Dall’assistenza alla vittima alla testimonianza sul caso
Elvira Reale*, Gabriella Ferrari Bravo*, Rosa Di Matteo**, Caterina Arcidiacono*,
Antonella Bozzaotra*, Ester Ricciardelli*
L’ottica dell’assistenza e della tutela è propria dei servizi pubblici, ad essa aderiscono anche in parte i centri anti-violenza e le associazioni di scopo finanziati dagli enti locali; ma tale funzione assistenziale, secondo le direttive internazionali, non può essere superata e sostituita dalla mission culturale che è propria della storia dei centri anti-violenza, in virtù della quale, a differenza delle istituzioni, essi sono e si sentono liberi di sviluppare un progetto con la donna che prescinda dalle finalità di assistenza e che si ricolleghi al filone dell’autocoscienza, dell’empowerment e dell’autodeterminazione. La confusione che oggi si è generata, tra ottica di servizio e ottica politico-culturale dei centri, deve trovare uno sbocco. Esso non può che essere la centralità della mission politico/culturale dei centri, ovvero il loro rappresentare gli interessi e i diritti delle donne presso le istituzioni e, soprattutto, il loro vigilare su un agire inadeguato delle istituzioni (la così detta vittimizzazione secondaria, stigmatizzata dalla stessa Convenzione di Istanbul, dal Grevio e da altri organismi internazionali, oltre che dalla nostra Commissione d’inchiesta sul femminicidio della scorsa legislatura).
Fulcro essenziale, insostituibile e non delegabile a terzi dell’attività dei centri è quindi la rappresentanza dei diritti delle donne che subiscono violenza: ai centri spetta l’onere di far valere il punto di vista delle donne che devono poter rappresentare, in tutti i luoghi dove si decide della loro vita. Primi fra tutti i tribunali civili e penali, e poi presso tutti i servizi istituzionali con cui una donna - considerata socialmente e giuridicamente (e non psicologicamente) come vittima - s’interfaccia all’inizio del percorso di uscita dalla violenza.
Questa rappresentanza, però, deve poter divenire concreta ed effettiva, ed è pertanto necessario che i centri e le associazioni siano consultati in tutte le procedure che riguardano le donne che si sono rivolte ad essi. La consultazione dei centri/associazioni deve essere prevista, sancita e orientata lungo le direttrici degli effetti, o danni, che la violenza ha determinato sulla vita della donna e su quella dei suoi figli. Essa si attua con la deposizione di testimonianze, memorie, relazioni nella fase istruttoria sia nel civile che nel penale; esse vanno acquisite tra le fonti di prova nel settore giudiziario sia del contesto della violenza sia dei suoi effetti su donne e minori. Il giudice istruttore (o il PM nel penale) dovrebbe ammetterle come opportune allegazioni, in quanto redatte da esperti, e quindi da valutare alla stregua di altre fonti di prova; nel caso poi disponga una consulenza tecnica, la conoscenza di tali atti dovrebbe essere trasferita a un CTU ( o il CT del PM).
Ripercorriamo quindi gli ultimi passi che hanno portato al protagonismo dei centri anti-violenza e delle associazioni non governative nella prevenzione e nel contrasto della violenza contro le donne.
La Convenzione di Istanbul ha precisato nel 2011 il ruolo dei centri anti-violenza parlandone sotto due aspetti: come organizzazioni non governative/associazioni della società civile e come servizi specializzati, ambedue facenti parti delle politiche statali di programmazione, protezione e prevenzione nei confronti della violenza.
Si riportano nel riquadro gli articoli che qui ci interessano.
Capitolo II – Politiche integrate e raccolta dei dati
Articolo 7 – Politiche globali e coordinate
3. Le misure adottate in virtù del presente articolo devono coinvolgere, ove necessario, tutti i soggetti pertinenti, quali le agenzie governative, i parlamenti e le autorità nazionali, regionali e locali, le istituzioni nazionali deputate alla tutela dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.
