Letteratura  -  Palumbo Valeria  -  20/11/2010

NEL NOME DI KHAN – Valeria PALUMBO

(segue)

Scherzo, ma questi non sono gli unici successi del regista Karan Johar. Ve li segnalo per dire che forse dobbiamo accettare l’idea che il “centro” si stia spostando. E che perdere tempo con le miserie (soprattutto dei nostri politici) ci distrae dalla storia.

In questi giorni esce a cinema Il mio nome è Khan, ultima fatica di Johar. Non perdetelo. Non soltanto perché spiega la stupidità di tutti i fanatismi senza retorica e perfino, nonostante le tragedie che l’attraversano, con un tono da commedia. Ma perché dimostra come Bollywood e il cinema indiano non siano più curiosità esotiche (sia pure da centinaia di milioni di spettatori). Ma sono sorgenti di produzione culturale che cambieranno perfino il modo americano di fare film e il nostro di pensare (e cantare, e muoverci, e parlare).

Il mio nome è Khan racconta la storia di Rizvan Khan (interpretato dal bravissimo Shah Rukh Khan, il re di Bollywood), che soffre della sindrome di Asperger, una forma di autismo, e che dalla dolcissima mamma ha ereditato una nozione fondamentale e universale.
Il mondo si divide in buoni e cattivi, e i buoni, a qualsiasi fede, ideologia, etnia, Paese, etc. appartengano, compiono azioni buone. Il resto sono chiacchiere.

Con questo bagaglio leggero ma granitico Khan, una sorta di Forrest Gump musulmano, emigra in America e lì, contro ogni aspettativa e contro il parere del brillante fratello, sposa una indù. Peccato gravissimo. Il guaio è che, con l’11 settembre, il paria diventa lui: il figlio che la moglie ha avuto da un precedente matrimonio ha preso il suo nome e per questo un gruppetto di ragazzotti si sente in diritto di ammazzarlo di botte.

La moglie, interpretata dalla bella attrice Kajol (altra star di Bollywood... e molto bollywoodiana), gli intima di non tornare a casa finché non avrà detto al Presidente degli Stati Uniti: «Mi chiamo Khan e non sono un terrorista».
Una boutade, l’urlo di una donna disperata.
Ma Khan soffre di autismo e non capisce le metafore: così si mette in viaggio, per dire al Presidente che non è un terrorista, pur essendo musulmano, e per riconquistare la moglie.

Non sto certo a dirvi come finisce. Anticipo solo che nel film quasi tutti fanno una pessima figura: gli americani isterici e ignoranti dopo l’11 settembre (per i quali è un terrorista chiunque non sia bianco, grasso e con un nome anglosassone: esclusi soltanto quelli con gli occhi a mandorla); alcuni islamici, che fanatici e pericolosi sono sul serio; gli altri che, pur di non essere perseguitati, rinunciano a essere se stessi; gli indù che nella prima scena devastano il quartiere musulmano in cui Khan è cresciuto. I bambini che buoni non sono quasi mai.

Un film che riesce a essere amaramente allegro. Che vanta una magnifica colonna sonora di gusto indiano. In cui molti attori recitano come se indossassero la testa di Gamesh. In cui il mondo, il nostro vecchio mondo, appare sotto una nuova ottica. E guardarlo così fa un gran bene a tutti.




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