Regolamento concernente le competenze giurisdizionali, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
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Recenti orientamenti giurisprudenziali cui alla Sentenza della Corte di Giustizia della Unione Europea, Prima Sezione, del 15 novembre 2018, resa nella Causa C – 308/17, Leo Kuhn / c. Hellenische Republick, Ricorso n.308/2017, presentato il 5.7.2018, conclusioni dell’Avvocato Generale Y. Bot, presentate il 4 luglio 2018.
Il Regolamento Bruxelles I bis non è applicabile al fine di individuare il Giudice competente in base alle domande proposte nei confronti dello Stato greco.
Abstract.
Il commento alla Decisione del 15 novembre 2018 resa dalla Corte di Giustizia della Europa Unita, nel “caso” Leo Kuhn, si colloca nell’ambito del recente dibattito sviluppatosi intorno ai temi della competenza del giudice adito, della corretta qualificazione giuridica del “caso”, della tutela del diritto di difesa, della libera circolazione delle decisioni (inter alia) e, quindi, delle ripercussioni di tali pronunce sugli ordinamenti degli Stati membri, allineati, o meno, all’esigenza di intensificare le garanzie processuali. Ancora più ove sia fatto valere un diritto di adempimento delle condizioni relative al titolo obbligazionario sulla base di una promessa di pagamento assunta, nella fattispecie dal Governo della Repubblica ellenica, quale debitore del titolo. Ed ancora più ove l’emissione dei titoli obbligazionari al portatore non possano essere assimilati ad un atto iure imperii. Pertanto, l’articolo propone di esaminare ed illustrare brevemente gli antefatti storico – istituzionali rispetto alla vicenda de quo; eppoi il tema attualissimo del rinvio pregiudiziale richiesto per l’interpretazione dell’articolo 7, punto 1, lettera a), del Regolamento (EU) n.1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale dell’autorità preposta al riconoscimento ed all’esecuzione delle Decisioni in materia civile e commerciale.
Abstract (inglese).
The comment on the Decision of 15 November 2018 made by the Court of Justice of the United Europe, in the "case" Leo Kuhn, is part of the recent debate that has developed around the issues of the jurisdiction of the court seised, the correct legal qualification of the "case" , the protection of the right of defense, the free circulation of decisions (inter alia) and, therefore, the repercussions of these rulings on the laws of the Member States, whether or not they are aligned with the need to intensify procedural guarantees. Even more so where a right to fulfill the conditions relating to the bond is asserted on the basis of a promise of payment taken, in this case by the Government of the Hellenic Republic, as the debtor of the bond. And even more so where the issue of bearer bonds cannot be assimilated to an iure imperii deed. Therefore, the article proposes to briefly examine and illustrate the historical - institutional background with respect to the matter in question; and then the very topical issue of the reference for a preliminary ruling requested for the interpretation of Article 7, point 1, letter a), of Regulation (EU) No. 1215/2012 of the European Parliament and of the Council of 12 December 2012, concerning the jurisdiction of authority responsible for the recognition and execution of Decisions in civil and commercial matters.
Introduzione.
Sin dalle origini le Istituzioni dell’Europa si prefissero l’obiettivo di conservare e di sviluppare uno spazio di libertà, di sicurezza e di Giustizia facilitando l’accesso (inter alia) alla Giustizia processuale. In particolare, attraverso il principio del riconoscimento reciproco delle Decisioni giudiziarie ed extra giudiziarie in materia civile e commerciale. In ragione del quale le Istituzioni europee decisero, poi, di adottare misure specifiche nel settore della cooperazione giudiziaria nelle materie civili, con implicazioni transnazionali e funzionali al buon funzionamento del mercato interno.
Da allora in virtù di questa attenta opera di uniformazione furono riscontrate delle evidenti divergenze tra le norme nazionali sulla competenza giurisdizionale e le altre sul riconoscimento delle Decisioni, che resero più difficile il buon funzionamento del medesimo mercato unico comunitario. Ed in ragione di tali evidenze fu indispensabile adottare disposizioni che avrebbero consentito di unificare omogeneamente le norme sui conflitti di competenza, in materia civile e commerciale. Ovvero, di garantire che le Decisioni emesse in uno Stato membro sarebbero state, poi, riconosciute ed eseguite con modalità procedimentali, od anche processuali, semplici e rapide; ma, soprattutto, in misura da garantire, o comunque da non ledere, la (esigenza di) certezza del diritto europeo.