Articolo 8 – Risorse finanziarie
La Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compresi quelli realizzati dalle ONG e dalla società civile
Articolo 9 – Organizzazioni non governative e società civile
Le Parti riconoscono, incoraggiano e sostengono a tutti i livelli il lavoro delle ONG pertinenti e delle associazioni della società civile attive nella lotta alla violenza contro le donne e instaurano un’efficace cooperazione con tali organizzazioni.
Capitolo III – Prevenzione
Art. 12 obblighi generali
2.Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per impedire ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione commessa da qualsiasi persona fisica o giuridica
Articolo 13 – Sensibilizzazione
1 Le Parti promuovono o mettono in atto, regolarmente e a ogni livello, delle campagne o dei programmi di sensibilizzazione, ivi compreso in cooperazione con le istituzioni nazionali per i diritti umani e gli organismi competenti in materia di uguaglianza, la società civile e le ONG, tra cui in particolare le organizzazioni femminili, se necessario, per aumentare la consapevolezza e la comprensione da parte del vasto pubblico delle varie manifestazioni di tutte le forme di violenza oggetto della presente Convenzione e delle loro conseguenze sui bambini, nonché della necessità di prevenirle.
Capitolo IV – Protezione e sostegno
Art. 18 obblighi generali
2) Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie, conformemente al loro diritto interno, per garantire che esistano adeguati meccanismi di cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti, comprese le autorità giudiziarie, i pubblici ministeri, le autorità incaricate dell’applicazione della legge, le autorità locali e regionali le organizzazioni non governative e le altre organizzazioni o entità competenti, al fine di proteggere e sostenere le vittime e i testimoni di ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compreso riferendosi ai servizi di supporto generali e specializzati di cui agli articoli 20 e 22 della presente Convenzione.
Articolo 22 – Servizi di supporto specializzati
1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per fornire o, se del caso, predisporre, secondo una ripartizione geografica appropriata, dei servizi di supporto immediato specializzati, nel breve e lungo periodo, per ogni vittima di un qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione.
2 Le Parti forniscono o predispongono dei servizi di supporto specializzati per tutte le donne vittime di violenza e i loro bambini.
Dal rapporto esplicativo della convenzione si legge a proposito della distinzione tra servizi generali e specializzati:
“125. Nell’ambito della fornitura di servizi alle vittime, deve essere fatta una distinzione tra servizi di supporto generali e specializzati. I servizi di supporto generali sono quelli offerti dal settore pubblico, quali: servizi sociali, sanitari e per l’impiego; si tratta di servizi a lungo termine non esclusivamente pensati per le vittime di violenza ma per il vasto pubblico. Per contro, i servizi di supporto specialistici sono quelli che forniscono supporto ed assistenza ad hoc, sulla base delle esigenze, spesso immediate, delle vittime di determinate forme di violenza nei confronti delle donne e di violenza domestica; si tratta di servizi non destinati al vasto pubblico. Se da un lato i servizi di supporto generali sono forniti o finanziati dal settore pubblico, quelli specializzati sono per la maggior parte offerti dalle ONG”.
“Questi servizi, a loro volta, dovranno prendersi carico della vittima, fornendo il supporto necessario: assistenza medica, raccolta di prove forensi se necessario, consulenza legale e psicologica, e aiutando la vittima a intraprendere il passo successivo che spesso prevede il ricorso all’autorità giudiziaria. E’ importante notare che questo obbligo non è limitato alla gestione delle vittime ma anche dei testimoni, tenendo in particolare considerazione i bambini testimoni di atti di violenza”.
ART. 55 COMMA 2: “Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire, conformemente alle condizioni previste dal loro diritto interno, la possibilità per le organizzazioni governative e non governative e per i consulenti specializzati nella lotta alla violenza domestica di assistere e/o di sostenere le vittime, su loro richiesta, nel corso delle indagini e dei procedimenti giudiziari relativi ai reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione”.
