Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  16/01/2024

Silvia Rossi, trentenne guarita dall'anoressia

“DA SOLA NON CE L’AVREI FATTA. ALLE MIE DOTTORESSE DICEVO CHE ANCHE LA SALIVA INGRASSA”

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Il drammatico racconto della ragazza che è stata a lungo ricoverata a Todi. “Il fiocco viola è la bandiera di noi sopravvissute: non chiudete i centri per i disturbi alimentari, a rischio c’è la vita di tanti adolescenti”

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«Negli ultimi giorni prima del ricovero avevo addirittura paura di ingoiare la saliva per timore di prendere peso. Non bevevo nemmeno più: ero convinta che anche un sorso d’acqua mi avrebbe fatto ingrassare. Sono alta 1,70 e pesavo 38 chili, correvo per chilometri per consumare calorie, non mi fermavo mai, spingevo, spingevo, ma il mio cuore batteva sempre più lentamente, se sono viva lo devo a chi mi ha curata, a chi mi ha impedito di scomparire».

 

Ha festeggiato dieci anni di guarigione Silvia Rossi, 30 anni, biologa che tra pochi giorni farà il concorso per insegnare alle scuole superiori, vive vicino a Perugia, tra le mani, spesso, mostra il fiocchetto lilla simbolo della lotta ai disturbi alimentari: «È la bandiera di noi sopravvissute, chiudere i centri è un delitto, di anoressia si muore, ma con le cure giuste si torna a vivere. Ricordo la fatica di mangiare e lo sguardo delle mie terapeute di “Palazzo Francisci” durante quei pasti in cui ad ogni pezzetto di cibo mi sembrava di scalare una montagna: “Silvia ce la farai, crediamo in te” dicevano i loro occhi”. Così è stato».

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Silvia, c’è un momento, un giorno, in cui pensa che tutto sia cominciato?

«Sì, ero a tavola con i miei genitori, una cena di famiglia, avevo 16 anni e decisi di non finire il piatto di patate al forno che avevo davanti. Ne ho anche lanciati diversi a terra di piatti pieni di cibo quando i miei cercavano di impormi di mangiare. Ma naturalmente quel piatto di patate era soltanto un simbolo».

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Un simbolo di che cosa?

«Del dolore della mia vita, del fatto che in famiglia nessuno si accorgesse di me, bastava che fossi una brava figlia e poi scomparivo. Mia madre spesso diceva: “Silvia è tranquilla, non dà nessun fastidio”. Fastidio? Una bambina? Tutto era apparentemente normale, la verità invece è che nessuno di noi parlava. I miei erano presi dal lavoro, abbiamo un’azienda agricola, io mi sentivo grassa, alla scuola di danza mi dicevano che ero pesante, avevo l’infelicità degli adolescenti, studiavo come una matta per portare a casa buoni voti con il risultato che a scuola mi isolavano chiamandomi secchiona. Ma non sapevo con chi condividere quella sofferenza».

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Sembrano però i problemi di tante adolescenti, Silvia.

«Dietro molte storie di disturbi alimentari ci sono traumi, abusi. Io invece mi sono ammalata per solitudine, ho chiesto al mio corpo di diventare invisibile per essere vista. E poi c’è il senso di onnipotenza».

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Sfidarsi per sentire di poter governare i propri impulsi? Di essere più forti degli altri che hanno bisogno di nutrirsi?

«Ogni giorno mi imponevo di rinunciare a qualcosa di più. Prima è mezzo piatto di patate poi è la porzione intera, prima è il pane, poi è anche la pasta, prima è mezza mela, poi è tutta la mela, prima sono dieci chilometri di corsa, poi diventano quindici, venti. E ad ogni rinuncia mi sentivo più forte, governavo il mio corpo, ero la prima nello studio, non mi fermavo mai, noi viviamo in campagna, uscivo, non mangiavo e correvo. Sembra assurdo ma credevo di essere felice e potente. Si chiama luna di miele della malattia».

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I suoi genitori quando si sono accorti della situazione?

«Dopo molto tempo, quando ormai controllavo ossessivamente il cibo. Non ho mai vomitato, perché da quel poco che mangiavo cercavo di liberarmi muovendomi ininterrottamente, anche dentro casa, addirittura saltavo da una mattonella altra, secondo un mio disegno ossessivo per consumare più energie. Infatti uno degli esercizi che ho dovuto osservare quando poi sono stata ricoverata a “Palazzo Francisci” è stato quello di stare ferma e seduta. All’inizio cercavo di fare ginnastica di notte di nascosto. Addirittura ho dovuto fare una riabilitazione per ricominciare a fare le scale come una persona normale, senza saltare gli scalini due a due per sudare».

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Lei dieci anni fa viene ricoverata a “Palazzo Francisci” a Todi, centro pubblico per i disturbi alimentari fondato dalla psichiatra Laura Dalla Ragione,

«E mi hanno salvata. Per questo dico che i centri sono vitali, chiuderli è da incoscienti, spero che quei fondi vengano ripristinati, nessuno si salva da solo. Ho passato un anno lì dentro, ero veramente grave, è stata una risalita lentissima, terapia alimentare e psicoterapia, all’inizio volevo scappare, poi, invece, ho piano piano risentito il sapore della vita. Ce l’ho fatta, oggi per me il cibo è tornato ad essere nutrimento e piacere, mi sono laureata, ho avuto una storia d’amore, spero di diventare una brava insegnante. Se sarà necessario racconterò ai ragazzi la mia storia, perché possano, magari, chiedere aiuto».

 




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