Elvira Reale, Associazione Salute Donna, consulente Commissione Femminicidio XVIII legislatura
Abbiamo dato ampia visibilità alla svolta della CEDU(1) che nel 2022 ha condannato l’Italia con ben quattro sentenze per non aver dato rilevanza alle vicende di violenza domestica e ai rischi conseguenti per le donne, compresivi dei rischi per i loro figli, costretti a frequentare e a essere messi a confronto con un padre violento. Ora andando a ritroso mettiamo l’accento su due sentenze coeve di segno opposto che si riferiscono al 2021. In queste due sentenze non viene dato alcun rilievo alla violenza pregressa e si condanna l’Italia per i comportamenti opposti, a quelli rilevati nel 2022, e cioè per non avere difeso il diritto di visita paterno rispetto al diritto di tutela delle vittime e del minore.
Cercheremo di capire come siano possibili questi due comportamenti diametralmente opposti che hanno comunque un incipit diverso: i ricorsi del 2022 sono stati azionati tutti dalle vittime di violenza, i ricorsi del 2021 sono stati invece azionati dai presunti partner violenti o abusanti.
Alla radice del problema vi sono sicuramente sia l’atteggiamento ondivago e contraddittorio della CEDU sia quello ondivago e contraddittorio del tribunale italiano.
L’atteggiamento ondivago della CEDU lo troviamo nella contraddizione tra enunciazione dei principi e disapplicazione degli stessi al caso concreto; l’atteggiamento ondivago e contraddittorio dei tribunali italiani lo troviamo nella disposizione di procedure di riavvicinamento padre-figlio che si interrompono quando a un certo punto, per una tardiva presa di coscienza, si decide di non infliggere un trauma al bambino (proposto da cattivi consulenti) solo per affermare il principio della bigenitorialità. Ma questa presa di coscienza non si radica però nella violenza domestica e nel rispetto della convenzione di Istanbul, che metterebbe il tribunale ed il governo italiano al riparo dalle censure e condanne della CEDU. E così alla fine una buona pratica, ma tardiva, del tribunale italiano che non arriva, pur tra molte contraddizioni, a separare il figlio della madre, viene sanzionata.
Ambedue le sentenze ci rinviano a queste due aporie e contraddizioni dei comportamenti procedurali. Dall’analisi di queste sentenze contraddittorie possiamo giungere a delineare anche i comportamenti procedurali alternativi, oggi in linea con il Dlg 149/22 artt. 473 bis-40/45.
Prima di procedere però nell’analisi delle due sentenze, che mettono a confronto le affermazioni dei ricorrenti contrapposti alla difesa del governo italiano, dobbiamo focalizzare l’attenzione su una cattiva prassi diffusa nei nostri tribunali civili che dovrebbe modificarsi con l’avvento appunto della riforma Cartabia. Si tratta del mancato spazio dato ad un’autonoma istruttoria con accertamento tipico del processo civile nell’ambito dell’affido dei minori. L’accertamento in questi casi non è tanto caratterizzato dal favor rei, come nel penale, quanto dal favor pueri, là dove i comportamenti genitoriali, anche se non sanzionati nel penale (dove vige la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio) possono avere un impatto negativo sulla salute e/o sulla sicurezza del minore e costituire così un grave pregiudizio sulla strada del suo sviluppo. Sappiamo che l’Italia è stata ammonita nel 2020 dal Consiglio d’Europa per le eccessive sentenze di non luogo a procedere nelle indagini preliminari riguardanti i casi di violenza domestica; quindi anche su questo versante del penale possiamo dire che un’archiviazione non fa fede dell’insussistenza di comportamenti violenti, utili invece a definire un’inadeguatezza genitoriale; sotto questo aspetto essi possono quindi entrare nel procedimento dell’affido, indipendentemente dall’esito del penale, utilizzando con un occhio diverso (appunto l’occhio che guarda in primis alla tutela del minore) anche gli stessi atti probatori considerati insufficienti nel penale.