La Raccomandazione n. 35 della Cedaw - Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women, UN - nel 2017 rinforza quanto statuito dalla Convenzione di Istanbul e raccomanda agli Stati la creazione/ implementazione di servizi specializzati per le vittime di violenza e di condotte che non determinino pregiudizio, compreso l’omissione di tutela.
Si precisa nella Raccomandazione che i diritti delle donne devono essere presi in considerazione quando i presunti autori avanzano pretese sulla custodia dei figli: “I diritti o le pretese degli autori o presunti autori del reato, durante o dopo il procedimento giudiziario, in particolare per quanto riguarda la proprietà, la tutela della privacy, la custodia dei figli, il diritto di visita o di contatto con loro, dovranno essere determinati tenendo presenti i diritti fondamentali delle donne e dei bambini alla vita e alla loro integrità fisica, sessuale e psicologica e cercando di preservare l’interesse superiore del bambino”
Andando indietro, nel 2006 abbiamo l’indicazione del ruolo che devono giocare le organizzazioni non governative nel contrasto alla violenza di genere contro le donne: “ The role of the non-governmental sector in focusing public attention on the situation of victims should be recognised, promoted and supported ”.
Dall’analisi fin qui svolta emerge quindi che la società civile e le organizzazioni non governative entrano a pieno titolo nella determinazione delle politiche globali e coordinate contro la violenza, compresa la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la formazione specialistica delle figure professionali. Inoltre costituiscono il perno dei servizi specializzati che hanno la migliore competenza nel decifrare il fenomeno e sostenere le vittime
La vittimizzazione secondaria: cos’è e come si affronta
Per vittimizzazione secondaria si intende il comportamento che non riconosce la violenza ovvero addossa alle donne le responsabilità e le colpe dell'azione violenta, non ascoltando le sue ragioni, non tutelandola e colpendo quindi, in questo modo, anche i minori. Essa è censurata non solo dalla Convenzione di Istanbul (agli artt. 15 e 18), dalla Raccomandazione n. 35 della Cedaw, e dal Grevio, ma anche dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa del 25 ottobre 2012, trasferito in attuazione nel nostro ordinamento con il Decreto Legislativo 15 dicembre 2015, n. 212.
Mentre la vittimizzazione primaria fa riferimento al complesso delle conseguenze pregiudizievoli di tipo fisico, psicologico, economico prodotte sulla vittima direttamente dal reato subìto ad opera dell’autore, la vittimizzazione secondaria è l'insieme delle conseguenze negative dal punto di vista emotivo e relazionale, derivanti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni in generale e quello della giustizia penale in particolare.
La vittimizzazione primaria è opera del primo autore, l’uomo violento; la secondaria è opera delle istituzioni quando non tutelano la donna dal protrarsi degli attacchi dell’autore in sede penale o civile ed espongono a ulteriori danni le donne e i loro figli.
La vittimizzazione secondaria e il contrasto ad essa emerge come abbiamo visto dalla Convenzione di Istanbul agli articoli 15 e 18. Su di essa la Convenzione non dà altre specificazioni, che però possono essere desunte da tutti gli altri articoli centrati sui diritti delle donne nei confronti delle istituzioni, e in particolare dei tribunali. La vittimizzazione secondaria si riferisce ai procedimenti giudiziari che non ne devono essere causa (par. 262 della Relazione esplicativa della Convenzione di Istanbul).
Prima della Convenzione, e nel 2006, troviamo la definizione precisa di vittimizzazione secondaria nella Raccomandazione del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa: “Secondary victimization has been defined as the victimisation that occurs not as a direct result of the criminal act but through the response of institutions and individuals to the victim». E ancora : "Victims should be protected as far as possible from secondary victimization”
Le competenze che si richiedono al personale dei servizi che si occupano delle vittime sono:
“- awareness of the negative effects of crime on victims;
- skills and knowledge required to assist victims;
- awareness of the risk of causing secondary victimisation and the skills to prevent this”.
