbe stato questo ‘gravissimo pregiudizio’? Il fatto che Mattia non voleva frequentare il padre? E che se il bambino si ostinava a rifiutare il padre ciò avveniva, a parere dei magistrati, per responsabilità materna.
E ora la terza questione. I giudici per emettere questo provvedimento, che con una giravolta logica attribuisce alla madre la responsabilità del rifiuto del bambino (considerando evidentemente fasulle le dichiarazioni del minore o frutto di manipolazione), hanno utilizzato pur senza nominarla i costrutti di una teoria sconfessata da tutta la comunità scientifica: l’alienazione parentale, ex sindrome di alienazione parentale. Ricordiamo che si sono pronunciati contro l’uso giudiziario di questa teoria/costrutto, sindrome o comportamento che sia, oltre la nostra Cassazione, tra gli altri, il GREVIO (organo di monitoraggio della Convenzione di Istanbul) il Parlamento Europeo, la Commissione ONU sullo Stato delle Donne, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sui diritti Umani, la Commissione sul femminicidio della XVIII legislatura.
Si potrebbe obiettare che non è stato espresso un giudizio di alienazione circa la madre, ma solo la valutazione di una personalità disfunzionale, effettuata da una CTU. Tuttavia la prova certa che si sia trattato di una diagnosi, giudizio, valutazione di alienazione è nel fatto che il trattamento proposto per il bambino e le disposizioni prese discendono in modo inequivocabile da quella teoria.
L’allontanamento forzoso dalla madre e la collocazione in una struttura intermedia in attesa di sviluppi che consentano una diversa ricollocazione del bambino che rifiuta il padre, è parte integrante del trattamento della sindrome di alienazione parentale - una sorta di reset della sfera cognitiva ed emotiva del minore, in seguito all’isolamento dal proprio ambiente di vita - propugnata dal suo inventore, Richard Gardner, e transitata anche in Italia con il nome di REFARE (Reconnecting Family Relationships Program).
In definitiva, la domanda ultima che abbiamo posto e poniamo è questa: il provvedimento può essere considerato adeguato dal punto di vista del diritto del bambino a non essere leso e traumatizzato in base a pregiudizi e stereotipi contenuti in una pseudo teoria messa in piedi negli Stati Uniti a tutela degli abusanti sessuali? Dal nostro punto di vista e dal punto di vista degli organismi nazionali e internazionali citati, certamente no.
Aggiungiamo che sul trattamento , che separa ex abrupto il bambino dal genitore collocatario - in questo caso la madre - procurandogli ingiuste sofferenze e traumi, si sono espresse nel tempo varie Ordinanze di Cassazione Ord. n. 9691/22; Ord. n. 13217/21; Ord. n. 21425/22; e poi: la CEDU, Sentenza del 10 novembre 2022 - Ricorso n. 25426/20 - Causa I.M. e altri c. Italia; e poi ancora la Corte di Appello di Roma, Sezione minorenni del 3.11.20; la Corte di appello di Venezia terza sezione civile, del 12.12.22.
Con questi presupposti e confortato dai tanti giudizi di Cassazione e di Appello nonché della CEDU, Protocollo Napoli ha denunciato la nocività di talune procedure giudiziarie e continua oggi a farlo, senza per questo considerarsi irrispettoso dell’ordinamento giudiziario e del Tribunale di Napoli come istituzione nel suo complesso.
Siamo, pertanto, a fianco delle madri e dei bambini ingiustamente colpiti nei loro diritti, perché gli strumenti usati in sede giudiziaria per asserire l’esistenza di un comportamento materno che orienta e influisce su quello del figlio, non sono asseverati dalla comunità scientifica né dai principi condivisi di uno stato di diritto.
Riteniamo quindi che il bambino debba essere affrancato da un ingiusto ricovero in comunità – all’interno di un trattamento sanitario obbligatorio “strisciante” fuori del nostro ordinamento (legge 833/78) - qualificandosi tale trattamento come antiscientifico, coercitivo, indicato come tale anche da associazioni internazionali (U.S. the leadership Council on Child Abuse & Interpersonal Violence) . Riteniamo giusto che siano ripristinati i suoi diritti : al suo domicilio, ai suoi legami familiari originari, al suo contesto di vita, al riparo dalla grave minaccia alla sua salute psicofisica provocata dalla separazione dalla madre e dall’isolamento in una struttura sconosciuta.
Non possiamo aspettare (fino al terzo grado di giudizio?) che il trauma, ripetuto e aggravato dal tempo - che per questo bambino scorre in isolamento dai suoi familiari, amici, insegnanti e compagni - si cronicizzi e si impedisca così il suo superamento. Né possiamo sorvolare sul fatto che questo processo, ancora in corso nel primo grado ‘provvisorio’, oltre ad infliggere a Mattia un grave danno, penalizza nel contempo il comportamento di una madre che - pur mostrandosi capace di fornire al figlio cure adeguate (nessuno in 8 anni di vita del bambino se n’è lamentato) - sarebbe divenuta incapace di esercitare il suo ruolo (pur non avendo commesso reati, né contro il bambino né contro la società) solo per non aver aderito ad un principio - interpretato come assoluto e non recessivo (cass. 9691/22 e cass. 21425/22) rispetto al benessere del minore - come quello della bigenitorialità forzata.
1. Vedi il precedente articolo: Il caso del bambino di Ischia e il prelievo coattivo. Un chiaro esempio di mala giustizia https://www.personaedanno.it/articolo/il-caso-del-bambino-di-ischia-e-il-prelievo-coattivo-un-chiaro-esempio-di-mala-giustizia
2. REFARE – Reconnecting Family Relationships Program” che si definisce come “un trattamento sanitario di natura psicologica, sviluppato ad hoc per i casi di Alienazione Parentale, che si pone l’obiettivo di riequilibrare la relazione tra genitore rifiutato e figlio, in seguito ad un contenzioso civile di separazione coniugale”.
3. “Specialists in childhood trauma and therapy from the Leadership Council have grave concerns about the ethics of deprogramming treatment described in a recent article published in the Globe and Mail (see: Judge Blocks Sending Teen for Deprogramming Treatment, Feb 7, 2009). This so-called “therapy” is reminiscent of the kind of brainwashing techniques used in prison camps where deprivation and isolation are used to coerce false confessions and to force ideological changes in captives. While these techniques can produce changes in belief and in behavior, we are concerned that these techniques are harmful to the mental health of children
https://leadershipcouncil.org/experts-warn-about-dangers-of-deprogramming-treatment/
Allegati