1. L’accordo raggiunto. Il 14 dicembre 2023 i negoziatori del Parlamento europeo e del Consiglio europeo hanno raggiunto un accordo sui contenuti di una prossima Direttiva europea, che verrà ad introdurre un obbligo di “due diligence” a carico delle imprese (che superano certi limiti dimensionali, ovvero operano in settori ad alto rischio), volta ad identificare, prevenire, mitigare, e rimediare gli impatti negativi delle loro attività e di quelle di loro società controllate e partners commerciali sui diritti umani e sull’ambiente lungo tutta la catena globale del valore (cosiddetta corporate sustainability due diligence).
Le negoziazioni hanno avuto ad oggetto la proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022, a seguito di formale sollecitazione della commissione affari legali del Parlamento europeo e dello stesso Parlamento europeo.
Più precisamente, il giorno 11 febbraio 2021 era stato pubblicato un rapporto della commissione affari legali del Parlamento europeo, approvato il 27 gennaio 2021 dalla stessa commissione con ventuno voti a favore, un voto contrario ed un voto di astensione, contenente delle raccomandazioni alla Commissione europea di avviare la procedura volta a presentare una proposta di direttiva europea sulla responsabilità delle imprese e sull’obbligo di “due diligence”, secondo una bozza di direttiva allegata al rapporto. Il rapporto è stato successivamente approvato dal Parlamento europeo in seduta plenaria il giorno 10 marzo 2021.
Affinchè la Direttiva possa essere emanata, il testo sul quale i negoziatori del Parlamento europeo e del Consiglio europeo hanno raggiunto l’accordo dovrà, nei prossimi mesi, essere approvato formalmente dal Consiglio europeo sotto la presidenza belga e dalla commissione affari legali del Parlamento europeo e dallo stesso Parlamento.
La direttiva si applicherà alle società europee ed alle loro controllanti con più di 500 dipendenti ed un fatturato mondiale maggiore di centocinquanta milioni di euro. La direttiva si applicherà, altresì, alle società con più di 250 dipendenti e con un fatturato maggiore di quaranta milioni di euro, se almeno venti milioni di euro provengono da settori ad alto rischio quali manifattura e commercio all’ingrosso di articoli tessili, di abbigliamento e calzature; agricoltura, compresi la silvicoltura e la pesca, la lavorazione e produzione di alimenti ed il commercio di materie prime derivanti dall’agricoltura; estrazione e commercio all’ingrosso di risorse minerali o fabbricazione di prodotti correlati; costruzioni. La direttiva si applicherà, altresi, a società non europee ed alle loro controllanti con un fatturato equivalente nell’Unione Europea.
Le società cui si applicherà la direttiva avranno l’obbligo della “due diligence” in relazione agli impatti negativi della loro attività e di quella di società controllate e partners commerciali su diritti umani e ambiente (ad esempio lavoro minorile, forme vecchie e nuove di schiavitù, sfruttamento sul lavoro, inquinamento, disboscamento, eccessivo consumo di acqua, danni all’ecosistema). Peraltro, l’accordo raggiunto non contempla tutto lo spettro dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, in quanto, da un lato, viene omessa la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, e, dall’altro lato, le convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization – ILO) potranno essere aggiunte successivamente dopo che saranno state ratificate da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione Europea.
Le società cui si applicherà la direttiva dovranno integrare l’attività richiesta di “due diligence” nelle loro politiche aziendali e nei loro sistemi di gestione dei rischi, includendo le descrizioni dei loro approcci, processi e codici di condotta adottati. In particolare le società dovranno identificare, valutare, prevenire, mitigare, far cessare e rimediare i loro impatti negativi su diritti umani ed ambiente, e quelli dei loro partners a monte ed a valle della loro catena di valore, produttiva e commerciale, includendo in essa la produzione, la fornitura, il trasporto, il magazzinaggio, il disegno industriale e la distribuzione. A tal fine, le società cui si applicherà la direttiva saranno obbligate ad effettuare i necessari investimenti, a migliorare il loro piano imprenditoriale, e non solo ad ottenere corrispondenti impegni ed assicurazioni contrattuali da parte dei loro partners, ma anche a fornire agli stessi, in particolare se piccole o medie imprese, il necessario supporto.
Le società del settore finanziario sono state temporaneamente escluse dalla maggior parte degli obblighi previsti dalla direttiva, salva la possibile inclusione successiva a seguito di apposita valutazione, e salva sin dall’origine l’applicazione degli obblighi relativi al contenimento del riscaldamento globale. Le aziende soggette alla direttiva, incluse quelle del settore finanziario, avranno, infatti, altresì, l’obbligo di adottare e pubblicare un piano che assicuri che il loro modello imprenditoriale si conformi all’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, e, da un lato, i dirigenti di società con più di 1000 dipendenti riceveranno benefici finanziari per l’attuazione del piano, dall’altro lato, le autorità nazionali eserciteranno il controllo sulle imprese e irrogheranno sanzioni nel caso mancata adozione e/o attuazione del piano di transizione climatica.
E’ previsto che parte integrante del processo di “due diligence” sia il significativo coinvolgimento dei soggetti portatori di interessi e toccati dalle attività delle imprese, e la previsione di un meccanismo di denuncia e reclamo, così come obblighi di comunicazione sulle politiche aziendali di “due diligence” adottate, e procedure obbligatorie di controllo periodico sull’efficacia delle stesse.