Fatta questa osservazione che ci riporta alla necessità che vi sia un’istruttoria precoce e autonoma nell’ambito del procedimento civile e minorile, affidata ai giudici e non ai consulenti che non hanno il potere di accertare, procediamo con l’analisi delle due sentenze
PRIMA CAUSA
La Causa A.T. c. Italia – Prima sezione – sentenza 24 giugno2021 (ricorso n. 40910/19)
“Viola l’art. 8 della Convenzione la mancata adozione da parte delle autorità nazionali di misure (giurisdizionali e amministrative) tempestive ed efficaci, volte a tutelare il principio di bigenitorialità, anche a fronte delle condotte ostruzionistiche poste in essere da un genitore al fine di ostacolare il diritto di visita dell’altro.
“Fatto. Il ricorrente (A.T.) aveva avuto un bambino dalla relazione con L. R. nel 2014.
Costei, tuttavia, due mesi dopo la nascita del bambino si allontanò dal comune residenza dei
genitori. A.T. allora sporse denuncia per sottrazione di minore. Indi chiese e ottenne dal tribunale dei minori di Treviso che fosse stabilito il suo diritto di visita. Nel 2015 sporse una nuova denuncia perché la madre del minore impediva l’esercizio del suo diritto di visita”.
La discussione
Il fatto riassunto dalla Corte racchiude l’esclusivo punto di vista del ricorrente e in esso non si fa ovviamente menzione della denuncia per violenza diretta ed assistita presentata dalla donna all’atto dell’uscita da casa del convivente. Tale circostanza lascia in sospeso il motivo dell’allontanamento della donna con il bambino piccolo, né tanto meno ne viene fatta menzione dal governo, visto appunto che il tribunale con l’archiviazione aveva ritenuto che la questione della violenza non dovesse avere alcun peso nelle decisioni sull’affido.
Ma dal punto di vista della CEDU, messa tra parentesi la questione violenza, rimane inspiegabile come si sia potuto non dare credito alla buona prassi seguita dal tribunale di aver posposto il diritto del padre alla bigenitorialità, all’interesse del minore a mantenere la relazione con la madre evitando traumi ben più gravi. E’ chiaro che la Corte con la sua condanna ha dato ragione al ricorrente sul fatto che il tribunale non si fosse risolto ad applicare un provvedimento coercitivo, e quindi traumatico per il minore, pur di consentire al padre l’accesso al figlio. Esito successivo di questa condanna, cosa che non rientra nella sentenza che commentiamo oggi, è stato un mutamento di comportamento del tribunale per i minorenni di Roma rispetto alla Corte di appello di Venezia (2019). Il tribunale per i minorenni di Roma, intimorito evidentemente dalla sussitenza del ricorso paterno e poi dalla sentenza della CEDU, ha emesso un provvedimento di prelevamento forzoso del minore dalla casa materna, per collocarlo in casa famiglia, separandolo ex-abrupto dalla madre (luglio 2021). Se la donna farà ricorso alla CEDU per l’art. 3, trattamento inumano e degradante, vedremo su questo punto se vi saranno modifiche e ulteriori ‘giravolte’ nel comportamento della CEDU.
La Commissione femminicidio ha censurato con forza i comportamenti dei tribunali italiani che applicano lo strumento coercitivo e perciò stesso traumatico per i minori quando rifiutano un genitore e più frequentemente i padri(2) . L’ Ordinanza di Cassazione (9691/22) considera questa prassi fuori di uno stato di diritto. E anche la CEDU nei suoi principi riportati in sentenza non sembra apprezzare questa prassi, che certo non suggerisce, ma che di fatto sponsorizza condannando l’Italia per non aver disposto ‘misure efficaci’ che sembrerebbero coincidere con l’allontanamento dalla madre ostativa al rapporto padre-figlio.
La CEDU in sentenza, prima di condannare l’Italia, riporta i suoi principi, che sono evidentemente lettera morta e insignificanti esercizi teorici, quelli per i quali uno Stato non è obbligato ad adottare misure che riuniscano un genitore al figlio, né a ricorrere alla coercizione che è limitata prima di tutto dall’interesse superiore del minore.
“La Corte rammenta anche che il fatto che gli sforzi delle autorità siano stati vani non porta automaticamente a concludere che lo Stato si è sottratto agli obblighi positivi ad esso imposti dall’articolo 8 della Convenzione (Nicolò Santilli, sopra citata, § 67). In effetti, l’obbligo per le autorità nazionali di adottare delle misure per riunire il figlio e il genitore con cui non convive non è assoluto, e la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate costituiscono sempre un fattore importante. Anche se le autorità nazionali devono sforzarsi di agevolare una simile collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di queste stesse persone, in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti a quest’ultimo dall’articolo 8 della Convenzione (Voleský c. Repubblica ceca, n. 63267/00, § 118, 29 giugno 2004).
