Cultura, società  -  Redazione P&D  -  23/07/2021

Vaccinarsi o non vaccinarsi. Alcune riflessioni a(l) caldo - Alberto Manzoni

È sempre più fitto e animato, in questi giorni, il dibattito tra quanti sostengono l’utilità di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid19 e quanti invece si dichiarano contrari. Spicca, ancora una volta, la propensione ad affrontare la questione con un approccio ispirato alla “democrazia diretta”, nella quale vale il noto principio “uno vale uno”, a nulla rilevando l’osservazione, fatta ancora alcuni anni or sono da un noto divulgatore scientifico televisivo, che “la velocità della luce non si decide per alzata di mano”.

Sembra di fatto preclusa dal dibattito in corso qualsiasi attenzione agli aspetti tecnici (quanto meno virologici, epidemiologici, economici in senso ampio) e ci si imita ad esprimere con veemenza opinioni personali, “politiche”, presentandole come verità assolute nonché alla stregua di informazioni certe, la cui fondatezza deriva direttamente dall’autorevolezza (reale o auto-attribuita) della fonte.

Non è intenzione, in questa sede, di addentrarsi nella disamina della miriade di pubblicazioni scientifiche che, sul Covid-19 e sulla relativa vaccinazione, da circa un anno vengono pubblicate a tamburo battente: chi scrive è un tecnico del settore.

Da lettore della realtà circostante, però, alcune recenti dichiarazioni hanno sollecitato alcune riflessioni, non “tecniche” (nell’accezione poc’anzi delineata) ma di carattere sociologico e, perché no, etico.

Due, in particolare, le recenti affermazioni che hanno offerto alcuni spunti di meditazione. Prima affermazione, lapidaria, resa da un noto parlamentare: “non ha senso vaccinare gli infraquarantenni poiché per loro la letalità è bassa”; la seconda, ripetuta più volte in questi ultimi giorni, sull’uso del cosiddetto “green pass” (che della conclusione del ciclo vaccinale è la diretta conseguenza amministrativa): “subordinare l’accesso a bar, ristoranti, cinema e teatri al possesso del c.d. “green pass” è una illegittima compressione delle libertà individuali nonché una follia sotto il profilo economico”.

Parallelamente a queste due affermazioni, rese da noti esponenti politici nazionali, in Francia, nazione confinante con l’Italia e come questa facente parte dell’Unione Europea, venivano adottate misure più restrittive all’accesso in taluni luoghi pubblica (non solo i grandi eventi, ma anche la mera frequentazione di bar e ristoranti al chiuso), subordinandone la fruibilità al possesso del green pass: c’è chi ha prospettato, a questo proposito, una dittatura sanitaria nonché un’inconcepibile ed illegittima compressione delle libertà individuali.

La riflessione proposta al lettore non attiene, come già detto, agli aspetti tecnico-sanitari, ma attiene ad una prospettazione più culturale e sociale. In particolare, ci si chiede quali concetti di individuo e di collettività possieda, e conseguentemente trasmetta, chi ritiene inutile vaccinare gli infraquarantenni perché, tra loro, il tasso di letalità è basso. L’impressione, netta quanto sgradevole, è che si consideri l’individuo una sorta di monade, avulsa da un qualsiasi contesto sociale e relazionale: sottolineando il basso tasso di letalità del Covid-19 tra gli infraquarantenni (dando per scontato che questa informazione sia corretta: sul punto, in questa sede, sia pure obtorto collo possiamo fare “atto di fede”) viene considerato il solo punto di vista del singolo soggetto, che si presume poco rischi dal contrarre l’infezione e per il quale, conseguentemente, il bilanciamento tra rischio di letalità in caso di contrazione dell’infezione e rischio di effetti collaterali da vaccinazione propenderebbe a vantaggio della prima opzione. Non sembrerebbe invece essere stato preso in considerazione il fatto, inequivocabile quanto oggettivo, che “quel” singolo infraquarantenne ben difficilmente conduce un’esistenza eremitica: quasi certamente entrerà a contatto con altre persone, in numero più o meno rilevante; verosimilmente non tutti saranno, al suo pari, infraquarantenni; allo stato attuale della campagna vaccinale, inoltre, i suoi contatti saranno, statisticamente parlando, non vaccinati (e quindi esposti al rischio di infezione) in un caso su due. Ci si potrebbe quindi chiedere se il nostro infraquarantenne, nel valutare il basso rischio di letalità per sé stesso, ai fini della scelta di non sottoporsi a vaccinazione abbia preso in considerazione il rischio di esporre sé stesso ed altri al rischio di contrarre od anche di trasmettere l’infezione, al rischio di costituire un serbatoio per il virus, al rischio, in altri termini, che la sua valutazione autocentrata possa costituire un pericolo, se non addirittura un danno, per la collettività nella quale è inserito e dalla quale la sua sfera esistenziale, nell’arco della sua quasi quarantennale esistenza, ha tratto giovamento (quanto meno in termini di socialità, di accesso all’istruzione, di possibilità di trasporto, di sicurezza pubblica, di potenziale accesso alle cure sanitarie, giusto per fare un elenco minimal-essenzialista).

Altra riflessione, collegata alla precedente, scaturisce dalla seconda statuizione. Si sostiene che subordinare l’accesso a determinati luoghi associativi e aggregativi al possesso del c.d. “green pass” sia una illegittima compressione delle libertà individuali. Anche in questo caso, sorge un dubbio sul concetto di “libertà individuale” sottostante a questa affermazione: la libertà del singolo individuo è un’entità assoluta, incoercibile in qualsiasi circostanza, ovvero all’interno di una collettività non può non tener conto dei diritti di pari rango degli altri consociati? In altre parole, se è vero che l’adesione ad una campagna vaccinale finalizzata a contrastare una pandemia è una scelta personale che non conosce vincoli né coercizioni se non per motivi specifici previsti dalle norme ordinarie o straordinarie (si veda, in particolare, l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario), è anche vero che la tutela della salute della totalità dei consociati, e di ciascuno di loro, è di pari valore: presumere che dalla libertà individuale di vaccinarsi o meno derivi necessariamente il “dovere” (in senso etico, non giuridico) da parte degli altri consociati di subire il comportamento (nonché di assumersi le conseguenze, individuali e collettive, di questa scelta) di chi liberamente decide di non vaccinarsi sembra avere alle spalle una concezione di assoluta e incoercibile primazia dei propri diritti, a nulla rilevando i diritti (almeno di pari rango) di tutela della salute degli altri consociati.

Nell’uno e nell’altro caso, le opinioni poc’anzi richiamate sembrano ricondursi ad una weltanschauung secondo la quale i propri diritti individuali prevaricano e soverchiano i diritti di pari rango degli altri consociati, i quali sembrano essere visti non già come membri paritari di una stessa collettività, ed in quanto tali con pari diritti e pari doveri (in primis quello della solidarietà, di cui all’art. 2 della Costituzione repubblicana) ma come meri ostacoli al raggiungimento dei propri obiettivi e dell’appagamento delle proprie esigenze individuali (di spostamento, di socializzazione, ricreative e quant’altro), a nulla rilevando le altrui esigenze e gli altrui diritti, in primis quello di tutelare la propria salute e di non essere contagiati in conseguenza delle scelte altrui.




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