Le Autorità nazionali dovranno attivare portali dedicati alle obbligazioni di “due diligence” delle società, in modo da mettere a disposizione informazioni su contenuti e criteri da rispettare, linee guida fornite dalla Commissione europea, ed inoltre informazioni per i portatori di interesse. Ciascuno Stato membro dell’Unione Europea dovrà designare una Autorità nazionale di supervisione e controllo che dovrà verificare l’adempimento da parte delle società alle obbligazioni sulle stesse gravanti. Tali autorità coopereranno, e si scambieranno best practices, a livello europeo nell’ambito della rete delle Autorità nazionali di supervisione e controllo, istituita dalla Commissione europea. Le Autorità nazionali potranno avviare indagini ed ispezioni ed irrogare sanzioni alle società che non adempiranno ai loro obblighi, sanzioni che potranno essere, non solo di carattere reputazionale: “naming and shaming”, ma anche di carattere finanziario, ed in particolare ammende fino al cinque per cento del loro fatturato mondiale, mentre, d’altro canto, il corretto adempimento degli obblighi di “due diligence” potrà integrare uno dei criteri previsti per l’aggiudicazione di contratti pubblici e concessioni.
La direttiva si prefigge l’obiettivo di incidere anche sui rapporti di diritto privato in quanto è previsto che le vittime delle violazioni di diritti umani ed ambiente avranno il diritto di essere risarcite da parte delle società che si siano rese inadempienti agli obblighi di “due diligence” sulle stesse gravanti.
2. Il difficile, a volte drammatico, rapporto tra business e human rights. Questo ultimo aspetto è di particolare interesse ed ha già stimolato in chi scrive la pubblicazione di un volume nel 2021, nella convinzione che gli istituti tradizionali di diritto privato dei vari ordinamenti avessero, in loro stessi, margini di elasticità e flessiblità sufficienti per dare, senza pregiudizio alla coerenza del sistema di appartenenza, risposte soddisfacenti alle esigenza di tutela emerse, ed anche in considerazione del fatto che la stessa strumentazione europea, allora in corso di elaborazione ed ancora oggi in attesa della definitiva formulazione sul punto, avrebbe poi dovuto trovare adeguata attuazione a livello nazionale. Non è questa la sede per riprendere e riproporre ed eventualmente sottoporre a verifica le riflessioni ed argomentazioni consegnate in quel volume, anche perchè non è ancora noto il testo finale dell’emananda direttiva, ed in particolare la formulazione definitiva della previsione sulla responsabilità di diritto privato delle imprese. Sembra però opportuno, anche in vista di futuri approfondimenti in seguito alla formale adozione della direttiva, svolgere alcune prime considerazioni di inquadramento generale su quello che appare uno snodo fondamentale, sicuramente destinato ad avere un ruolo assai rilevante sulla evoluzione del sistema di responsabilità civile delle imprese.
Prendendo le mosse dalla dichiarazione rilasciata dalla relatrice per il Parlamento europeo Lara Wolters, secondo cui “This law is a historic breakthrough. Companies are now responsible for potential abuses in their value chain, ten years after the Rana Plaza tragedy. Let this deal be a tribute to the victims of that disaster, and a starting point for shaping the economy of the future – one that puts the well-being of people and the planet before profits and short-termism. It ensures honest businesses do not have to participate in the race against cowboy companies”, l’accordo raggiunto segna un punto di svolta in cui si prende formalmente atto della necessità di fare carico alle imprese della responsabilità per abusi e violazioni di diritti umani ed ambiente lungo la loro catena di valore, sia in via preventiva (potential abuses), sia in via successiva, riconoscendo alle vittime (to the victims) strumenti azionabili per far valere tale responsabilità.
3. Fatti emblematici. Sembra, altresì, opportuno raccogliere l’invito della relatrice Lara Wolters a richiamare i fatti drammaticamente emblematici della tragedia di Rana Plaza, occorsi dieci anni or sono, su cui (e sulle relative questioni giuridiche) si rimanda per un esame completo ed approfondito al volume sopra citato. Il 24 aprile 2013, a Dhaka (Bangladesh), un fabbricato – Rana Plaza – di otto piani, ospitante negozi, uffici e fabbriche, crollò, causando la morte di più di 1.100 operai e ferendone più di 2.500. Rana Plaza era stato costruito nel 2006 su di una ex area di acqua stagnante senza adeguate approvazioni ed all’inizio constava di soli sei piani occupati unicamente da negozi ed uffici e non da fabbriche industriali: la sua struttura non era infatti sufficientemente robusta da sopportare il peso di macchine induatriali. Successivamente, però, furono sopraelevati altri due piani proprio al fine di ospitare, attraverso contratti di affitto ed in contrasto con i permessi di zona, le attività di produzione di cinque compagnie tessili locali, di cui la più estesa ed importante era New Wave Style, la cui produzione era destinata per metà, attraverso l’intermediazione dell’esportatore indiano Pearl Global, alla linea di abbigliamento Joe Fresh di Loblaws, uno dei più grandi magazzini al dettaglio canadesi. Si sarebbe in effetti potuto evitare il disastro in quanto il giorno prima, e precisamente il 23 aprile 2013, furono individuate delle crepe nella struttura del fabbricato ed il sito fu evacuato al fine di consentire le opportune ispezioni. Quello stesso pomeriggio però gli amministratori di New Wave avvisarono i dipendenti che l’indomani sarebbero dovuti ritornare al lavoro ed il proprietario del fabbricato diramò un comunicato che l’edificio era stato ispezionato ed era stato ritenuto sicuro. Il giorno successivo, al contrario, l’edificio crollò alle 9 del mattino, a seguito delle vibrazioni dei motori diesel che si erano attivati per far fronte ad un calo di corrente elettrica.