Anche l’ EIGE- European Institute for Gender Equality, dà una definizione completa della vittimizzazione secondaria: “Secondary victimisation occurs when the victim suffers further harm not as a direct result of the criminal act but due to the manner in which institutions and other individuals deal with the victim. Secondary victimisation may be caused, for instance, by repeated exposure of the victim to the perpetrator, repeated interrogation about the same facts, the use of inappropriate language or insensitive comments made by all those who come into contact with victims”
Anche le Nazioni Unite nella Risoluzione adottata dall’assemblea Generale nel marzo 2011 (n.65/228) definiscono cosa sia la vittimizzazione secondaria: “Secondary victimization is victimization that occurs not as a direct result of a criminal act but through the inadequate response of institutions and individuals to the victim”.
Nel più recente rapporto di Malin Björk e Diana Riba i Giner al Parlamento Europeo del 22.7. 2021 (A9-0249/2021) si legge nell’ elencazione delle varie forme di violenza basate sul genere anche: “institutional violence, second order violence, vicarious violence and secondary victimisation”.
Chi deve occuparsi di prevenire e contrastare la vittimizzazione secondaria?
Prima di tutto sono le stesse istituzioni che devono provvedere a non cadere in questa secondaria forma di vittimizzazione, operando in modo proattivo e cioè evitando tutte le prassi che vanno nella direzione di colpevolizzare le donne, non credere alle loro parole, addebitare loro la responsabilità della violenza, operare secondo pregiudizio e non secondo giudizio ecc. ecc.
La Direttiva 2012/29/UE ripropone la censura della vittimizzazione secondaria: “Le vittime di reato dovrebbero essere protette dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall'intimidazione e dalle ritorsioni, dovrebbero ricevere adeguata assistenza per facilitarne il recupero e dovrebbe essere garantito loro un adeguato accesso alla giustizia”.
Ancora: “Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di un'assistenza e protezione speciali a motivo dell'elevato rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza”.
Nella premessa n. 63 della stessa Direttiva Europea leggiamo: “Al fine di incoraggiare e agevolare la segnalazione di reati e di permettere alle vittime di rompere il ciclo della vittimizzazione ripetuta, è essenziale che siano a loro disposizione servizi di sostegno affidabili e che le autorità competenti siano pronte a rispondere alle loro segnalazioni in modo rispettoso, sensibile, professionale e non discriminatorio. Ciò potrebbe accrescere la fiducia delle vittime nei sistemi di giustizia penale degli Stati membri e ridurre il numero dei reati non denunciati. Gli operatori preposti a raccogliere denunce di reato presentate da vittime dovrebbero essere adeguatamente preparati ad agevolare la segnalazione di reati, e dovrebbero essere poste in essere misure che consentano a parti terze, comprese le organizzazioni della società civile, di effettuare le segnalazioni. Dovrebbe essere possibile avvalersi di tecnologie di comunicazione, come la posta elettronica, videoregistrazioni o moduli elettronici in linea per la presentazione delle denunce”.
Nella Direttiva Europea si fa riferimento alla vittimizzazione secondaria come ripetuta, da parte dell’autore, ma che trova possibilità di estrinsecarsi laddove le istituzioni non agiscono proattivamente contro questo rischio, là dove invece, come ad esempio può accadere nei tribunali civili, lo acuiscono mettendo in atto procedure costrittive di condivisione delle responsabilità genitoriali.
Lo stato di attuazione della direttiva nei vari paesi è oggetto della Relazione della Commissione Europea al Parlamento dalla quale emerge uno stato dell’arte con più ombre che luci.
