“Dinamico-relazionale” è un’espressione che funziona? Non troppo direi.
La casistica del fuori, nelle persone, è più ampia e variegata che non i semplici momenti del “dinamico”, del “relazionale”. E gli attentati ai rapporti con se sono spesso destinati a produrre, in un individuo, danni ultronei rispetto alla sfera “morale”.
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Non saprei in effetti:
- tra Valentiniano, che (sino al momento dell’incidente) fra le sette e le otto del mattino correva, dalle nove alle dodici presiedeva riunioni in università, dalle dodici alle tredici giocava a ping pong, dalle tredici alle quattordici si nutriva, dalle quattordici alle quindici dormiva, dalle quindici alle venti parlava, telefonava, arringava, componeva, progettava, firmava, controllava, dalle venti alle ventuno cucinava e mangiava, dalle nove alle undici di sera cantava in coro, dalle undici a mezzanotte faceva all’amore;
- e Modestino, il quale invece (sino all’incidente) stava sempre in silenzio, appartato, irraggiungibile, casto, imperscrutabile magari, fecondo e rigoglioso però nelle sue cose meditative, invisibili, misterioso e sorridente, anche se un po’ catatonico;
non sarei sicuro che, rispetto al “perlage” operativo andato in fumo, presso l’uno e l’altro soggetto, a livello di agenda quotidiana, in seguito al noto infortunio, il primo soggetto sarebbe risarcito più del secondo.
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. … lo “statico-solitario”.
Non va insomma incoraggiato, nel sistema della responsabilità civile, un canone per cui chi corre e salta tutto il giorno (“Com’è dinamico quello, quanto si relaziona!”) vincerà ogni volta il jackpot; e chi invece giace assorto, floscio muscolarmente e in disparte, schivo fra i suoi abat-jour - anche se vivo, inventivo magari, frusciante e a modo suo fervente, attivo nel suo muschio, abile coi contagocce, stillante - perde sempre al confronto.
Gli aspetti “statico-solitari” delle vittime possono valere quanto gli altri, sul piano esistenziale; di più magari, se di vera lana, di buona tempra.
Il mondo dei fragili pullula di esseri che si agitano poco, in apparenza, rispetto al mondo dei super dotati, dei tonici, degli anfetaminici, dei grandi manager; le loro voci perdute di vitalità sommessa, di pulsionalità discreta, contano spesso però quanto le altre.
Penso a Catherine Sloper, in ‘Washington Square’ di Henry James, tutto il giorno a ricamare. Penso a ‘Oblomov’ buttato sul divano di casa, a Guido Gozzano trepido e con la tosse, ad Anna Frank vigile e speranzosa nella sua soffitta, a Burt Lancaster coi suoi uccellini nel film di Frankenheimer, se volete a ‘Into the wild’. Penso a ‘Simon del deserto’, nel film di Bunuel, a Giacomo Leopardi dietro la siepe a Recanati, ai danni dei carcerati senza ossigeno, a ‘Robinson Crusoè prima dell’incontro con Venerdì.