Tra gli altri casi emblematici del difficile, a volte drammatico, rapporto tra attività imprenditoriali e diritti unani si può senz’altro richiamare quanto accaduto in Pakistan qualche mese prima. Il giorno 11 settembre 2012, una fabbrica tessile a Karachi prese fuoco. L’incendio distrusse per intero il piano terra ed il piano ammezzato, quest’ultimo peraltro abusivo sotto il profile urbanistico, e causò la morte di più di 250 operai e gravi ustioni ad altri 32. Secondo un rapporto condotto dal Centro Europeo per i Diritti Umani e Costituzionali (ECCHR), l’alto numero delle vittime fu dovuto all’inadeguatezza delle misure di sicurezza, dal momento che molte finestre erano sbarrate, le uscite di emergenza erano bloccate ed il fabbricato aveva una sola uscita non ostruita, di guisa che molti operai soffocarono o vennero bruciati vivi dalle fiamme che divampavano all’interno, prima di riuscire ad abbandonare l’edificio. La fabbrica che prese fuoco era di proprietà di Ali Enterprises, che era uno dei subfornitori di Kik Textilien und Non-Food GmbH, una compagnia tedesca con sede in Bönen. Al momento dell’incendio almeno il 75 per cento della produzione della fabbrica di Ali Enterprises era destinata a KiK.
Altro caso emblematico che sembra opportuno richiamare è quello dell’inquinamento della zona del delta del fiume Niger in relazione alle attività del gruppo Shell. Royal Dutch Shell (RDS), una delle maggiori compagnie petrolifere e di gas del mondo, con sede legale nel Regno Unito e sede operativa nei Paesi Bassi, cominciò le sue attività petrolifere in Nigeria, nel 1958, nella zona del delta del fiume Niger, una zona tribale, estesa circa 640 Kmq con circa 500.000 abitanti (Ogoniland), attraverso la sua sussidiaria Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC), la quale era l’operatore di una associazione di imprese (joint venture) costituita dalla stessa SPDC, dalla compagnia di stato Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC) e da altre due società private, la Total Exploration and Production Nigeria Ltd e la Nigerian Agip Oil Company Ltd. Il 4 agosto del 2011 fu presentato al Presidente della Nigeria un rapporto del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environmente Programme – UNEP), nel quale si evidenziava che la zona del delta del Niger era stata pesantemente contaminata nel corso delle operazioni estrattive, che ormai duravano da 50 anni, a causa soprattutto di perdite e spargimenti di petrolio dalle condutture, per l’inadeguata manutenzione delle stesse ed estrazioni illegali, che avevano inquinato il suolo e le acque, con effetti pesanti sulla vegetazione, i raccolti, la pesca, ed altamente nocivi sulla salute e la vita stessa della popolazione locale.
4. I Principi Guida delle Nazioni Unite. Le tematiche inerenti al difficile rapporto tra attività imprenditoriali e diritti umani hanno costituito l’oggetto dello studio affidato dal Consiglio (ex Commissione) delle Nazioni Unite sui diritti umani al professore dell’Università di Harvard, John Gerard Ruggie, il quale dal 2005 al 2011 condusse ricerche di carattere scientifico ed altresì una serie di consultazioni in tutto il mondo con tutte le categorie economiche e sociali coinvolte, presentando alla fine del suo mandato (più volte esteso) il risultato del suo lavoro: The Guiding Principles on Business and Human Rights, che venne approvato all’unanimità dal Consiglio delle Nazioni Unite nella seduta del 16 giugno 2011. I Principi Guida delle Nazioni Unite su Business and Human Rights si fondano sulla tricotomia dei tre pilastri: Proteggere, Rispettare, Rimediare, secondo cui: a) gli Stati hanno l’obbligazione di proteggere contro le violazioni dei diritti umani da parte delle compagnie; b) le compagnie hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani, intesa detta responsabilità come aspettativa sociale; c) le vittime delle violazioni di diritti umani hanno il diritto ad un rimedio effettivo ed efficace attraverso meccanismi giudiziali e/o non giudiziali. In particolare il secondo pilastro dei Principi Guida si basa sul concetto di responsabilità inteso non come obbligo giuridico ma come aspettativa sociale. Questo approccio ha sollevato critiche di ambiguità in una parte degli studiosi, i quali hanno talvolta ipotizzato che esso sia dipeso dall’intento di cercare il consenso ed il supporto degli Stati, che invece era mancato ai precedenti tentativi, non andati a buon fine, di emanare il Codice di condotta, prima, e, successivamente, le Norme sulla responsabilità delle compagnie transnazionali e di altre imprese. Va, però, osservato che, probabilmente, il professor Ruggie ha interpretato nel modo corretto il suo mandato, che non era certo quello di predisporre il testo di un trattato internazionale, che avrebbe potuto, anche, costituire nuovi obblighi o rinforzare, con la previsione di (ulteriori) sanzioni e rimedi, quelli esistenti, ma soltanto quello di predisporre una relazione sui rapporti tra imprese e diritti umani, che potesse costituire una base di partenza per successivi sviluppi a livello legislativo, interpretativo e giurisprudenziale. Al di là di qualche imprecisione e mancato approfondimento che possono essere presenti nel testo, l’avere evidenziato, chiaramente, che vi è nel mondo un’aspettativa sociale che le imprese rispettino i diritti umani è sicuramente di grande importanza, forse superiore a quanto potrebbe apparire ad una prima lettura. Tale chiara evidenziazione pone, a ben vedere, il fondamento della norma giuridica: costituisce il fatto dal quale sorge e si sviluppa il diritto, evidenzia un’esigenza che si impone ed a cui il diritto non può restare sordo: è proprio il factum dal quale