“Per quanto riguarda la vita familiare di un minore, la Corte rammenta che esiste attualmente un ampio consenso – anche nel diritto internazionale – intorno all’idea che in tutte le decisioni che riguardano dei minori il loro interesse superiore debba prevalere (si veda, tra altre, Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 135, CEDU 2010). Essa sottolinea del resto che, nelle cause in cui sono in gioco questioni di affidamento di minori e di restrizioni del diritto di visita, l’interesse del minore deve prevalere su qualsiasi altra considerazione (Strand Lobben e altri c. Norvegia [GC], n. 37283/13, § 204, 10 settembre 2019). È necessaria la massima prudenza prima di ricorrere alla coercizione in una materia così delicata (Mitrova e Savik l’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, n. 42534/09, § 77, 11 febbraio 2016, e Reigado Ramos c. Portogallo, n. 73229/01, § 53, 22 novembre 2005)”.
In tutte e due gli enunciati di principio viene messo in evidenza come l’interesse del minore deve essere anteposto ad altri interessi. Buoni principi ma cattive prassi, contraddizioni inconcepibili in un organismo internazionale di tutela dei diritti umani. In sinesi possiamo dire che la CEDU in questa sentenza ha parlato in modo dissociato: in teoria, in totale adesione a quella che è stata la difesa del governo italiano, in pratica condannandolo pur essendosi questo adeguato ai principi da lei indicati.
SECONDA CAUSA
Causa R.B. e M. c. Italia – Prima Sezione – sentenza 22 aprile 2021 (ricorso n. 41382/19)
Diritto di visita – Situazione di fatto che lede il diritto il diritto di visita del padre, nonostante provvedimenti giudiziali a lui favorevoli - Violazione dell’art. 8 CEDU – Sussiste.
Viola l’art. 8 della CEDU il complessivo comportamento delle autorità italiane che – nonostante provvedimenti giudiziali favorevoli al padre di un minore – finiscano per renderli inefficaci in via di fatto, impedendo il concreto esercizio del diritto di visita.
Fatto. Il caso giudiziario ha a che fare con una vicenda assai tortuosa e complessa, come la stessa
sentenza riconosce
“Il ricorrente e la moglie C.C. si separarono consensualmente nel mese di febbraio 2013. L’accordo di separazione - omologato dal tribunale di Casale Monferrato - stabiliva quale residenza principale del loro bambino M. quello della madre. Al contempo, si prevedeva il diritto di visita e di soggiorno del bambino anche con il padre.
Dopo pochi mesi dalla separazione, la madre C.C. segnalava a un centro specializzato la circostanza che il bambino aveva pronunziato frasi inquietanti sul conto del padre. Ne seguiva l’incarico da parte del procuratore presso il tribunale per i minorenni di Torino al medesimo centro specializzato di visitare il minore e di produrre una perizia.
Il perito psicologo rassegnava le sue conclusioni il 28 luglio 2013: preso atto che il bambino aveva un rifiuto per la figura paterna, raccomandava che i servizi sociali prendessero in carico sia il minore sia i genitori e consentissero la ripresa di rapporti tra il padre e il bambino.
Tuttavia, tali rapporti non riprendevano affatto a motivo che il padre veniva sottoposto a procedimento penale per abusi proprio in danno del bambino. Peraltro, il procedimento penale veniva archiviato nel gennaio 2014.
Nel contempo, il tribunale dei minori di Genova – adìto dalla C.C. per ottenere la rimodulazione del diritto di visita in capo al padre (qui ricorrente) – in realtà non accoglieva tale domanda, limitandosi a ribadire la residenza presso la madre, ad assegnare l’affido al comune di A. e a nominare ancora una volta un perito, affinché questi redigesse una nuova perizia psicologica.
L’esito di tale perizia era che il minore aveva subito la pressione esercitata dalla famiglia materna, affinché la figura paterna fosse esclusa dalla sua vita, mentre la madre aveva svolto con continuità un’azione di convincimento sul minore, circa gli abusi che avrebbe subito da parte del padre.