Tali disposizioni divennero parte integrante del Trattato e rientrarono nel settore della cooperazione giudiziaria europea ai sensi dell’articolo 81 del Trattato sul funzionamento della Unione Europea (TFUE). E per realizzare l’ulteriore obiettivo fondamentale della libera circolazione delle Decisioni in materia civile e commerciale fu necessario sancire che le norme riguardanti la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni della Corte sarebbero state stabilite, ovvero pronunciate, mediante un atto giuridico dell’autorità europea pubblico, cogente e direttamente applicabile.
In tale contesto storico ed istituzionale gli Stati membri addivennero alla conclusione della Convenzione di Bruxelles del 1968, ai sensi dell’articolo 220 del Trattato istitutivo della Comunità europea. Convenzione concernente le competenze giurisdizionali e l’esecuzione delle Decisioni in materia civile e commerciale. Successivamente modificata dalla diversa Convenzione di adesione degli Stati membri nuovi (rispetto all’altra del 1968). Alla quale seguì la ulteriore Convenzione di Lugano del 16 settembre del 1988, conclusa tra gli originari Stati membri della Comunità e gli altri Stati membri della EFTA.
Sino a pervenire dapprima alla promulgazione del Regolamento (CE) n.44/2001, del 22 dicembre 2000, del Consiglio, che sostituì, per tutti i territori degli Stati membri coperti dal TFUE, la precedente Convenzione del 1968. Eppoi al Programma di Stoccolma, adottato dal Consiglio Europeo nei giorni 10 ed 11 dicembre 2009, in occasione di una riunione tenutasi a Bruxelles.
Programma pluriennale che avrebbe favorito la “creazione” di una Europa aperta, sicura ed al servizio dei cittadini, anche in considerazione delle valutazioni espresse in merito alla progressiva abolizione delle “diverse” procedure intermedie (exequatur); le quali avrebbero dovuto proseguire “durante l’intero periodo contemplato espressamente” nel medesimo programma.
Abolizione dell’exequatur che avrebbe dovuta essere accompagnata e garantita anche da una serie di salvaguardie, poi espressamente contemplate nel Regolamento (EU) n.1215/2013 promulgato dal Parlamento europeo; (al riguardo si rinvia agli articoli 67, paragrafo 4, ed 81, paragrafo 2, lettere a), c) ed e) del TFUE).
In virtù di quanto detto, le decisioni emesse da tali autorità giurisdizionali dovrebbero essere riconosciute ed eseguite conformemente al presente Regolamento; sebbene occorra, al pari, un collegamento più stretto tra i procedimenti cui si applica il presente Regolamento ed il territorio degli Stati membri.
Ai fini del presente Regolamento, quindi, le autorità giurisdizionali comuni a più Stati membri (quale, ad esempio, la Corte di Giustizia del Benelux, che sarebbe competente per le questioni giudiziarie ed i “casi” che rientrino nell’ambito di applicazione del presente Regolamento) sono tenute a dare seguito al disposto del Regolamento. Ovvero, le Decisioni emesse da tali autorità giudiziarie europee dovrebbero essere riconosciute ed eseguite conformemente al medesimo.
Per cui, se un convenuto fosse domiciliato in uno Stato membro destinatario diverso rispetto a quello di origine, o di residenza, dovrebbero applicarsi, in linea di principio, le norme comuni in materia di competenza giurisdizionale. Ed ove una Decisione contenesse un provvedimento ignoto al diritto dello Stato membro richiesto, tale provvedimento, compreso ogni diritto in esso eventualmente contemplato, dovrebbe essere adattato, nella misura del possibile (o nella misura maggiormente possibile) ad un provvedimento che, in base al diritto dello Stato membro destinatario, abbia efficacia equivalente e persegua obiettivi puntualmente e strettamente analoghi.
Altresì, spetterebbe ad ogni singolo Stato membro (auto)determinare le modalità, le procedure ed i soggetti.
Il “caso” Leo Khun /c. Republick Hellenische. Orientamenti della Corte di Giustizia.
In controtendenza rispetto alle prime Sentenze, volte per lo più a sostenere la centralità dell’assunto e ad assicurare una tutela rafforzata del principio della libera circolazione delle Decisioni in materia civile e commerciale, con la Sentenza pronunciata il 15 novembre 2018, nel Caso Leo Kuhn /c. Republick Hellenische, nella Causa – 308/17, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea confermò le ragioni dello Stato membro ellenico chiamato in causa, dichiarando il Regolamento di Bruxelles I bis non applicabile nei confronti del medesimo, su richiesta di un singolo detentore di titoli di Stato, a seguito delle loro conversioni forzate, avvenute nel 2012.
