Elvira Reale, psicologa Associazione Salute Donna, consulente Commissione Femminicidio al Senato XVIII legislatura.
Correva l’anno 2016 era il 23 giugno e la Corte europea condannava l’Italia (Caso Strumia C. Italia, sentenza 23 giugno 2016) per non avere consentito ad un padre di accedere agli incontri con la figlia che lo rifiutava (per presunti abusi sessuali) attuando le misure che pure erano state indicate da una CTU (ovvero di allontanare la figlia dalla madre, presunta alienante) ma che il tribunale non aveva adottato nella ratio estrema dell’allontanamento coattivo e traumatico della minore.
All’epoca si disse che la CEDU aveva avallato la Pas (Parental Alienation Syndrome) ma in effetti si trattò di penalizzare il comportamento altalenante di un tribunale che, non avendo messo in luce le allegazioni di violenza e non avendo fatto discendere da quello i provvedimenti consoni al caso, si era barcamenato tra malintesi diritti alla bigenitorialità del padre e i diritti del minore a non essere traumatizzato., senza giungere ad un sintesi giuridicamente valida di bilanciamento dei diritti con una posizione di rispetto per il ‘supremo interesse’ del minore.
All’epoca il richiedente, padre della minore, lamentava : “la violazione del suo diritto al rispetto della sua vita familiare (art. 8) in quanto non aveva potuto esercitare pienamente il suo diritto di visita per sette anni, e ciò malgrado l'esistenza di diverse decisioni del tribunale di Pisa, della Corte d'appello di Firenze e del tribunale dei minori di Firenze, che avevano fissato le condizioni dell'esercizio di questo diritto. Contestava alle istituzioni interne di non aver messo in atto delle misure che gli avrebbero permesso di conservare il legame con sua figlia e di avere, di conseguenza, lasciato il tempo alla sua ex-moglie di mettere la figlia contro di lui. Denunciava un'inerzia delle autorità di fronte al comportamento di N. R., sostenendo che queste non avevano dispiegato forze né preso delle misure provvisorie per permettergli di esercitare il suo diritto di visita ed impedire l'alienazione parentale che sarebbe stata riscontrata a sua figlia”.
Gli errori del tribunale all’epoca individuati e messi in rilevo nella nostra critica furono di:
- “non aver riconosciuto e messo in primo piano l'incipit della violenza contro la donna, alla presenza della figlia minore;
- aver disposto prima visite protette, non andate a buon fine per il rifiuto della bambina e per la mancanza di compliance della madre, vittima di violenza;
- aver poi eliminato le visite protette e decretato l'affido condiviso con lo stesso risultato di non realizzare gli incontri padre-figlia per le resistenze della bambina;
- essersi affidato a tecnici interpellati proprio sul punto da non valutare, ovvero: “profilo di personalità dei genitori e presenza di PAS”;
- aver ottenuto invalide consulenze che poi non ha utilizzato;
- non aver fatto eseguire in modo coattivo (ed in questo a nostro avviso avendo fatto bene, ma oramai in una situazione giuridicamente contraddittoria) le sue sentenze di allontanamento della figlia dalla madre, su indicazione dei cattivi consulenti”(1).
Poco dopo nel 2017, abbiamo una sentenza di stampo ben diverso, la sentenza Talpis, che mette al centro i diritti delle donne nella tutela della violenza domestica e che apre le porte ad una nuova stagione, culminata nel 2022, in cui sono le donne vittime di violenza, attraverso associazioni esperte, a compulsare la Corte Europea dei diritti dell’Uomo che da questo momento in poi chiameremo a buona ragione (traducendolo dall’inglese: European Court of Human Rights) Corte Europea dei diritti umani, in modo da sottolineare il nuovo corso che non esclude più le donne dai benefici di sentenze competenti sulla violenza domestica, femminicidi e stupro.
Nella sentenza Talpis (Sentenza del 2 marzo 2017 - Ricorso n. 41237/14 - Causa Talpis c. Italia, “la Corte Europea dei diritti umani, ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché del divieto di discriminazione in quanto le autorità italiane non sono intervenute tempestivamente per proteggere la signora Talpis e i suoi figli, vittime di violenza domestica perpetrata dal marito, avallando di fatto tali condotte violente protrattesi fino al tentato omicidio della ricorrente e all’omicidio di suo figlio. I ritardi nell’apertura delle indagini dopo la denuncia della violenza e l’assoluta sottovalutazione del rischio hanno fatto sì che non venisse predisposta nessuna misura di protezione, con il risultato che i comportamenti violenti dell’uomo sono continuati nella percezione di totale impunità, fino all’omicidio finale”(2).