In particolare la censura si appunta sulla inapplicazione dell’articolo 22: “L'articolo 22 è di particolare importanza in quanto sancisce il diritto per ogni vittima alla valutazione individuale delle proprie esigenze di protezione. La finalità è quella di determinare se una vittima è particolarmente esposta al rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e/o di ritorsioni, e di proteggerla in virtù delle sue specifiche esigenze. In diversi Stati membri l'obbligo di introdurre tale valutazione non è attuato oppure lo è solo in parte. Ciò si ripercuote sulla conformità complessiva alle disposizioni sulle misure di protezione specifica di cui all'articolo 23 e all'articolo 24 che si basano sulla valutazione individuale.”.
Nel 2019, specificamente per l’Italia, queste stesse valutazioni sono condivise dal GREVIO , l’organo di monitoraggio della convenzione di Istanbul, che esprime la preoccupazione verso la tendenza del sistema in vigore di esporre alla vittimizzazione secondaria le madri che, denunciando la violenza, tentano di proteggere i propri bambini. Nel riquadro sottostante quanto esplicitato dal GREVIO.
“Il GREVIO esprime la propria preoccupazione verso la tendenza del sistema in vigore di esporre alla vittimizzazione secondaria le madri che, denunciando la violenza, tentano di proteggere i propri bambini.” (pag.13)
Inoltre, le ONG costituite da donne hanno portato all'attenzione del GREVIO il fatto che una formazione inadeguata può far sì che il personale dei servizi generali sia portatore di un atteggiamento culturale che mette in discussione la credibilità delle vittime e le espone alla vittimizzazione secondaria. (pag. 54)
Para 161. Come illustrato nel prosieguo del presente rapporto, nella sezione dedicata all’analisi delle misure adottate per attuare l’Articolo 31 della Convenzione, vi è una tendenza che espone le madri ed i bambini ad un rischio di ri-traumatizzazione e di vittimizzazione secondaria, come nei casi in cui i bambini vengono separati dalle madri e collocati presso famiglie affidatarie o in case famiglia. Inoltre, le ONG di donne e le ricercatrici hanno richiamato l'attenzione del GREVIO sul fatto che molti assistenti sociali non ricevono adeguata formazione. Senza le competenze professionali necessarie, essi si sentono impreparati e “sopraffatti” dalla responsabilità di gestire situazioni di violenza e di consigliare la scelta migliore.
La vittimizzazione secondaria si verifica quando la vittima subisce ulteriori danni non più come conseguenza diretta dell’atto criminale ma a causa del modo in cui le istituzioni e altri individui trattano la vittima. La vittimizzazione secondaria può essere causata, ad esempio, dalla ripetuta esposizione della vittima all'autore del reato, da ripetuti interrogatori sugli stessi fatti, dall'uso di un linguaggio inappropriato o da commenti insensibili da parte di tutti coloro che entrano in contatto con le vittime.
Para. 181. Il GREVIO esprime particolare preoccupazione sulle informazioni fornite dalle ONG secondo cui il meccanismo in vigore, piuttosto che permettere la protezione delle vittime e dei loro bambini, “si ritorce contro” le madri che tentano di proteggere i loro bambini denunciando la violenza e le espone ad una vittimizzazione secondaria.
Para. 186. il GREVIO sottolinea come la sicurezza del genitore non violento e del bambino debbano essere un elemento centrale nel decidere nel miglior interesse del bambino, per gli accordi sull'affidamento e le visite. Per quanto riguarda l’ultimo punto, il paragrafo 2 dell’Articolo 31 della Convenzione richiede che l'esercizio dei diritti di visita e di affidamento non metta a repentaglio i diritti e la sicurezza della vittima o del bambino. Quest’obbligo deriva dalla presa di coscienza che per molte vittime ed i loro bambini, rispettare le ordinanze di applicazione del diritto di visita può rappresentare un grave rischio alla loro sicurezza, poiché spesso significa incontrare l'autore della violenza faccia a faccia e questo fattore può contribuire a provocare gravi episodi di violenza, compreso l’omicidio della donna e/o del bambino”.