…..
Quest’ennesima perizia (data luglio 2017) rivelava che la madre si era sempre opposta a ogni normalizzazione dei rapporti tra padre e figlio e che quest’ultimo aveva sostanzialmente rimosso la figura paterna (ciò emergeva anche dai disegni del bambino). Il perito raccomandava allora il collocamento della madre in una struttura psicoterapeutica e – per il caso che i colloqui con il padre non fossero ripresi – il collocamento del bambino presso una famiglia affidataria.
Sulla base di tale perizia, il tribunale prendeva atto del rifiuto della madre di ricoverarsi presso la struttura psicoterapeutica e ordinava lo svolgimento di contatti tra padre e figlio in ambiente neutrale senza la presenza di C.C. (v. n. 26).
Peraltro, l’esito di questi incontri non era proficuo, tanto che era il padre a prendere l’iniziativa giudiziale, domandando le misure idonee a proteggere il minore dall’influenza della madre.
Pertanto, ancora una volta, il tribunale dei minori tornava ad accertare che il rapporto simbiotico tra madre e figlio non poteva dirsi sano e a ordinare il collocamento di entrambi presso una struttura dedicata; per il caso dell’inottemperanza, il tribunale ordinava il collocamento nella struttura psicoterapeutica del solo minore con diritto di visita per il padre.
La madre chiese la sospensione della decisione ma la corte d’appello di Genova rigettò l’istanza. Entrambi i genitori proposero gravame sul merito. E la corte d’appello – nell’aprile 2019 – riformò la pronuncia di primo grado in senso favorevole alla madre. Ristabilì la residenza del minore presso di lei e assegnò al padre un diritto di visita, a patto che il bambino acconsentisse agli incontri. La corte d’appello, inoltre, ordinava la prosecuzione del percorso di recupero psicologico del minore e disponeva che i servizi sociali aiutassero i nonni materni a tenere un atteggiamento neutrale, privo di inclinature sfavorevoli nei confronti del padre.
Una richiesta di revoca e di modifica di tale provvedimento, avanzata dal ricorrente, non ebbe successo. Di qui il ricorso alla Corte EDU per violazione degli articoli 6 e 8 della Convenzione”.
La discussione
Come nel primo caso, anche in questo caso la Corte EDU si comporta in modo difforme dai principi enunciati che abbiamo prima esaminati, confermando aporie, contraddizioni e ondeggiamenti che abbiamo evidenziato nell’analisi della prima sentenza.
Ma in questo caso, diversamente dal primo, è stata esplicitata la violenza e questa volta si è trattato di una denuncia di abuso sessuale con coerente comportamento di rifiuto del minore. Ma anche in questo caso il tribunale ha mostrato un comportamento ondivago prima adeguandosi alle varie perizie che consideravano la madre genitore condizionante e ostativo (e nei fatti avallavano un presunto rischio evolutivo del bambino a non godere del rapporto con un padre, anche se presuntivamente abusante(3£) e poi arrestandosi sulla soglia dell’atto finale, di prelevare il figlio dalla casa materna contro la sua volontà e in modo traumatico.
In questa sentenza in particolare si tratta dell’abuso sessuale che costituisce un problema nel problema della violenza domestica contro le madri mostrando la voragine che si apre con il tema del non riconoscimento di abusi e violenze verso donne e minori. Dai casi di abuso sessuale trattati anche dalla Commissione femminicidio, sappiamo che le archiviazioni sono la norma soprattutto se si tratta di bambini piccoli. Esse in genere sono motivate in due modi: o perché i fatti non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio, o perché i consulenti, quando chiamati a pronunciarsi nel penale, terminano tutti allineandosi alla carta di Noto(4) sull’abuso in cui si dichiara che “i sintomi di disagio che ii minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale”. In questo modo i segni di disagio non vengono correttamente interpretati collegandoli ai riferiti dei minori che sono considerati inattendibili. Il minore quasi sempre infatti è considerato non attendibile, spesso perché si presume (senza possibilità di provarlo) che sia condizionato dalla madre (come anche in questo caso), secondo un costrutto compreso nella teoria ascientifica della PAS di Gardner e sostenuto anche da un’altra teoria ascientifica e misogina come quella della madre malevola di Turkat(5), che agisce con la motivazione unica di danneggiare i padri nel loro rapporto con i figli e tenere i figli legati a sé in un rapporto simbiotico.