ius oritur. In questo senso va intesa l’affermazione, contenuta nel commento al principio 12, secondo cui la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani è distinta dalle questioni della responsabilità civile extracontrattuale (legal liability) e della esecuzione forzata, che rimangono definite, in gran parte, dalle previsioni degli ordinamenti giuridici nazionali. Tale affermazione non è affatto rinunciataria o scarsamente ambiziosa, ma soltanto avverte il lettore e lo studioso che i Principi Guida non sono e non possono essere autosufficienti ed esaustivi, ma devono essere intesi come uno stimolo ai legislatori, agli interpreti, ai giudici, affinchè all’aspettativa sociale di responsabilità delle imprese con riguardo al rispetto dei diritti umani corrisponda, sempre di più, un regime giuridico di responsabilità, attraverso lo sviluppo ed il completamento, anche in questo campo, di quell processo che, da sempre, va dal ‘fatto’ al ‘diritto’.
5. I principali modelli legislativi e giuridici disponibili: il modello francese. Ed in effetti alcuni legislatori nazionali e sistemi giuridici non sono rimasti insensibili agli stimoli provenienti dai Principi Guida delle Nazioni Unite. Si possono così qui esaminare, sia pur brevemente, i principali modelli legislativi e giuridici disponibili sulle tematiche oggetto dei Principi Guida, vale a dire il modello francese, il modello inglese ed il modello tedesco.
La Loi No 2017-399 du 27 mars 2017 relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des enterprises donneuses d’ordre, che si applica alle società (e, precisamente, sociétés anonymes, sociétés en commandite par actions, sociétés européennes, e, secondo la maggior parte degli interpreti, anche sociétés par actions simplifiées) con sede in Francia che alla fine di due anni fiscali consecutivi occupano 5.000 impiegati (considerando anche le loro sussidiarie con sede in Francia) o 10.000 (considerando anche le loro sussidiarie con sede all’estero), richiede che dette società adottino ed eseguano un plan de vigilance, da pubblicare annualmente, volto ad identificare e prevenire gli impatti negativi sui diritti umani e l’ambiente, derivanti dalle loro attività o da quelle di società controllate in modo esclusivo anche indirettamente o contrattualmente, o da quelle di loro subcontraenti e fornitori, con i quali sussiste una relazione commerciale stabile. Occorre evidenziare che secondo il diritto francese il concetto di controllo è inteso in senso esclusivo e si riferisce a tutte quelle situazioni in cui una società detiene il potere decisionale sulle politiche operative e finanziarie di un’altra entità e può riferirsi ad un controllo legale, di fatto o contrattuale, sia diretto sia indiretto, esercitato cioè attraverso altre società direttamente controllate. Si è posta inoltre l’attenzione sul concetto di relazione commerciale stabile, che implicherebbe l’esclusione dal campo di applicazione del dovere di vigilanza delle relazioni commerciali occasionali, ciò che non sarebbe perfettamente in linea con i principi 13 (b) e 17 (a) dei Guiding Principles delle Nazioni Unite. Il piano di vigilanza deve includere a) una mappatura dei rischi; b) procedure di valutazione periodica (con regolarità) della situazione delle società sussidiarie e dei subcontraenti e fornitori stabili; c) azioni appropriate di prevenzione e mitigazione; d) meccanismi di allerta; e) procedure di monitoraggio. Chiunque vi abbia interesse, dopo avere messo in mora la società inadempiente agli obblighi previsti dalla legge, può richiedere al Tribunale competente un’ingiunzione di adempimento nei confronti della società con successive e periodiche sanzioni amministrative pecuniarie in caso di continuato inadempimento che possono arrivare fino a dieci milioni di euro. Inoltre le parti interessate possono avviare azioni legali di responsabilità civile nei confronti della società inadempiente, adducendo e provando che l’inadempimento della società alle sue obbligazioni di vigilanza ha causato l’insorgenza di danni che si sarebbero altrimenti potuti evitare, ai sensi dell’articolo L.225-102-5 del code de commerce, per il quale ‘le manquement aux obligations engage la responsabilité de son auteur et l’oblige à réparer le prejudice que l’exécution de ces obligations aurait permis d’éviter’. Si prevede, altresì, che la Corte adita possa disporre la pubblicazione della sentenza di condanna della società al risarcimento dei danni. Mentre, peraltro, la previsione delle sanzioni amministrative sembra ispirata al principio di precauzione, di rango costituzionale in Francia riguardo all’ambiente, la regolamentazione della responsabilità civile rimane basata sui principi tradizionali della responsabilità per colpa e del nesso di causalità, che, nello specifico, richiedono a carico dell’attore due prove non semplici: quella dell’inadempimento al dovere di vigilanza da parte della società e quella del nesso di causalità volto a dimostrare che il corretto adempimento da parte della società alle sue obbligazioni di vigilanza avrebbe impedito l’insorgenza del danno. Rimane, infatti, a carico della vittima di provare, non solo le manquement aux obligations, ma anche il fatto che l’adempimento al dovere di vigilanza aurait permis d’éviter le prejudice. In particolare la prova del nesso di causalità del danno rispetto all’omessa vigilanza della società madre potrebbe presentarsi più o meno complessa, nei casi in cui siano coinvolte nella produzione dell’impatto negativo società sussidiarie o stabili controparti commerciali, a seconda che la corte adita aderisca alla teoria dell’equivalenza dei fattori causativi o a quella della causalità adeguata o più probabile.
