Una breve riflessione sul nuovo stile che traspare da questa memorabile pronuncia che risponde con un fragoroso si alla domanda di risarcibilità del danno da morte, trasmissibile agli eredi, ed al danno esistenziale, come altri contributi che precedono il presente hanno correttamente sostenuto su questa stessa rivista.
Non credo di affrontare un tabù se rifletto sulle riserve che molte persone comuni esprimono nei nostri confronti, nei confronti del mondo del diritto. Dell'utilità del ruolo del giurista a volte è pure lecito dubitare se si osservano alcuni processi spettacolarizzati a “Porta a Porta” piuttosto che parafrasati a “Forum”. A tali sensazioni, a volte superficiali, ma dotate pure di fondamento si associano quelle che derivano dalla presa d'atto dei formalismi del diritto, spesse volte in grado di vincerne la sostanza: non c'entra nulla la giustizia se è trascorso un giorno in più, se è spirato il termine per appellare, per avanzare un'istanza istruttoria, non importa a nessuno sapere che un disgraziato aveva però “ragione”.
E che dire delle terribili contraddizioni che si ricavano dal confronto tra il comune sentire e la voce imperiosa del legislatore? Ricordo, da studente, le prime riflessioni che muovevano dalla lettura del codice penale affrontata come il canovaccio di un film giallo, tra curiosità, falsi miti, aspettative di giustizia. Sorpreso da alcune asimmetrie che notavo tra la gravità -secondo il mio sentire- di una condotta ed il trattamento che vi trovava luogo nel codice penale, decisi di fare un esperimento: elaborai un elenco dei reati che ritenevo essere più gravi, nel sentimento comune, e quindi la confrontai con la classifica del legislatore, che si desume invece dalla gravità delle pene edittali previste nel codice sostanziale. Trovò quindi conferma l'asimmetria, lo scollamento tra il comune sentire e quello del legislatore, la mancanza apparente di coerenza, proporzionalità, difesa della persona offesa e danneggiata dal reato, che non assurge nemmeno a soggetto del processo penale. Ne fui tanto sconfortato che decisi non essere quello il “mio” processo.
Ebbene, lo sconforto che coglie chi non sia del settore, ma anche i giuristi meno maliziosi -o se preferite idealisti- di altri, può trovare consolazione in questa pronuncia dove si discorre di vita e di morte, si gettano le basi per un diritto che si occupa dei diritti della persona e che non è ripiegato su sé stesso, orgoglioso del proprio cinismo, dell'elevazione della formalità a ruolo antagonista della sostanza. Sentimenti questi, sgradevoli, che non possiamo nasconderci essere cercati con assiduità da alcuni giuristi, fieri del doppio binario nel quale cercano riscatto alla loro incapacità di rincorrere il vero, di amare il giusto. Quanti ne ho conosciuti e riconosciuti nell'atto di godere della vittoria di misura su chi aveva invece ragione, orgogliosi nell'enunciare disprezzo per il giusto e ammirazione per la strumentalità delle regole, soprattutto processuali, in grado di far loro conseguire un risultato non contra ius, ma contra homines.
C'è un piglio, nel succedersi degli argomenti utilizzati in questa pronuncia, che non è solo quello del fine giurista, ma pure del buon padre di famiglia, dell'amico fedele. Guardano ai diritti della persona con rinnovato entusiasmo, con quel trasporto che per certuni suona come campanello d'allarme della perdita di rigore scientifico ma che in questa pronuncia-trattato dei diritti è invece carezzevole, presente ma non preponderante, sincero ma mai impudente.
Si pongono un problema che si porrebbe anche l'uomo della strada: è mai possibile che si consideri riparabile la lesione del bene della vita, ma non la sua perdita totale? Può il massimo grado di lesione essere degradato al valore dell'irrilevanza come se non costituisse il compendio delle lesioni gradatamente inferiori? Sembra un discorso tra due anziani benpensanti seduti su una delle rare panchine a Venezia, intenti a discorrere dei massimi sistemi nella sicurezza, rilassante, di non essere ascoltati, tanto è evidente oggigiorno il fastidio che coglie chi noti traccia di buon senso nel discorrere altrui.
L'incedere degli argomenti è ricco, pure nelle sue cento pagine, mai stucchevole, fastidioso come può essere il legalese anche se sfoggiato in poche righe allorché se ne avverta la freddezza, il cinismo, l'orgoglio dell'incomprensibilità e, a volte, pure dell'ingiustizia, perché non è la verità, dicono i sui alfieri, ad essere accertata nel processo, ma solo la verità del processo (“bela roba” affermerebbe Natalino Balasso in uno dei suoi monologhi).
Non è così in questa sentenza: il richiamo delle tesi avversarie è puntuale, equilibrato, consapevole, e l'architettura delle ragioni che depongono invece per il suggerito mutamento d'indirizzo è elaborata con rigore, come nella critica della ragion pura di Kant. L'affermazione del suggerito mutamento è condotta così da rendere la sua contestazione assai ardua: il risultato è ottenuto avendo ben presente quale sarà l'obiezione delle compagnie di assicurazione, vere antagoniste di tale pronunciamento che metteranno in piazza i loro astuti alfieri come sempre hanno fatto. Ma i redattori hanno avuto presente il rischio e cercato, con lungimiranza, di trattare sin da subito le obiezioni maggiormente prevedibili, così da offrire al lettore la corretta impressione di completezza e ragionevolezza degli argomenti adottati.
Credo consista anche in questa architettura premurosa, lungimirante, una delle novità di rilievo, una questione di stile del giurista.
Anche l'attacco, implicito, alle quartine di San Martino è elegante; potrebbe essere accusata la pronuncia in commento di non voler infierire, di nascondersi limiti più gravi di quelli messi in luce, ma anche sotto tale profilo si dimostra matura, capace di guardare lontano, di prendere le distanze con la forza degli argomenti, perché il contrasto polemico non avrebbe giovato ad alcuno.
L'uomo qualsiasi, quello al quale guardano le sentenze, per il quale spesso sono pronunciate, quindi il vero protagonista del diritto, dovrebbe esser grato, come lo siamo noi interpreti, a questo che ci auguriamo possa essere un nuovo corso. In questa sentenza non ci sono solo risposte puntuali a chiosa di un problema, di quello posto dal ricorso, come amerebbero i formalisti, ma c'è il chiaro tentativo d'essere utili, altro imperdonabile difetto -diranno i detrattori- di tale pronuncia.
Eh si perché non c'è di peggio, per i mendicanti delle regole fini a se stesse, che una decisione che sgombri il campo da possibili contestazioni, che sia scritta non solo per regolare il caso sottopostole, ma per evitare altri contenziosi, per ridurre la litigiosità, per spiegare, pure a chi non vuole capire, quanto possa essere elementare ed allo stesso tempo incisivo prendersi cura di chi ci attende.
Ecco, questa sentenza si prende cura della persona, per una volta protagonista.