Leggiamo in sentenza: “Il venir meno – anche involontario - di uno Stato all’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche si traduce in una violazione del loro diritto a un’uguale protezione di fronte alla legge ed è, pertanto, intrinsecamente discriminatorio. Nel caso di specie, avendo la Corte già concluso, in relazione alle riscontrate violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione, ritiene che tale condotta integra anche una violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 della Convenzione, sotto il profilo dell’inadempimento da parte dello Stato dell’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche”.
La Corte, anche in questo caso, come in tutte le altre sentenze che esamineremo, muove dal caposaldo della sua giurisprudenza, per cui le norme della Convenzione non solo contengono obblighi negativi e di astensione, ovvero i funzionari pubblici non devono violare i diritti delle persone; ma anche obblighi positivi e procedurali, ovvero l’ adoperarsi perché altri non violini i diritti altrui.
Nel 2021, un’altra sentenza emblematica sulla violenza sessuale e la discriminazione di genere contro il prevalere di stereotipi sessisti di cui è infarcita la sentenza di assoluzione (in appello) degli autori di uno stupro di gruppo: la sentenza 27 maggio 2021- Ricorso 5671/16, causa J.L. c. Italia
In questa sentenza, la Corte europea dei diritti umani (CEDU) ha condannato l'Italia per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro con una sentenza che contiene «dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima», «dei commenti ingiustificati» e un «linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana”. Viene richiamata nel caso in esame la violazione dell’art. 8 (rispetto alla vita familiare) facendo riferimento alla vittimizzazione secondaria di una vittima di violenza sessuale a causa di affermazioni colpevolizzanti, moralizzanti e stereotipate nella motivazione della sentenza e a causa di Autorità che non hanno garantito il rispetto dell'integrità personale della ricorrente durante le indagini e il processo.
Ma è nel 2022, anno in corso, che possiamo annoverare una svolta importante della CEDU con ben 4 sentenze nell’arco di otto mesi che si muovono dai ricorsi di donne vittime, a vario livello, di violenza domestica e giungono a sentenze che danno loro ragione, mettendo in campo tutti i caposaldi della normativa nazionale e internazionale sulla violenza domestica, a partire dalla Convezione di Istanbul.
Diamo dei rapidi cenni sulle prime tre sentenze del 2022, mentre ci soffermeremo sulla quarta sentenza di più ampio significato per il contrasto alla violenza di genere nei tribunali civili:
la prima, Sentenza del 7 aprile 2022 - Ricorso n. 10929/19 - Causa Landi c. Italia;
la seconda, Sentenza del 16 giugno 2022 - Ricorso n. 23735/19 - Causa De Giorgi c. Italia;
la terza, Sentenza del 7 luglio 2022 - Ricorso n. 32715/19 - Causa M.S. c. Italia
la quarta, Sentenza del 10 novembre 2022 - Ricorso n. 25426/20 - Causa I.M. e altri c. Italia.
Il ricorso ripropone quanto accaduto nel caso Talpis, il che ci dice anche che l’applicazione della Convenzione di Istanbul e le ripetute censure del Grevio(3), ampiamente riportate in sentenza, non hanno apportato modifiche generalizzate al sistema giudiziario italiano: “la mancata adozione da parte dello Stato delle misure di protezione e di assistenza nei confronti della ricorrente e dei suoi figli a seguito delle violenze domestiche inflitte dal compagno, ha portato all'omicidio del loro figlio di un anno e al tentato omicidio dell'interessata”.
La rilevanza di questa sentenza è nella disamina della mancata valutazione del rischio per la vita delle vittime di violenza domestica, da parte dell’autorità giudiziaria inquirente, nei riferimenti precisi e puntuali alla Convenzione di Istanbul e al Grevio nel suo rapporto sull’Italia, nonché nell’applicazione al caso in esame dell’art. 2 della convenzione sui diritti umani.
La Corte condanna l’Italia per l’art. 2, posto a tutela del diritto alla vita che impone per gli stati, aderenti alla convenzione sui diritti umani, l’adozione di tutte le misure preventive necessarie per proteggere l’individuo la cui vita sia minacciata da condotte violente poste in essere da soggetti terzi, tali da minacciarne l’incolumità. In base a quanto le autorità sapevano, o che avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di un pericolo imminente e concreto per la vita di un determinato individuo a seguito di condotte criminose di un terzo, avrebbero dovuto prendere, nell’ambito delle loro competenze, tutte le misure in grado di scongiurare questo pericolo.