L’aspetto sicuramente più positivo della legge francese è che consente di definire chiaramente il livello di controllo societario rilevante quale controllo esclusivo che si riferisce a tutte quelle situazioni in cui una società detiene il potere decisionale sulle politiche operative e finanziarie di un’altra entità e che può riferirsi ad un controllo legale, di fatto o contrattuale, sia diretto sia indiretto, esercitato cioè attraverso altre società direttamente controllate. E’ sicuramente positivo e merita di essere sottolineato il fatto che la legge francese faccia discendere dal controllo esclusivo di una società su di un’altra, che attribuisca alla prima, di diritto o di fatto, il potere decisionale sulle politiche operative e finanziarie della seconda, una potenziale fonte di responsabilità per gli abusi dei diritti umani occorsi nel contesto delle attività della seconda. Occorre, peraltro, evidenziare che l’ambito applicativo della legge riguarda, in effetti, un numero di compagnie di poco superiore a 230, ciò che dovrebbe stimolare, anche sul piano sistematico, interrogativi ed approfondimenti.
6. (segue): il modello inglese. L’esame del modello giuridico inglese deve essere condotto, sia con riguardo agli atti legislativi emanate, sia con riguardo al case law. Sotto il primo profile, occorre fare riferimento alla legge del 2015 sulla moderna schiavitù, The Modern Slavery Act 2015, la quale adotta un modello informativo che richiama lo schema del comply or explain del regime di corporate governance di quel Paese, in cui le Premium Listed companies sono chiamate ad adeguarsi ad un determinato modello organizzativo previsto da ‘The UK Corporate Governance Code’ o a spiegare le ragioni per le quali non si conformano a questa o quella previsione del modello. Così anche la legge sulla moderna schiavitù del 2015 non impone un principio obbligatorio di due diligence al fine di prevenire le pratiche di schiavitù, servitù, lavoro forzato e traffico di esseri umani lungo la catena di fornitura e/o nelle attività economiche dell’impresa, ma soltanto un modello informativo con delle semplici raccomandazioni sui contenuti e con la possibilità che l’impresa si limiti semplicemente a comunicare che nessuna misura di prevenzione è stata adottata. Mentre, tuttavia, il modello informativo secondo lo schema comply or explain può presentare dei vantaggi di flessibilità rispetto agli aspetti generali della corporate governance ed è, comunque, in linea con lo spirito tradizionalmente liberale del popolo e della cultura inglesi, l’applicazione del medesimo modello semplicemente informativo al campo dei rapporti tra business and human rights, specie se riguarda le piaghe della schiavitù e del lavoro forzato, tuttora esistenti nel mondo, non può che considerarsi insufficiente, anche perchè, oltre ad applicarsi soltanto a compagnie con un particolarmente elevato volume d’affari, la legge non include nessun meccanismo efficace di monitoraggio e/o di esecuzione forzata, essendosi rivelato, di fatto, impraticata ed impraticabile la previsione dell’ingiunzione di compliance che potrebbe essere teoricamente richiesta alle Corti dal segretario di stato nei confronti di eventuali compagnie che non avessero pubblicato alcuna relazione sull’adozione (o non adozione) di misure di prevenzione, nè essendo prevista alcuna valutazione di insufficienza o di inadeguatezza della relazione o delle misure adottate, nè conseguentemente alcuna sanzione per tali eventuali insufficienze o inadeguatezze.