Para. 187. In generale, il GREVIO teme che le difficoltà nell'adempiere i requisiti dell’Articolo 31 possa essere dovuta all’introduzione di una riforma giuridica sull'affidamento condiviso che non è stata in grado di valutare attentamente le costanti disuguaglianze tra donne e uomini e gli alti tassi di esposizione alla violenza di donne e bambini, nonché i rischi della violenza post-separazione.
Para. 209. “Le donne ed i bambini sono stati incolpati per le azioni degli autori di violenza e sono stati oggetto di una vittimizzazione secondaria, dato che il modello di potere e controllo del perpetratore è proseguito. Le considerazioni relative al “miglior interesse” mettono in primo piano il mantenimento del rapporto perpetratore/figlio, e questo significa che è stata data la priorità ai “diritti del trasgressore” rispetto alla sicurezza della vittima”.
Nel 2022 il tema della vittimizzazione secondaria è oggetto di una approfondita indagine quantitativa e qualitativa della Commissione d’inchiesta al Senato sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere della scorsa legislatura. La relazione licenziata nel maggio 2022 offre un esauriente panorama delle distorsioni del settore giudiziario soffocato da pregiudizi e mancanza di formazione adeguata. La Commissione al tempo stesso in un’altra relazione mette il focus sul ruolo imprescindibile dei centri anti-violenza nel contrasto alla violenza maschile contro le donne e alla necessità che le politiche sulla violenza siano coordinate e integrate con l’esperienza e le attività dei centri anti-violenza.
Infine, sulla vittimizzazione secondaria interviene la CEDU. La CEDU, infatti, dal 2021 ha censurato l’Italia per una serie di casi di vittimizzazione secondaria a proposito della mancata protezione delle vittime. Nel caso J.L. c. Italia del 27 maggio 2021 la CEDU giunge a ritenere una violazione dell’art. 8 della Convenzione da parte di una autorità nazionale nella motivazione di una sentenza, per il linguaggio e le argomentazioni utilizzate, a fronte di un obbligo positivo da parte degli Stati di proteggere la persona da forme di vittimizzazione secondaria.
Anche da ultimo, nel caso di IM e altri contro l’Italia (Sentenza del 10 novembre 2022 - Ricorso n. 25426/20) , la CEDU deplora la vittimizzazione secondaria di una madre e dei figli da parte del tribunale italiano che ha costretto i minori ad incontri con il padre rifiutato e sospeso la genitorialità materna perché ostativa.
Nella nostra legislazione, infine, oltre alla ratifica delle Convenzioni internazionali, abbiamo l’indicazione che i centri anti-violenza e le associazioni di donne sono servizi specializzati di supporto a cui inviare le donne e a cui possono fare riferimento anche gli stessi giudici.
Art. 11 della legge 38/2009: “Le forze dell'ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia del reato di atti persecutori, di cui all'articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 7, hanno l'obbligo di fornire alla vittima stessa tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella zona di residenza della vittima. Le forze dell'ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche provvedono a mettere in contatto la vittima con i centri antiviolenza, qualora ne faccia espressamente richiesta.
Nonché nel codice di procedura civile Art. 473 - bis .70 è espressamente detto che il giudice può rivolgersi ai centri anti violenza e associazioni “Il giudice può altresì disporre, ove occorra, l’intervento dei servizi sociali del territorio, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati”.
CONCLUSIONI
Definito un quadro esaustivo dei rischi che le donne corrono nell’attraversamento del sistema giudiziario e che gli organismi internazionali hanno censurato come vittimizzazione secondaria, le associazioni non governative (associazione di donne, della società civile, di esperte, centri anti-violenza) indicate dalla Convenzione a supporto delle donne devono precisare la loro operatività a sostegno delle donne anche in questo campo, delineando quali siano gli strumenti da adottare nella relazione con il sistema giustizia a sostegno delle vittime.
La vittimizzazione secondaria nei tribunali penali e civili si appunta, come è riconosciuto in sede scientifica, di ricerca e monitoraggio, sulla non credibilità delle vittime, sulla sottovalutazione del loro stato e dei rischi connessi, sulle procedure di affidamento dei bambini che non tengono conto dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul e dei diritti delle vittime e dei loro figli (vittime di violenza assistita).