Sulla protezione della vita la Corte EDU ha richiamato in motivazione i parametri scanditi nel caso Kurt c. Austria del 2021,” così riassumibili:
Molto interessante la disamina sulla valutazione del rischio posto alla base della tutela della vita delle vittime di violenza domestica. La procedura di valutazione del rischio infatti dovrebbe essere fatta dalle FFOO, dai giudici ma anche dagli operatori sanitari ( n sentenza è nominata infatti anche la sottovalutazione del rischi da parte dello psichiatra).
In sentenza viene affrontata proprio: La qualità della valutazione dei rischi:
“La Corte rammenta che, allo scopo di stabilire se le autorità avrebbero dovuto essere a conoscenza del rischio ripetuto di atti di violenza, essa ha individuato e preso in considerazione, in un certo numero di cause, gli elementi seguenti: i precedenti di comportamento violento dell'autore e il mancato rispetto dei termini di un'ordinanza di protezione (Eremia c. Repubblica di Moldavia, n. 3564/11, § 59, 28 maggio 2013), l'escalation della violenza che rappresenta una minaccia continua per la salute e la sicurezza delle vittime (Opuz c. Turchia, n. 33401/02, §§ 135-36, CEDU 2009), le richieste di aiuto ripetute della vittima per mezzo di appelli urgenti, nonché le denunce formali e le petizioni rivolte al capo della polizia (Bălşan c. Romania, n. 49645/09, §§ 135-36, 23 maggio 2017). Alcuni degli elementi sopra indicati erano presenti anche nelle circostanze della presente causa. La Corte osserva che, ad eccezione delle proposte fatte dai carabinieri ai procuratori (paragrafo 87 supra), le autorità competenti, nel complesso, non hanno condotto né un'azione autonoma e proattiva, né una valutazione completa dei rischi. Le autorità non hanno mai seguìto una procedura di valutazione dei rischi della situazione della ricorrente e di quella dei suoi figli. Sebbene fossero stati informati dai carabinieri dei precedenti di violenza di N.P., i procuratori non hanno dimostrato, nell'esaminare le denunce della ricorrente, di aver preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, sebbene fossero presenti tutti gli indizi, ossia, in particolare, lo schema di escalation delle violenze subite dalla ricorrente (e dai suoi figli), le minacce proferite, le aggressioni ripetute, nonché la malattia mentale di N.P. Le autorità non hanno considerato che, trattandosi di una situazione di violenza domestica, le denunce meritavano un intervento attivo. Anche lo psichiatra che seguiva N.P. ha sottovalutato la situazione, considerando l'aggressione subìta dalla ricorrente nel 2018 come un «litigio» tra coniugi (paragrafo 43 supra). Le autorità non hanno messo in atto delle misure di protezione, sebbene fossero state sollecitate dai carabinieri. I rischi di violenza ricorrente non sono stati correttamente valutati o presi in considerazione.
Alla luce degli elementi sopra esposti, la Corte ritiene che le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che esisteva un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli a causa delle violenze commesse da N.P., e che avessero l'obbligo di valutare il rischio di reiterazione di tali violenze, nonché di adottare misure adeguate e sufficienti per la protezione della ricorrente e dei suoi figli. Tuttavia, esse non hanno rispettato tale obbligo, dato che non hanno reagito né «immediatamente», come richiesto nei casi di violenza domestica, né in qualsiasi altro momento”.
Dalla sentenza inoltre si evidenzia come: “ nulla rilevava ai fini della mancata attivazione delle misure di protezione, il ritiro della denuncia presentata dalla ricorrente, poiché il reo si era più volte reso protagonista di minacce nei confronti della stessa; competeva in ogni caso sull’autorità giudiziaria l’onere di svolgere indagini volte a scongiurare risvolti ancora più gravi della situazione”.
Nelle valutazioni conclusive :” La Corte osserva anzitutto che non vi sono dubbi sul fatto che l’articolo 2 della Convenzione si applica al caso della ricorrente, in quanto la stessa è stata vittima di violenza domestica ripetuta e di un tentato omicidio, e del decesso di suo figlio”.
Secondo la ricorrente, Silvia De Giorgi, madre di tre figli, le autorità italiane sarebbero venute meno all’obbligo imposto dall’art. 3 della Convenzione (trattamento inumano e degradante), e ciò in quanto sono state avvertite a più riprese della violenza del marito, ma nonostante ciò non hanno adottato le misure necessarie ed appropriate per proteggere lei e i suoi bambini contro il pericolo reale e conosciuto che questi rappresentava, non avendo peraltro impedito la commissione di ulteriori violenze domestiche; in particolare la ricorrente espone che, nonostante la richiesta di una misura di protezione avanzata dai carabinieri al procuratore della Repubblica, l’Autorità giudiziaria non l’avrebbe adeguatamente protetta.