Sotto il secondo profilo, occorre tenere presente che nel sistema giuridico inglese la caratteristica peculiare del tort of negligence, tutta incentrata sulla verifica dell’esistenza di un duty of care (dovere di attenzione) in capo al convenuto, rende, da un lato, in astratto meno problematico l’ostacolo della distinta personalità giuridica della società controllante rispetto alla società controllata, ma rischia di determinare una situazione di incertezza in quanto sono le Corti che, caso per caso, sono chiamate a decidere l’esistenza o meno del duty of care della società controllante nei confronti delle vittime delle violazioni di diritti umani commesse nel corso delle attività della società controllata. Gli stessi criteri generali fissati dal caso Caparo v Dickman e cioè quelli della prevedibilità del danno, della prossimità della relazione esistente tra le parti, e della ragionevolezza della imputazione della responsabilità, a causa della loro vaghezza, hanno indotto le Corti ad ulteriori specificazioni, che presentano chiaramente il rischio di escludere per il futuro dalla responsabilità fattispecie che non presentino tutti gli elementi delle ulteriori specificazioni. Ad esempio, in Vedanta la Suprema Corte ha affermato che può dirsi esistente un duty of care in capo alla società controllante, sia se questa, nell’ambito delle sue politiche di gruppo, eserciti un certo livello di supervisione e controllo sulle attività della società sussidiaria, sia se la stessa società madre dichiari in materiali pubblicati di esercitare tale controllo e supervisione anche se, di fatto, ometta di esercitarli, affermazione che presenta almeno due criticità in quanto, da un lato, non precisa il livello di controllo richiesto per fondare la responsabilità in capo alla società madre e, dall’altro lato, potrebbe indurre a ritenere che sia sufficiente per la società controllante non emanare e/o non pubblicare dichiarazioni attinenti alle politiche di gruppo ed ai controlli esercitati sulle attività delle società sussidiarie al fine evitare di incorrere nella responsabilità per le attività di queste ultime. In un caso precedente, Chandler v Cape, relativo alla responsabilità della società madre nei confronti degli impiegati della società sussidiaria, la Corte adita probabilmente è incorsa in una eccessiva specificazione – ritenuta infatti non vincolante in quanto meramente esemplificativa nel caso Vedanta – degli elementi richiesti per l’esistenza del duty of care, consistenti a) nella medesima attività svolta dalle due società; b) nella superiore conoscenza della società madre in materia di salute e sicurezza; c) nella non sicurezza del sistema di lavoro della sussidiaria che avrebbe dovuto essere conosciuta dalla società madre; d) nel fatto che la società madre avrebbe dovuto sapere che gli impiegati della sussidiaria avrebbero fatto affidamento sulla superiore conoscenza della società madre per la loro protezione. L’incertezza dovuta alla genericità dei criteri e/o eccessività delle specificazioni non consente di individuare una sicura linea di tendenza della giurisprudenza inglese, come dimostrato dal caso Unilever, in cui è stata respinta l’azione legale intrapresa dai dipendenti della sussidiaria keniana di Unilever Plc nei confronti di quest’ultima, ritenendo che gli attori non erano riusciti a dimostrare un livello di controllo, della società madre sulle operazioni della società sussidiaria, sufficiente a giustificare l’imposizione di un duty of care in capo alla prima rispetto ai dipendenti della seconda. Ed anche nella più recente decisione sul caso Shell, la Suprema Corte, ha, di fatto, mantenuto un approccio basato sulle circostanze del caso, come si evince dai seguenti passi sulla nozione di controllo: ‘In considering that question, control is just a starting point. The issue is the extent to which the parent company did take over or share with the subsidiary the management of the relevant activity (here the pipeline operation). That may or may not be demonstrated by the parent controlling the subsidiary. In a sense, all parents control their subsidiaries. That control gives the parent the opportunity to get involved in management. But control of a company and de facto management of part of its activities are two different things. A subsidiary may maintain de jure control of its activities, but nonetheless delegate de facto management of part of them to emissaries of its parent’. In definitiva, nel ragionamento della Suprema Corte inglese il fatto del controllo di una società sull’altra non è, di per se, sufficiente a determinare l’insorgere di un duty of care in capo alla prima e la sua conseguente responsabilità per le violazioni dei diritti umani commessi dalla seconda, potendo la prima dimostrare che il controllo esercitato non ha implicato, in concreto, una assunzione o una condivisione della gestione dell’attività della seconda.
7. (segue): il modello tedesco. Con riguardo al modello tedesco, occorre, in primo luogo, fare riferimento alla Lieferkettengesetz – LkSG, la legge sulla dovuta diligenza aziendale nelle catene di approvvigionamento approvata nel luglio del 2021, ed entrata in vigore il primo gennaio 2023 per le società con almeno 3.000 dipendenti e la cui sede principale, il luogo principale di attività, la sede amministrativa o la sede legale, o anche soltanto una filiale o uno stabilimento sia in Germania, e dal primo gennaio 2024 anche per le società con più di 1.000 dipendenti, come sopra localizzate in Germania. Tale legge impegna le società cui si applica al rispetto dei diritti umani e di requisiti etico-sociali ed ambientali, non solo nell’ambito della loro attività, ma anche lungo tutta la loro ‘catena di approvvigionamento’. Quest’ultima è definita in modo ampio nella legge, e si riferisce a ‘tutti i prodotti e servizi di un’azienda e comprende tutte le fasi, in patria e all’estero, necessarie alla fabbricazione dei prodotti o alla fornitura dei servizi, a partire dall’estrazione delle materie prime fino alla consegna al cliente finale’, ovvero a tutte le azioni dell’azienda nel proprio settore di attività, alle attività di un fornitore diretto, ed in alcuni casi anche alle azioni di un fornitore indiretto. Le società cui si applica la legge sono obbligate ad attuare un sistema di gestione del rischio, a nominare un responsabile dello stesso e ad effettuare analisi regolari (annuali). La legge prevede anche l’adozione di misure preventive e correttive da parte delle aziende, tra cui la cessazione della relazione commerciale con il proprio fornitore, l’introduzione di procedure di reclamo, la documentazione del rispetto degli obblighi di diligenza da conservare per sette anni, e la redazione e pubblicazione sul proprio sito web di un rapporto annuale sull’adempimento degli obblighi di diligenza. Le società cui si applica la legge hanno quindi l’obbligo di prendere in considerazione (e richiedere le relative informazioni) anche i metodi di produzione dei loro fornitori diretti, e in caso di violazione – verificata o ritenuta imminente – dei diritti umani e/o dell’ambiente, intraprendere azioni correttive volte a mitigare, interrompere o prevenire tale violazione, compresa quindi, se necessario, la cessazione del rapporto di collaborazione con il proprio fornitore; e, nel caso di indicazioni concrete di possibili violazioni di diritti umani o ambiente da parte di fornitori indiretti, le società soggette alla legge dovranno intervenire anche in questo ambito. Le società che non rispettano gli obblighi derivanti dalla legge potranno avere irrogate multe fino ad 8 milioni di euro (o fino al 2% del fatturato globale annuo per le società con un fatturato superiore a 400 milioni di euro). Nel caso di multe superiori a 175.000,00 euro, le società potranno avere preclusa la partecipazione agli appalti pubblici per un periodo di tre anni.