Inoltre, ad avviso dei Giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea il Regolamento di Bruxelles I bis non fu applicabile alla controversia in esame non avendo come oggetto una vertenza di natura esclusivamente, o prevalentemente, civile e commerciale. Poiché la controversia era stata scaturita da una manifestazione di politica economica e finanziaria espressa dai pubblici poteri ed era discesa, perciò, da atti adottati direttamente dallo Stato membro greco. Compiuti legittimamente nell’esercizio di tali pubblici poteri.
Al riguardo è da evidenziare che il legislatore greco convenuto nel giudizio aveva adottato in un contesto eccezionale ed in circostanze uniche di grave crisi finanziaria, una Legge che aveva previsto l’introduzione retroattiva di una clausola di azione collettiva. La quale aveva consentito di imporre a tutti i detentori dei titoli in questione una modificazione delle condizioni di emissione e di vendita iniziali dei titoli. Anche nei confronti di coloro che presumibilmente avrebbero inteso rifiutare la modifica.
Infatti, tale clausola era volta al conseguimento dell’obiettivo di rafforzare le tutele e le salvaguardie dell’interesse generale, di consentire la ristrutturazione del debito pubblico contratto dallo Stato greco e di prevenire il rischio del fallimento del relativo piano di ristrutturazione. Ovvero, era stata predisposta al fine di evitare il default dei pagamenti dovuti dallo Stato membro. Nonché di garantire la stabilità economica e finanziaria della zona euro.
In conclusione i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ribadirono che i Capi di Stato e di Governo membri della zona euro avevano affermato, con dichiarazioni rese il 21 luglio ed il 26 ottobre del 2011, che la situazione ellenica aveva esatto una soluzione estrema ed eccezionale, anche in riguardo alle partecipazioni del settore e degli investitori privati. E che l’eccezionalità era stata evidenziata in virtù della circostanza che, ai sensi del Trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità, la clausola di azione collettiva, come quella questione, erano figurate, a decorrere dal 1 gennaio 2013, tra tutti i nuovi titoli di Stato emessi in zona euro, con maturità superiore ad un anno, in modo da assicurare, loro, effetti giuridici identici.
Conclusioni.
Il primato del diritto europeo si sostanzierebbe nella prevalenza di questo sulle norme interne di ciascuno Stato membro, contrastanti con esso, sia precedenti che successive. E quale che ne sia il rango costituzionale.
Ovvero, la norma interna contrastante, formalmente o sostanzialmente, con una norma europea, provvista di efficacia diretta, non potrebbe essere applicata. Con la conseguenza che il rapporto resterebbe disciplinato unicamente dalla norma europea di rango sovraordinato.
Per cui, se fosse vero che la giurisprudenza europea avrebbe costantemente affermato che il giudice comune nazionale “ha l’obbligo di applicare integralmente” la norma ed il diritto europeo; e, perciò, di dare effettiva tutela al singolo che quel specifico diritto gli attribuisce, anche disapplicando quella norma interna confliggente, sia essa anteriore o successiva a quell’altra europea. È altrettanto certo che in virtù del principio della preminenza del diritto europeo, s’impone tanto allo Stato membro nel suo insieme, e quindi a tutta la complessa articolazione amministrativa pubblica, quanto al Giudice comune di dare piena ed incondizionata efficacia alla norma sovraordinata. E, nella eventualità in cui sussista una ipotesi di palese conflitto tra una norma interna promanata dalle istituzioni dello Stato membro e l’altra norma, od il diritto euro-unitario, provvista di efficacia e di effetto diretto, di disapplicarla.
Ribadendo con ciò l’ulteriore postulato fondamentale della competenza esclusiva della Corte di Giustizia in materia di interpretazione e di applicazione uniforme del diritto europeo, pur rispetto allo Stato membro destinatario.
Tale per la quale dovrebbe essere garantita la possibilità di avvalersi di una piena legittimazione attiva nel formulare, o nel richiedere, la domanda pregiudiziale tesa ad eccepire il vulnus giuridico, l’inadempimento dello Stato membro, o la inadeguata applicazione del diritto europeo.