La sentenza ha quindi individuato i seguenti comportamenti in violazione dei diritti umani: trattamento inumano e degradante, inadempimento dello Stato al suo dovere di indagare sui maltrattamenti di violenza domestica subiti dalla ricorrente (e dai suoi figli) da parte del marito; passività giudiziaria delle autorità interne nel corso dell'azione penale.
La decisione della Corte si basa anch’essa come la precedente, ma con maggiore estensione delle argomentazioni, sui pilastri delle normative e raccomandazioni internazionali contro la violenza sulle donne:
Poi deduce l’applicabilità dell’art. 3 al caso in esame inserendo che il maltrattamento non è solo ascrivibile alla lesione fisica, ma anche alla lesione psichica e ai comportamenti che generano angoscia: ”La Corte rammenta che, per rientrare nel campo di applicazione dell'articolo 3, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di tale minimo dipende dall'insieme degli elementi della causa, in particolare dalla natura e dal contesto del trattamento, dalla sua durata, dai suoi effetti fisici e psichici, ma anche dal sesso della vittima e dal rapporto tra la vittima e l'autore del trattamento. Un maltrattamento che raggiunge tale soglia minima di gravità implica, in generale, lesioni al corpo o forti sofferenze fisiche o psicologiche. Tuttavia, anche in assenza di sevizie di questo tipo, nel momento in cui il trattamento umilia o svilisce un individuo, dando prova di mancanza di rispetto per la sua dignità umana o sminuendola, o suscita nell’interessato sentimenti di paura, angoscia o inferiorità tali da annientare la sua resistenza morale e fisica, questo trattamento può essere qualificato degradante e rientrare così nel divieto di cui all’articolo 3 (Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09, §§ 86-87, CEDU 2015)”.
Nel caso si profila anche la responsabilità non solo del giudice penale ma anche del giudice civile presso il quale era in discussione la causa per l’affido dei figli, e proprio per questa circostanza la sottovalutazione delle violenze è correlata al pregiudizio che le donne in separazione inventino violenze o ne dilatino circostanze e gravità. In più i minori non vengono ascoltati e il caso considerato come espressione di conflittualità e non di violenza.
“Nel caso di specie, la ricorrente ha subìto delle violenze da parte di L.B., che sono state documentate il 21 novembre 2015 (si veda il paragrafo 12 supra) dall'ospedale e dai carabinieri. La ricorrente è stata colpita alla testa con un casco da moto e ha subìto una contusione a livello dello zigomo sinistro, una contusione nella regione parietale destra, una distorsione del rachide cervicale e una contusione alla spalla. Il comportamento minaccioso di L.B. le ha fatto temere il ripetersi delle violenze per un lungo periodo di tempo. Le varie denunce e richieste di protezione rivolte alle autorità dello Stato testimoniano questo timore. La ricorrente ha lamentato in diverse occasioni un comportamento di controllo e coercizione, manifestatosi attraverso la sorveglianza dei suoi spostamenti, le molestie davanti alla sua abitazione e le minacce di ucciderla davanti ai bambini. I maltrattamenti sono stati segnalati anche dai servizi sociali nella loro relazione del febbraio 2018. L'atteggiamento delle autorità, che ritenevano si trattasse di un conflitto tipico di alcune separazioni e non hanno offerto alcuna protezione alla ricorrente, deve aver esacerbato i sentimenti di ansia e impotenza che quest'ultima provava a causa del comportamento minaccioso di L.B.”