Dall’articolo 55 comma 2 della Convenzione di Istanbul abbiamo tratto anche i principi secondo i quali le vittime possono essere sostenute dalle associazioni non governative e da consulenti specializzati sulla violenza, quali sono appunto le associazioni esperte e i centri anti-violenza. E dallo stesso articolo (comma 1) leggiamo che le indagini non devono solo partire dalle denunce delle donne ma che: “Le Parti si accertano che le indagini e i procedimenti penali per i reati stabiliti ai sensi degli articoli 35, 36, 37, 38 e 39 della presente Convenzione non dipendano interamente da una segnalazione o da una denuncia da parte della vittima quando il reato è stato commesso in parte o in totalità sul loro territorio, e che il procedimento possa continuare anche se la vittima dovesse ritrattare l’accusa o ritirare la denuncia”.
E’ chiaro allora che vanno coinvolte nella raccolta di documentazioni (elementi probatori) le testimonianze dirette o de relato, delle operatrici di quei centri, delle associazioni esperte in violenza domestica che possono contribuire al chiarimento della posizione delle vittime, all’ identificazione dei loro bisogni individuali, relativi alla messa in atto di misure che possano prevenire la vittimizzazione secondaria.
Riportiamo, al di là della Convezione di Istanbul che parla del coordinamento tra istituzioni governative e non governative, un documento dell’ UNODC delle Nazioni Unite che indica una strada di approfondimento delle prove nel contesto dei crimini in famiglia e, in particolare, nel contesto della violenza domestica:
“Il settore della giustizia penale dovrebbe inoltre promuovere il coinvolgimento di tutti i settori governativi interessati, nonché dei settori rilevanti della società civile per garantire una risposta globale alle vittime di violenza. Ad esempio, le agenzie di sostegno potrebbero collaborare con la polizia e i pubblici ministeri per garantire sostegno alle vittime durante la raccolta delle dichiarazioni e fornire informazioni sullo stato di avanzamento del caso” (The criminal justice sector should also promote the involvement of all relevant government sectors, as well as relevant sectors of civil society to ensure a comprehensive response to victims of violence. For instance, support agencies could work with police and prosecutors to ensure support to victims during statement taking and providing information on the progress of the case) .
E chiaro, infatti, che se il sistema penale rispondesse con più efficacia alle richieste di tutela delle donne, se ne avvantaggerebbe anche il sistema civile, una volta che esso fosse sgombrato dal pregiudizio di base che vede come “buon padre” e affidabile un uomo nel caso in cui egli abbia maltrattato o maltratti la madre, a volte persino quando ciò sia accaduto o accada in presenza dei figli.
Una volta chiarita la necessità di queste collaborazioni, cosa possono offrire - sia alla giustizia penale sia civile - i servizi per le donne vittime di violenza (associazioni, centri anti-violenza, esperte)?
Possono certamente agire come società/ cittadinanza civile su cui incombe sempre il dovere/diritto, quando ne vengono a conoscenza, di segnalare reati al sistema della giustizia; infatti, le donne che si rivolgono ai centri e parlano della violenza non solo parlano di relazioni ma anche di reati. In più, rispetto ad un qualsiasi cittadino, le associazioni anti-violenza, i centri antiviolenza, costituiscono dei testimoni privilegiati della violenza, perché ne conoscono i meccanismi, specifici e diversi da ogni altro tipo di violenza (criminale ad esempio) che non abbia come contenuto la relazione familiare, perché presso di essi riparano le donne chiedendo un aiuto competente e qualificato. A loro spetterà quindi l’onere, con la richiesta/consenso della donna e al di là del supporto legale - che la donna è ovviamente libera di chiedere a chiunque e non solo nell’ambito di associazioni e centri anti-violenza - di fornire dati testimoniali: sullo stato della vittima; sulla sua storia di violenza con le luci ed ombre che accompagnano la tipica storia della violenza, segnata da comportamenti solo apparentemente contraddittori di coraggio e di incertezza, di forza nel difendere se stesse e i figli e di timore di ritorsioni (separazioni e riappacificazioni, denunce e ritrattazioni); infine sulla valutazione del rischio, che spetterebbe di competenza a tutte le agenzie che vengono in contatto con la donna come indicato, anche ultimamente, dalla CEDU e ancor prima dall’art. 51 della Convenzione di Istanbul.