In siffatta, la Corte di Giustizia pervenne sin da subito alla esaltazione del principio della assoluta prevalenza del diritto e delle norme europee sulle altre norme nazionali interne agli Stati membri, come riconoscimento complementare; e sebbene ciò comporti un evidente ed assoluto monopolio giurisprudenziale. Ovvero la Corte affermò che, sebbene fossero permaste diverse premesse teoriche, anche di rilievo costituzionale interno, occorra ricordare che la costante dialettica intrapresa dalla Corte di Giustizia rispetto alle singole autorità giudiziarie nazionali, in merito alla prevalenza del diritto europeo sull’altro interno, è ancora oggi incentrata in funzione di ristabilire il fondamento della certezza del diritto.
A tal proposito, se volessimo approfondire le sospette inclinazioni della Sentenza in esame dovremmo riprendere le fila del ragionamento dalla definizione della certezza del diritto e, quindi, 1) dalla prevedibilità dell’intervento degli organi con competenza definita; 2) dalla prevedibilità dell’esito di un eventuale giudicato pronunciato da un organo munito di competenza decisionale. E 3) dalla sicurezza dei rapporti giuridici instaurati, in virtù di una presumibile stabilità della Regolamentazione, o dalla coerenza in essere tra le normative vigenti nel tempo. Ed a maggior ragione dovremmo evidenziare che il concetto di certezza del diritto, ravvisato sotto questa prima accessione, potrebbe essere valutato come tipica univocità delle qualificazioni giuridiche; ovverosia come conoscibilità ex ante di ciò che sia lecito o meno. Sotto tale profilo, perciò, è rilevante che la certezza dello spazio di libertà lasciata adoperare al singolo; nonché, conseguentemente, la delineazione efficace di quali debbano essere (o di quali siano stati) i limiti ed i confini dell’intervento giuridico.
Tuttavia è soprattutto in riferimento alla prevedibilità delle decisioni prese dall’organo competente che il concetto viene indagato (o, meglio, ricercato) come certezza del diritto latu sensu.
La concezione, o meglio la ricerca, di una certezza del diritto si rinviene, dunque, ogniqualvolta si succedano nel tempo atti normativi riguardanti oggetti, o materie, contigui. Ovvero qualora essi siano connessi, siano compiuti da un medesimo organo giudicante pubblico e di rilievo istituzionale, o costituzionale.
Infatti, come rilevato dalla dottrina più solerte, in una società caratterizzata da una serie di rapide trasformazioni, da una esasperata mobilitazione o da una costante diversificazione dei gruppi e delle stratificazioni sociali, la norma (fatta e reintrodotta in forma di Legge) con le proprie caratteristiche di generalità e di astrattezza, perde progressivamente la propria centralità.
Il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico diventa per ciò solo insostenibile in una realtà in trasformazione; ed in cui sempre nuove attività e rapporti economici favoriscono una catarsi giuridica. E fanno continuamente sorgere la necessità di ipotizzare, di coniare, di generare corrispondenti istituti e nuovi rapporti giuridici.
Conseguentemente, si affaccia l’idea di un nuovo ruolo creatore del giudice, il quale è chiamato a svolgere la propria attività giudicante senza limitarsi a rievocare (od a riproporre) i procedimenti puramente logico – formali, ma interpretando le esigenze profonde, etiche, economiche e sociali delle rispettive comunità. Per “limitare le lacune che nel diritto esistono. E che non possono non esistere”.
In conclusione, la rigida struttura apicale che caratterizza le fonti del diritto interno, rivendicato come vessillo degli ordinamenti e degli Stati di fine millennio, risentirebbe, ad oggi, dell’introduzione dell’intero impianto ordinamentale della normativa europea. E, soprattutto, della capacità produttiva di diritto, più attuale ed innovativa.
Pertanto se la certezza del diritto tipica di uno Stato (così come nella fattispecie per il diritto dello Stato membro ellenico) potesse definirsi, potesse qualificarsi tale unicamente ed incontrovertibilmente all’interno di un ordinamento sovrano definito; diversamente i principi, le procedure e le pronunce prodotte dal sistema europeo non potrebbero essere derogate. Senza inficiare con ciò la certezza del medesimo diritto dell’ordinamento sovraordinato.
Sino a deprimere, a scalfire l’impianto fondamentale del medesimo Trattato.
Il 08.06.2019.
Il 4.4.2022.
In allegato l'articolo integrale con note
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