In conclusione: Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che il trattamento denunciato abbia oltrepassato il livello minimo di gravità previsto dall'articolo 3 della Convenzione
Tra i principi generali, anche in questa sentenza come nella sentenza Landi si fa riferimento dell’obbligo positivo per lo Stato di prevenire il rischio di violenza ricorrente nel contesto della violenza domestica secondo parametri definiti nella causa Kurt (sopra citata). E si fa una disamina della valutazione della qualità dei rischi: “La Corte osserva che, ad eccezione delle proposte fatte dai carabinieri al procuratore (paragrafo 75 supra), le autorità competenti, nel complesso, non hanno condotto né un'azione autonoma e proattiva, né una valutazione completa dei rischi. Le autorità non hanno mai seguìto una procedura di valutazione dei rischi della situazione della ricorrente e di quella dei suoi figli. I procuratori non hanno dimostrato, nell'esaminare le denunce della ricorrente, di aver preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, sebbene fossero presenti tutti gli indizi, ossia, in particolare, lo schema di escalation delle violenze subite dalla ricorrente (e dai suoi figli), l’aggressione del 20 novembre 2015, le minacce proferite e le molestie (Kurt, sopra citata, § 175). Le autorità non hanno considerato che, trattandosi di una situazione di violenza domestica, le denunce meritavano un intervento attivo: al contrario, le denunce sono state considerate poco dettagliate e non sono stati sentiti i minori nonostante le molteplici segnalazioni della ricorrente relative ai maltrattamenti che questi ultimi subivano. Anche se è vero che la Corte non può mettere in discussione il fatto che delle misure di protezione potessero essere applicate solo in caso di convivenza, come ha affermato il tribunale civile di Padova, essa osserva che questo stesso tribunale, al quale si era rivolta la ricorrente, ha sottovalutato la situazione, negando la misura di protezione richiesta (paragrafo 22 supra) ritenendo che si trattasse di una situazione tipica di un conflitto all’interno di una coppia che si stava separando. Le autorità non hanno messo in atto misure di protezione nonostante tali misure fossero state richieste dai carabinieri. I rischi di violenza ricorrente non sono stati correttamente valutati né presi in considerazione.
Nelle considerazioni conclusive che portano all’accertamento della mancata applicazione dell’art. 3 si legge: “Le minacce di morte che la ricorrente ha affermato di aver ricevuto varie volte non sono state prese in considerazione. La Corte rammenta che il divieto di maltrattamenti previsto dall’articolo 3 comprende tutte le forme di violenza domestica, comprese le minacce di morte, e che qualsiasi atto di questo tipo genera un obbligo di indagare. Le minacce costituiscono una forma di violenza psicologica e una vittima vulnerabile può averne paura indipendentemente dalla natura oggettiva di tale comportamento intimidatorio (Volodina, sopra citata, § 98).
Ancora leggiamo: “La Corte ritiene che, nel trattare in via giudiziaria il contenzioso delle violenze contro le donne, spetti ai giudici nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisica e/o materiale, della vittima, e valutarne la situazione di conseguenza, nel più breve tempo possibile. La Corte non è convinta che le autorità abbiano cercato seriamente di avere una veduta d’insieme della successione di incidenti violenti in causa, come richiesto nelle cause in materia di violenza domestica. I procuratori incaricati delle due indagini non hanno dimostrato di avere alcuna consapevolezza delle particolari caratteristiche delle cause in materia di violenza domestica e alcuna volontà reale di fare in modo che l’autore di tali atti fosse portato a renderne conto. L’indagine sull’aggressione del 20 novembre 2015 si è conclusa nel 2021 e il procedimento è oggi tuttora pendente; l’indagine sui fatti denunciati tra il 2016 e il 2017 è ancora pendente e, invece, non è stata condotta alcuna indagine a seguito dei maltrattamenti segnalati dai servizi sociali nel 2018. La Corte insiste nuovamente sulla particolare diligenza che richiede l’esame delle denunce di violenze domestiche, e ritiene che le specificità dei fatti di violenza domestica come quelle riconosciute nel preambolo della Convenzione di Istanbul (paragrafi 40-43 supra) debbano essere tenute presenti nell’ambito dei procedimenti interni.
ln conclusione: “la Corte ritiene che lo Stato si sia sottratto al suo dovere di indagare sui maltrattamenti subiti dalla ricorrente [e dai suoi figli] e che anche il modo in cui le autorità interne hanno condotto l’azione penale nella presente causa dimostra una passività giudiziaria e non si può considerare tale da soddisfare le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione.”
Questa causa ricalca la precedente, sia per quanto riguarda i ritardi nella tutela da parte dello Stato, sia per la violazione dell’art. 3 che definisce quindi l’esposizione della donna a ulteriori violenze qualificabili come trattamenti inumani e degradanti: “Mancanza di diligenza delle autorità nazionali, in un primo periodo, intervenute tardivamente nell'applicazione di una misura cautelare, ossia 22 mesi dopo che la ricorrente era stata aggredita da suo marito con un coltello - Mancanza di valutazione immediata e proattiva dell'esistenza di un rischio reale e immediato di violenze domestiche ricorrenti contro l'interessata”.
