Particolarmente sofferte le decisioni nel caso in cui il paziente dimenticato, o messo da un canto, fosse persona affetta da turbe psichiche.
Un ricorso a misure troppo severe, nella contenzione o nella sorveglianza, minaccerebbe di frustrare, sulla carta, i risvolti di terapie ispirate a valori di libertà; l’opposto indirizzo, a livello materiale come farmacologico, potrebbe comportare serie insidie, quando attuato imprudentemente, rispetto alla vita e alla sicurezza dell’interessato o dei terzi.
Casi concreti, negli ultimi anni? Un depresso grave bussa, nottetempo, alle porte di un Centro di salute mentale, domanda aiuto; una psichiatra inesperta non prende sul serio la richiesta dell’uomo, non gli apre l’uscio, l’uomo finirà per uccidersi: condanna. Un’anziana malata di Alzheimer, dopo una festa in un Centro, esce nascosta fra i partecipanti, a notte fonda; sarà ritrovata tre giorni più tardi, assiderata sul prato davanti alla sua ex casa: condanna dell’infermiera, disattenta. Un ventenne portatore di turbe dissociative, tranquillo al momento, ma con seri precedenti, viene lasciato libero di circolare, senza controlli, in una cittadina accanto al Po; una notte rapisce una bambina di tre anni, da una villa, finisce per annegarla nel fiume: assoluzione dei Servizi sociosanitari del Comune.
Uno schizofrenico assai malandato, non più giovane, già autore di un paio di omicidi, prosciolto ogni volta nei processi, accoltella mortalmente, una volta tornato nel capoluogo d’origine, la figlia con cui intratteneva un rapporto incestuoso: condanna in primo e assoluzione in secondo grado, per i Servizi di salute mentale. A un altro infermo di mente, in via di miglioramento, lo psichiatra decide di abbassare, contando sul valore terapeutico di una scelta di “minore dipendenza farmacologica”, la quota giornaliera di neurolettici; il giorno dopo il paziente accoltellerà a morte un infermiere: il sanitario verrà condannato.