Letteratura  -  Palumbo Valeria  -  23/03/2011

PRONTI A CAMBIARE – Valeria PALUMBO

La storia è stata scritta da Andrea Bajani, già autore di libri imperdibili per chi si occupa di lavoro oggi come Cordiali saluti, su un uomo specializzato in lettere di licenziamento, e Mi spezzo ma non m’impiego, sui precari (entrambi i volumi sono di Einaudi).
L’ironia amara di Bajani qui si fa sarcasmo e nella recitazione di Battiston diventa un dramma: alla fine il pubblico ne esce provato.
Perché Battiston restituisce alla perfezione l’angoscia dell’uomo “spezzato”, che, negli ultimi mesi di lavoro, quando tutti sapevano (tutti, tranne lui), veniva trattato come un malato terminale. E schizzato come un malato terminale. E che quasi non tenta di reagire: si presta a un corso di reinserimento, del quale gli rimane solo il refrain che il trainer lo obbligava a urlare: «Non sono un perdente!». Ma alla fine resta barricato in casa.

Adesso, vorrei evitare qualsiasi lettura sessista. Il lavoro vale per me come qualsiasi collega maschio. Anzi, a guardarmi intorno, molto di più. Però ci sarà pure un motivo per il quale molte donne, me compresa, sono uscite più serene dallo spettacolo. E perché non solo nessuna di noi si è sognata di condannare la moglie del protagonista che, in un pomeriggio, ha imbarcato figlio e mobili e se n’è andata. Ma che ha lasciato al marito, nel biglietto d’addio, un invito tutt’altro che banale: «Buona vita». Augurio, che lui, inevitabilmente, non capisce. Perché il protagonista non ha mai fatto una “bella vita”.

Il padre, sopravvissuto perfino a una fucilazione nazista e riemerso vivo da una fossa comune, gli ha insegnato a combattere “la pena” nei confronti del destino altrui. Ovvero a non essere più compassionevole. E lui ha imparato così bene da essere arrivato in ritardo anche al suo funerale. Lui stesso ammette di aver evitato come la peste il fidanzato della cugina di sua moglie, malato terminale. E allora perché pretende empatia?

Ha lavorato con così poca partecipazione che del suo lavoro sappiamo soltanto che l’hanno fatto dirigente. Parla solo della sua scrivania. Quali carte ci fossero sopra è irrilevante. Ma è il teatro, direte. No, è la vita. Incrocio di continuo persone che lavorano perché questo è l’unico modo di esistere socialmente. Non pensano neanche troppo ai soldi (alla carriera sì, però), perché lavorano così tanto che non avrebbero il tempo di spenderli. Tornano a casa e sono troppo stanchi per leggere, per occuparsi di amici, figli, persone amate, teatro, libri, cause sociali e politiche. In nome del lavoro giustificano qualsiasi nefandezza e dietro la bandiera dell’azienda (come fa lo stesso protagonista) mascherano la loro incapacità di dire no.

E perché dunque sono uscita sollevata da uno spettacolo così triste?
Perché è ovvio che se tutti noi (che scriviamo e leggiamo questo sito) perdessimo il lavoro avremmo problemi. Ma non di identità. E tanto meno di come spendere bene il tempo.

Due domeniche fa ero nella splendida chiesa di san Maurizio, a Milano, riaperta grazie ai volontari del Touring. Guidati da Gianmario Maggi si stanno espandendo con una passione che commuove. Lo Stato taglia i fondi alla cultura? I comuni chiudono i musei e i luoghi d’arte? E i volontari del Touring Club Italiano, con Aperti per voi, li riaprono.
A proposito: non perdetevi una visita a questi gioielli d’arte (li trovate sul sito del Touring). Sono sempre di più, quasi tutti nell’Italia del Nord. E continuano a moltiplicarsi.




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