La quarta sentenza introduce nel panorama della condanna all’Italia finora definito nella mancata rilevazione del rischio di violenze e nella mancanza di tutela della donna vittima di violenza domestica e dei suoi figli, anche il tema del bilanciamento degli interessi tra minori, costretti nella procedura di affidamento a incontrare il padre, e l’interesse del genitore. Su questo punto la sentenza CEDU diviene pietra miliare dei contenziosi presso i tribunali civili per gli affidi dei minori quando vittime di maltrattamento assistito insieme alle loro madri vittime di violenza domestica. In più vi è una netta censura e condanna delle prassi dei tribunali italiani che qualificano le donne che tutelano i figli come non collaborative e ostative.
Dall’incipit della sentenza: “Art 8 • Obblighi positivi • Figli costretti, per tre anni, ad incontrare il loro padre violento in ambiente non protetto, e sospensione della responsabilità genitoriale della madre ostile agli incontri • Mancata valutazione del rischio e mancato bilanciamento degli interessi in causa • Interesse superiore dei minori disatteso • Prassi molto diffusa da parte dei tribunali che consiste nel qualificare come genitori «non collaborativi» le donne che si oppongono agli incontri tra i loro figli e l’ex coniuge invocando fatti di violenza domestica”.
Il fatto: nel 2014 la signora IM madre di due figli minori lascia la casa familiare a causa della violenza del partner ed avvia contestualmente la denuncia per maltrattamenti, trovando anche rifugio in una casa per donne maltrattate insieme ai figli minori. Il tribunale per i minorenni di Roma dispone visite protette che si protraggono per tre anni, in queste visite il padre mostra comportamenti inappropriati coinvolgendo i minori nei suoi giudizi offensivi e denigratori contro la loro madre, accusata di manipolarli. I servizi sociali segnalano tali comportamenti ed il disagio dei minori in queste visite. Il partner lamenta l’ostruzionismo della madre che viene anche denunciata penalmente per il fatto che i figli non vengono condotti alle visite, segnalazione anche inoltrata dal Comune al tribunale (poi la denuncia sarà archiviata, mentre intanto procede il percorso penale per i maltrattamenti messi in atto dal partner). Sul ricorso del padre, ostacolato nelle visite protette ai figli, il tribunale interviene sollevando dalla responsabilità genitoriale anche la madre (che precedentemente aveva avuto l’affido esclusivo) ma mantenendo la collocazione dei minori presso di lei.
“Il 18 maggio 2016 il tribunale decise di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori. Rilevò che la prima ricorrente (la madre) si opponeva allo svolgimento degli incontri. Prese atto che G.C. era stato rinviato a giudizio per maltrattamenti e minacce contro la prima ricorrente. Ordinò una perizia per valutare le capacità genitoriali dei due genitori”.
Solo nel 2019 alla signora IM viene restituita la responsabilità genitoriale mentre il padre viene dichiarato decaduto: “Con decisione del 15 maggio 2019, il tribunale reintegrò la prima ricorrente nella sua responsabilità genitoriale e dichiarò la decadenza di G.C. dalla sua responsabilità genitoriale. Il 19 dicembre 2019 la corte d’appello di Roma confermò questa decisione, sottolineando che G.C, con i suoi comportamenti aggressivi, distruttivi e sprezzanti durante gli incontri, aveva violato il suo diritto di garantire ai figli una crescita sana e serena”.
La tipologia di questo caso rientra anche tra quelli esaminati e censurati dalla Commissione femminicidio al senato (XVIII legislatura) i cui dati dell’inchiesta sulla vittimizzazione secondaria sono stati pubblicati a maggio 2022(4).
La trattazione del caso parte da alcuni riferimenti alla normativa italiana e internazionale che riassumono i caposaldi delle buone prassi in campo legislativo e scientifico sulle procedure da attuare in caso di violenza domestica e maltrattamento assistito:
Il ricorso: “I ricorrenti (madre e due figli) che affermano di essere vittime di violenze domestiche, contestano alle autorità di non aver adottato le misure necessarie e appropriate per proteggerli, sebbene fossero state avvisate varie volte della mancanza di sicurezza degli incontri tra la seconda ricorrente (figlia) e il terzo ricorrente (figlio) e il loro padre violento, tossicodipendente e alcolizzato. In effetti, secondo loro, tali incontri non si sono svolti nella forma «rigorosamente protetta» prescritta dal tribunale, e l'omissione delle autorità a tale riguardo li ha esposti a nuove violenze. Inoltre, la prima ricorrente lamenta di essere stata definita «genitore non collaborativo» e, di conseguenza, che la sua responsabilità genitoriale sia stata sospesa soltanto perché, a suo parere, aveva voluto proteggere i suoi figli evidenziando la mancanza di sicurezza degli incontri. La prima ricorrente afferma, inoltre, che le sue argomentazioni non sono state prese in considerazione, e che ha subìto una vittimizzazione secondaria. I ricorrenti invocano gli articoli 3 e 8 della Convenzione”.