Andando oltre e concludendo, il tribunale italiano, sulle orme della riforma Cartabia, avrebbe dovuto non fermarsi o non attendere l’esito nel penale, ma esaminare i fatti, le testimonianze e quant’altro, ascoltare sempre e soprattutto il minore, accantonando una volta per tutte le becere teorie ascientifiche sull’inattendibilità di madri e minori, e provvedere a tutelare il minore accogliendo il suo rifiuto e le motivazioni da lui espresse. Avrebbe dovuto cogliere anche la genuinità di un percorso dichiarativo del minore che inizia, come sempre in questi casi, dopo un periodo di separazione dei genitori, ma solo dopo che per un lasso di tempo la frequenza del rapporto padre-figlio è stata regolare e non ostacolata dalla madre; il rapporto padre-figlio quindi si ferma poi non per volontà materna ma solo per le rivelazioni del minore e per il suo rifiuto nei confronti del padre.
Come succede in molti casi, i giudici non svolgono un’istruttoria in prima persona, ma la delegano a consulenti; ma quando i consulenti (per lo più allineandosi alla teoria del condizionamento materno della PAS di Gardner) propugnano un trattamento traumatico (ovvero l’allontanamento coattivo del bambino dalla madre) può accadere che i giudici facciano tardivamente un passo indietro ritenendo che la proposta di riavvicinamento del minore al padre abbia costi non sopportabili per il minore (si riportano cioè, alla fine di un procedimento, a rivalutare l’interesse superiore del minore). Ma questa revisione del procedimento può giungere tardiva e non comprensibile per la CEDU, come in questi casi.
E’ bene quindi che i tribunali comincino a fare i conti con queste condanne sostanzialmente ’ingiuste’, sapendo tenersi lontano da tecnici che li conducono nelle sabbie mobili di provvedimenti contraddittori. Questi alla fine, come si evidenzia in queste due sentenze dalla difesa adottata dal governo italiano, pur deviando tardivamente da presupposti fasulli inizialmente condivisi (come alienazione, condizionamento contra rifiuto e paura del minore) non riescono a frenare l’onda d’urto dei ricorsi che si poggiano su decreti e sentenze precedenti favorevoli ad una bigenitorialità acritica che non tiene conto dell’ascolto del minore e del suo interesse. Il fermarsi poi sul ciglio di un provvedimento traumatico per il bambino costituisce una scelta tardiva e contraddittoria da parte di chi non ha coltivato i giusti presupposti nei suoi decreti precedenti, portatori invece della parola inadeguata dei consulenti tecnici.
I tribunali italiani se non vogliono essere penalizzati, anche con pene pecuniarie a titolo risarcitorio che accompagnano le sentenze CEDU, devono imparare a dare conto nei loro giudizi delle allegazioni di violenza, qualsiasi siano gli esiti del penale, e imparare a diffidare dei cattivi consulenti.
1. Reale, E. La svolta della CEDU: la bigenitorialità recede di fronte alla violenza domestica. Persona e danno del 22.12.2022, Key editore
2. Commissione d’inchiesta sul femminicidio XVIII legislatura. Relazione "Sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l'affidamento e la responsabilità genitoriale".
https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1349605.pdf
3. La SINPIA- a Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza - si pronunciò nel 2013 contro la sentenza di cassazione 7041/13, e a favore dell’alienazione parentale, dichiarando che l’alienazione costituiva non una sindrome ma un rischio evolutivo del minore. Di tale comunicato vi è traccia ancora sul sito dell’Associazione di Psichiatria, ma non più sul sito e nei documenti della SINPIA, facendo intendere che la stessa società abbia fatto un passo indietro su questa affermazione che resiste però in molte CTU. https://www.psichiatria.it/attualita/articoli-di-interesse/alienazione-parental/
4. articolo 8 della Carta di Noto- Linee guida per l'esame del minore in caso di abuso sessuale, 2002
5. I.D. Turkat, Divorce related Malicious Mother Syndrome, in Journal of Family Violence, 10, 253, 1995
Allegati