La testimonianza ‘forte’ delle esperte e delle operatici di associazioni e centri anti-violenza, una pratica tecnico-politica da sviluppare e incrementare
L’uso delle testimonianze di esperti sull’IPV è fondamentale per sviluppare risposte legali che rispondano alle esperienze delle sopravvissute. Elenchiamo qui alcuni studi scientifici sul tema.
Dalla letteratura internazionale sul tema, passata in rassegna, si evince che le testimoni esperte possono aiutare i tribunali a comprendere le complessità degli abusi domestici, compreso il motivo per cui le vittime-sopravvissute e gli autori del reato agiscono in determinati modi che si ripetono caso per caso. Questa testimonianza fatta da professioniste e operatrici esperte della violenza domestica, in quanto formate in centri e associazioni che aiutano le vittime e le sopravvissute, possono ben dirsi ‘forti’ in quanto sostengono e rafforzano la testimonianza giuridicamente definita debole delle vittime.
Queste testimonianze possono agire in senso generale e cioè le esperte possono testimoniare in base alla loro conoscenza generale dell'argomento e/o alle specificità di un determinato caso.
La testimonianza in generale: si verifica quando un esperto/a sa poco o nulla del caso specifico e testimonia sugli abusi domestici in generale. In questo campo le testimoni esperte possono indicare: la ricerca sul controllo coercitivo e sui comportamenti tipici della violenza domestica.
In particolare, potrebbero dare:
La testimonianza specifica per il caso: qui le testimoni esperte scrivono relazioni e spesso testimoniano oralmente sui fatti specifici di un caso. Esaminano i materiali che potrebbero includere rapporti della polizia o medici, valutazioni psicologiche, rapporti del curatore, documenti giudiziari e fotografie o registrazioni di testi pertinenti. L'esperta può anche condurre un colloquio e una valutazione sulla violenza domestica/controllo coercitivo con la presunta vittima.
Nel caso specifico inoltre, se l'esperta ha familiarità con il caso, potrebbe discutere:
Le testimonianze possono poi essere orali o confluire di routine in scritti e relazioni a supporto della condizione della vittima. Esse possono essere richieste dall’AG (Autorità Giudiziaria) oppure fornite direttamente alla donna sulla base di una sua richiesta di aiuto, oppure inviate di ufficio direttamente all’AG penale o civile come segnalazioni di una condizione di grave disagio delle vittime, con il consenso della vittima stessa, che può richiedere questo tipo di sostegno presso le istituzioni giudiziarie. In questo ruolo di supporto alla testimonianza (debole per definizione) della vittima, gli interventi delle associazioni e dei centri anti-violenza, in una parola delle organizzazioni non governative, non sono da considerare giuridicamente di parte, al pari dei legali delle parti, ma istituzionali a tutela delle vittime (citate infatti dagli organismi internazionali sui diritti delle donne e dalla convenzione di Istanbul come facente parte della rete istituzionale a supporto delle vittime), e necessari ad un’azione proattiva e preventiva per evitare la vittimizzazione secondaria, quando appunto le istituzioni e i tribunali, non hanno le competenze specifiche per inquadrare i fatti di violenza nella loro giusta cornice di ‘violenza speciale e/o specifica’ tipica di un contesto politico/culturale/economico/strutturale e non riescono a tutelare nel modo giusto le vittime.
In allegato l'articolo integrale completo di note
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