Non è uno scrittore di primo pelo. Ma confesso che non ne avevo mai sentito parlare finché l’editore Sironi non mi ha messo fra le mani il suo voluminoso libro, La messa dell’uomo disarmato, che ha un sottotitolo esplicito: Un romanzo sulla Resistenza. L’editore ha aggiunto: «Lo legga, è un capolavoro». E in genere, se detto dall’editore, questo è ciò che mi scoraggia di più.
Così ho messo il librone su uno scaffale della redazione. Ma me lo sono tenuto sotto il naso. E spesso mi ci cadeva l’occhio. Perché mai, mi chiedevo, scrivere ancora romanzi sulla Resistenza? Il libro era stato autoprodotto e, tra 1989 e il 1995, ha girato di mano (amica) in mano (amica) con quel passaparola che, ammetto, pensavo funzionasse soltanto per i romanzi adolescenziali di Moccia. Invece, invece è arrivato a un editore vero.
E il 25 aprile l’ho aperto. Ed è scritto benissimo. Sarà che l’unica prosa che mi piace, da giornalista, è quella secca, ma trovo che «Mangiarono polenta e salame, bevvero una tazza di latte caldo, si avvolsero nella coperta militare e si buttarono sul fieno. Il padre con Franco cominciò il lavoro nella stalla, dopo avere avvertito Piero e il professore che non c’era nessun pericolo», sia un ottimo esempio di come si debba scrivere. Sempre. Senza aggettivi.
E così adesso mi trovo io a suggerirvi questo lavoro di oltre 850 pagine che, più che alla primavera, si adatterebbe all’inizio dell’inverno. Ma il 25 aprile è stato adesso, è stato coperto da brutti manifesti fascisti a Roma e da un’insulsa Pasquetta, che, almeno intorno al Vaticano, si è trasformata nella vigilia del più grande evento commerciale della storia recente della Chiesa (la beatificazione di Giovanni Paolo II).
E allora anche per questo un signore così desueto, discreto e sognatore, come un prete operaio, merita attenzione. L’Italia che descrive era una brutta Italia. Ma anche allora non erano tutti uguali. E non è vero che le colpe e i valori erano equamente distribuiti: si può celebrare la riconciliazione nazionale, ammesso che ci sia stata. Ma non falsificare la storia.
Scrive Bianchi: «Giorni terribili, aveva detto l’abate, perché i tedeschi e fascisti erano in diecimila e i partigiani in tutta la zona solo mille, e senza un piano comune». E un suo personaggio aggiunge: «Io non capisco come dei ragazzi, anche se sono fascisti, possano dare diciotto colpi di baionetta a un altro ragazzo già morto, e trascinarlo giù dalla montagna per chilometri».
Già, ci sono cose che non abbiamo ancora capito. E per questo certe “nuove voglie”, di guerra e di violenza ci fanno paura