Conclusioni della Corte EDU sui figli minori (2 e 3 ricorrente)
Conclusioni della Corte EDU che riguardano la madre signora IM (1 ricorrente)
Di conseguenza, vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione nei confronti della 1 ricorrente”.
L’articolo 8, il rispetto alla vita familiare, ha una serie di implicazioni tutte definite dalla stessa Corte europea(5), e nel rispetto di questo articolo si inserisce a pieno titolo il tema del diritto del minore ad essere protetto dalla violenza che è primario rispetto al diritto del padre ad esercitare il ruolo genitoriale. E chiaro quindi che il c.d .diritto alla bigenitorialità non ha un ruolo preminente rispetto all’interesse del minore, ma esso, come in questo caso, si posiziona come secondario e recessivo rispetto ad altri diritti e interessi come quelli alla sicurezza e a vivere senza disagi (indotti anche dalle istituzioni). Ugualmente La CEDU rammenta, nelle questioni di affidamento, il valore primario del rispetto dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul e l’assoluta incongruenza di designare le madri protettive come non collaborative.
Valutazioni di sintesi
E’ importante tracciare una sintesi delle procedure che la Corte europea utilizza nel trattare il tema della violenza domestica e assistita dai minori, per poter definire anche un modello di percorso per le donne che, vittimizzate dai tribunali, vogliono ricorrere all’Alta Corte in difesa dei propri diritti.
A differenza del caso Strumia, da cui siamo partite, assume centralità, in tutte le sentenze successive citate, la valutazione della violenza domestica come rappresentata dalla Convenzione di Istanbul, integrata anche nei suoi vari aspetti dagli articoli: 2,3,8,14 della CEDU.
In particolare nelle tre cause iniziali del 2022 la Corte centra l’attenzione sulla mancanza di interventi urgenti, soprattutto in ambito penale, a tutela delle vittime; sulla passività e inerzia dello Stato; sulla mancanza di formazione e consapevolezza da parte dei giudici circa la violenza domestica; in particolare poi sulla mancanza di una corretta valutazione del rischio. Sulla valutazione del rischio, infatti, interviene in modo dettagliato con una disamina di quelli che sarebbero stati gli indicatori di rischio, immessi nel processo dalle denunce delle vittime, ma sottovalutati dai giudici. Nella causa Landi poi viene precisato che non solleva lo Stato dalle responsabilità di una mancata diligenza il fatto che la donna abbia ritirato la denuncia, perché l’accertamento dei fatti rimane di responsabilità dell’Autorità Giudiziaria. Inoltre evenienze di questo genere (ritrattazioni o ritiri di denunce dal parte delle vittime) sono ricorrenti nei casi di violenza domestica(6).
A fronte di questa mancata lettura e individuazione della violenza e dei suoi fattori di rischio di lesività e letalità, la Corte individua la violazione di due articoli: 2 e 3. L’articolo due comprende il diritto alla vita violato a partire dalle vite soppresse a causa della violenza maschile (i figli delle donne vittime di violenza, e i tentati femminicidi delle madri); ma è soprattutto l’articolo 3 che nell’ambito della violenza domestica assume un particolare valore.
L’articolo 3 è a baluardo dei diritti delle persone a non subire trattamenti inumani e degradanti, e la Corte lo richiama nel suo carattere positivo ovvero nel non impedire a terzi (mariti e padri violenti) di assumere comportamenti inumani, degradanti o svilenti che ledono la salute e la dignità delle persone sia adulte che minori. L’articolo 3, viene specificato inoltre, non si riferisce solo ad un maltrattamento che sia:“ ascrivibile alla lesione fisica, ma anche alla lesione psichica e ai comportamenti che generano angoscia” (De Giorgi).
L’articolo 3 sarebbe di grande interesse nella sua estensione a quei casi - di donne vittime di violenza e dei loro figli - che patiscono direttamente dallo stato (non solo come mancata diligenza) e per esso dai tribunali, comportamenti degradanti umilianti, quando vengono decise e applicate misure afflittive e costrittive (come gli allontanamenti coattivi da una madre diagnosticata alienante per costrutti ascientifici) definite, per altro, dalla stessa Cassazione (9691/22) prassi “fuori dello stato di diritto”.