La Lieferkettengesetz, a differenza della legge francese del 2017 relative au devoir de vigilance des sociétés mères et des enterprises donneuses d’ordre, non contiene alcuna norma sulla responsabilità civile delle società e sulle azioni legali esercitabili dalle vittime di violazioni di diritti umani ed ambiente lungo la catena di approvviggionamento. Ciò, a ben vedere, non deve essere intesa come un limite della legge tedesca, in quanto la stessa si va ad inserire in un sistema di responsabilità civile che già contiene dei dati normativi potenzialmente idonei allo scopo. Si potrebbe, anzi, sostenere che la mancata previsione, nella Lieferkettengesetz, di alcuna norma sulla responsabilità civile delle imprese per violazioni di diritti umani ed ambiente lungo la loro catena di approvviggionamento consente, senza limitarla, la naturale espansione del sistema tedesco della responsabilità civile, utilizzando per via interpretativa i dati normativi esistenti.
Occorre, a tal proposito, richiamare il paragrafo 823 del BGB, il quale, se al primo comma limita la tutela risarcitoria alla violazione colposa o dolosa di un diritto assoluto, tipizzato o meno che sia (“chi intenzionalmente o per negligenza lede ingiustamente la vita, il corpo, la salute, la libertà, la proprietà o qualsiasi altro diritto di un altro è tenuto verso quest’ultimo a risarcire il danno che ne deriva”), al secondo comma amplia l’area della responsabilità extracontrattuale, prevedendo la risarcibilità dei danni derivanti dalla violazione di norme di protezione stabilite dall’ordinamento a favore della vittima dell’illecito (“la stessa obbligazione grava su chi contravviene ad una legge avente come scopo la tutela di un’altra persona. Se, secondo il tenore della legge, il contravvenire a questa sia possibile anche senza colpa, l’obbligo del risarcimento del danno ha luogo solo nel caso di colpa”). E non può certo dubitarsi che la Lieferkettengesetz, nel porre degli obblighi di dovuta diligenza a carico delle società, contenga delle norme di protezione nell’interesse di potenziali vittime di violazioni di diritti umani ed ambiente lungo tutta la catena di approvvigionamento delle imprese, cosicchè la violazione di tali norme determinerebbe l’attivazione del secondo comma del paragrafo 823 del BGB, il quale è ritenuto applicabile anche a situazioni in cui non è ravvisabile la lesione di un diritto assoluto, tipizzato o meno che sia (das Leben – la vita, den Körper – il corpo, cioè l’integrità fisica –, die Gesundheit – la salute, die Freiheit – la libertà, das Eigentum – la proprietà, oder ein sonstiges Recht eines anderen – o qualsiasi altro diritto di un altro). D’altra parte, è vero che la Lieferkettengesetz si applica soltanto a società che superino certi limiti dimensionali, ma è anche vero che, con riguardo alla lesione dei diritti assoluti come quelli sopra richiamati (e le fattispecie nelle quali si verificano violazioni di diritti umani ed ambiente, per lo più, comportano la violazione di diritti assoluti) rimane applicabile la disciplina della Haftung für den Verrichtungsgehilfen: responsabilità per gli ausiliari (quali possono essere considerati i fornitori), portata dal paragrafo 831 del BGB, il quale dispone che: Wer einen anderen zu einer Verrichtung bestellt (letteralmente: chi, un altro soggetto, ad una esecuzione ordina), ist zum Ersatz des Schadens verpflichtet (letteralmente: è, alla compensazione dei danni, obbligato), den der andere in Ausführung der Verrichtung einem Dritten Widerrechtlich zufügt (letteralmente: che, l’altro soggetto, nel compimento dell’esecuzione, ad un terzo, illecitamente arreca). Die Ersatzpflicht tritt nicht ein (letteralmente: L’obbligo di compensazione non sopraggiunge), wenn der Geschäftsherr (se il titolare dell’operazione) bei der Auswahl der bestellten Person (nella scelta della persona ordinata) und (e), sofern er (se egli) Vorrichtungen oder Gerätschaften zu beschaffen (da procurare dispositivi o attrezzature) oder die Ausführung der Verrichtung (o il compimento dell’esecuzione) zu leiten hat (da dirigere ha), bei der Beschaffung oder der Leitung (nel procacciamento o nella direzione) die im Verkehr erforderliche Sorgfalt beobachtet (la, nel traffico richiesta, diligenza osserva) oder wenn der Schadenauch (o se il danno) auch bei Anwendung dieser Sorgfalt (anche nell’applicazione di questa diligenza) entstanden sein würde (verificatosi sarebbe). Mettendo insieme i lemmi: “Chi ordina ad un altro soggetto l’esecuzione di una prestazione è obbligato al risarcimento dei danni che l’altro soggetto arreca illecitamente ad un terzo nell’esecuzione della prestazione. L’obbligo di risarcimento non sorge se il titolare dell’operazione osserva la diligenza richiesta nel traffico giuridico, nella scelta della persona incaricata, o, se ha da procurare dispositivi o attrezzature o da dirigere l’esecuzione della prestazione, nel procacciamento o nella direzione, o se il danno si sarebbe verificato anche nell’applicazione di tale diligenza”. Mentre, a