Altro articolo della Convenzione CEDU, implicato nel caso Talpis, è l’articolo 14 contro ogni discriminazione. Sulla violazione dell’articolo 14 della Convenzione (divieto di discriminazione, appunto) la Corte ha ravvisato in caso di violenza domestica che: “il venir meno - anche involontario - di uno Stato all’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche si traduce in una violazione del loro diritto a un’uguale protezione di fronte alla legge ed è, pertanto, intrinsecamente discriminatorio”.
Infine nell’ultimo caso di IM, la violazione dell’articolo richiamato è quello che riguarda il rispetto della vita familiare (con tutte le sue implicazioni per le vittime di violenza prima citate in nota 5), e si rimette al centro della valutazione la misinterpretazione, da parte dei tribunali italiani, del diritto alla bigenitorialità che viene assolutamente ridisegnato come recessivo rispetto ai diritti e agli interessi primari dei minori (alla salute, alla sicurezza, alla vita, nonché alla loro tutela da parte delle istituzioni).
Nel caso in esame si censura la mancata attenzione alla violenza domestica derubricata a conflitto, e la decisione del tribunale di costringere i minori a incontrare un padre i cui comportamenti provocano in loro disagio e li inducono al rifiuto degli incontri. Ruotano, intorno a questo riesame del c.d. diritto alla bigenitorialità, la censura del costrutto della PAS e le accuse alle madri protettive e tutelanti (nei casi di violenza domestica) di essere al contrario ostacolanti.
Altro dato significativo è che la Corte non richiede, per asserire la presenza di violenza domestica, che vi sia un giudizio giunto al 3° grado secondo la logica garantista del favor rei. E’ di tutta evidenza che la Corte assume il punto di vista dell’interesse superiore del minore (favor pueri), e dell’interesse delle vittime anche adulte, alle quali è doveroso fornire tutela anche prima che vi sia una condanna o che vi sia prova della violenza ‘oltre ogni ragionevole dubbio’. Infine nella sentenza vi è una piena adesione alle censure del Grevio all’Italia su questi temi in continuità con le indicazioni della Convenzione di Istanbul.
Emerge anche da queste critiche e censure che il corpo della magistratura sia scarsamente preparata e formata per applicare correttamente principi e articoli della Convezione di Istanbul, così come emerso anche da una delle relazioni d’inchiesta della Commissione femminicidio al Senato della scorsa legislatura(7).
In definitiva queste sentenze molto articolate e discusse sul tema della violenza domestica costituiscono, per i tribunali italiani, un pesante monito a intraprendere la strada dell’appropriatezza delle valutazioni sia intorno al rischio che le donne corrono nei rapporti con i loro partner violenti; sia intorno a questioni che riguardano la sicurezza e la salute dei minori quando si decide delle visite con padri denunciati per violenza o del loro affido a questi stessi padri, accusando le madri di essere inadeguate per non aver agevolato il rapporto padre-figli.
1. Reale E. (2017) La PAS e la vittimizzazione secondaria approdano alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. In ( a cura di G. Oberto, G. Cassano) "I diritti personali della famiglia in crisi, Giuffrè, Milano.
2. Dall’intervista all’avvocata Concetta Carrano, che ha patrocinato il ricorso alla CEDU
3. GREVIO Baseline Evaluation Report Italy, 13 January 2020. https://rm.coe.int/grevio-report-italy-first-baseline-evaluation/168099724e
4. Relazione "Sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l'affidamento e la responsabilità genitoriale". https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1349605.pdf
5. SI veda la lettura delle varie implicazioni dell’art. 8, come redatta dalla stessa Cedu: “Guida all’articolo 8
della Convenzione europea sui diritti dell’uomo” https://www.echr.coe.int/documents/guide_art_8_ita.pdf
“73. La Corte ha stabilito da lungo tempo che lo Stato ha la responsabilità positiva di proteggere le persone dalla violenza di terzi. Ciò vale in particolare nei casi che coinvolgono minori e vittime della violenza domestica. Benché in tali casi vi siano spesso violazioni degli articoli 2 e 3, è applicato anche l’articolo 8, in quanto la violenza minaccia l’integrità fisica e il diritto alla vita privata. In particolare, ai sensi dell’articolo 8, gli Stati hanno il dovere di proteggere l’integrità fisica e morale della persona dagli atti di altri”
6. L’articolo 55 della convenzione di Istanbul afferma: “ Le Parti si accertano che le indagini e i procedimenti penali per i reati stabiliti ai sensi degli articoli 35, 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione non dipendano interamente da una segnalazione o da una denuncia da parte della vittima e che il procedimento possa continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritirare la denuncia”.
7. Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1300287.pdf
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