livello contrattuale, il paragrafo 278 del BGB stabilisce che “il debitore deve rispondere per la colpa del proprio rappresentante legale e delle persone di cui si avvale per l’adempimento della sua obbligazione nella stessa misura nella quale risponde della propria colpa”, senza, quindi, essere ammesso a fornire la prova liberatoria della mancanza della sua propria colpa, il paragrafo 831, che opera sul piano della responsabilità extracontrattuale, come si è visto, ammette tale prova liberatoria, e la differenza di disciplina delle due norme sembra avere una sua propria ratio, su cui conviene qui riflettere. Sembra, infatti, di potere affermare che, mentre il paragrafo 278 presuppone che il soggetto, di cui il debitore si sia avvalso nell’adempimento della prestazione dovuta, sia un agente vicario del debitore, vale a dire completamente sottoposto alla sfera organizzativa di quest’ultimo, come lo è un lavoratore dipendente (Erfüllungsgehilfe: aiutante nell’adempimento), il paragrafo 831 si riferisce a soggetti ausiliari, vale a dire dotati di una, sia pur limitata, autonomia (Verrichtungsgehilfe: aiutante nell’attività, in altri termini soggetto ‘von den Weisungen des Geschäftsherrn mehr oder weniger abhängig’, cioè ‘più o meno dipendente dalle istruzioni del titolare’). Ed allora, corrisponde a logica affermare che, se il soggetto di cui il dominus si avvale nello svolgimento della sua attività è sottoposto al penetrante potere di direzione ed organizzativo di quest’ultimo, non può essere consentita al dominus alcuna prova liberatoria della mancanza di sua colpa, corrispondendo la sua responsabilità al rischio d’impresa o, comunque, dell’attività intrapresa, mentre, se i soggetti, ad esempio i fornitori, di cui il titolare si avvale per lo svolgimento della sua attività, anche se sottoposti alle istruzioni dell’ordinante, sono dotati di una certa autonomia organizzativa (e produttiva), il titolare risponde degli eventi dannosi occorsi e dei danni derivati ai terzi nell’esecuzione delle attività ordinate, ma è ammesso alla prova liberatoria di avere osservato tutti gli standards di diligenza richiesti nella scelta degli ausiliari, nell’eventuale procacciamento dei mezzi e nelle istruzioni e direttive impartite.
8. Una sfida per il diritto privato della responsabilità civile (e per il diritto societario). Come si è visto, il modello giuridico tedesco fa comprendere chiaramente come esistano due piani che devono svilupparsi senza limitarsi reciprocamente. Il primo piano è quello della previsione analitica degli obblighi di “due diligence”, assistita da un corrispondente sistema di controlli e di sanzioni amministrative a carico delle imprese che non adempiono a tali obblighi; il secondo piano è quello della responsabilità civile delle imprese per le ipotesi di violazioni di diritti umani ed ambiente lungo la loro catena di valore. Se appare ragionevole prevedere delle soglie dimensionali di applicazione del primo piano, cioè prevedere che siano soggette al rispetto degli specifici obblighi di “due diligence” (e conseguenti sanzioni amministrative per il caso di loro violazione) soltanto le imprese che superano certe soglie dimensionali, non appare altrettanto ragionevole porre limitazioni dimensionali alla responsabilità civile delle imprese verso le vittime delle violazioni di diritti umani ed ambiente. La direttiva europea di prossima emanazione potrà sicuramente prevedere, quale requisito minimo di conformità ad essa, che gli ordinamenti nazionali prevedano un sistema di responsabilità amministrativa ed, accanto ad essa, di responsabilità civile a carico delle società che superano certe soglie dimensionali, ma non potrà certo limitare il naturale sviluppo, anche a livello interpretativo, del sistema della responsabilità civile delle imprese, anche perchè lo stesso non può cessare di essere considerato come un insieme di norme dotato di intrinseca razionalità e coerenza.
Certamente l’emanazione della direttiva europea costituirà uno stimolo per un ripensamento di tematiche e questioni fondamentali del diritto privato, quali i modelli di responsabilità di impresa, i doveri di protezione e la funzione sociale del contratto, i casi di superamento del velo della personalità giuridica, i gruppi di società e nuovi possibili contenuti per l’exceptio (o replicatio) doli.
L’auspicio, già formulato e che qui si rinnova, è che il diritto privato sappia raccogliere la sfida che la direttiva europea di prossima emanazione porterà con sè, anche al di là ed oltre la formulazione finale frutto di inevitabile compromesso, nel senso di seguire un criterio di prevalenza bilanciata della protezione più efficace dei diritti umani e dell’ambiente rispetto alle esigenze di delimitazione della responsabilità delle imprese, così come una applicazione delle teorie sul nesso causale secondo il criterio della consequenzialità logica o razionale ed il parametro della ragionevole presumibilità dell’occorrenza dell’evento lesivo.
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