Cultura, società  -  Redazione P&D  -  15/06/2022

Matrimonio alla castigliana - Massimo Paradiso

Il quinto giorno di udienze non solo la sala consiliare era colma di gente, ma sembrava un mercato, tanto era il vociare, fragoroso e confuso, di tanti che erano convenuti per ottenere giustizia: s’era diffusa infatti la voce che il nuovo Governatore, a dispetto dell’inveterato costume dei giudici, non dava ragione per partito preso ai notabili; anzi, se mai, favoriva la povera gente. Tutti perciò si accalcavano e reclamavano per sé una qualche ragione di precedenza: chi era lì ad aspettare dal giorno precedente, chi aveva lasciato il cappello su una panca e, oltre a rivolerlo indietro dal custode, pretendeva la riserva di posto. C’era poi chi era venuto da lontano e chi era parente del castaldo – e perciò accampava precedenza rispetto a chi era solo parente del custode, e via elencando. Alla fine l’ordine fu ristabilito, e gli animi pacificati, appellandosi alla tradizione e ad un criterio oggettivo. Fu così che si riconobbe incontestabile precedenza a chi avesse acconcia autorizzazione: quella stampata, diciamo meglio: impressa, uno o più maravedì. A parte una consolidata tradizione infatti militava a favore di detto criterio la considerazione dell’urgenza: e quale urgenza poteva essere più impellente di quella di induceva a sborsare dei denari?

Come Dio volle la calma fu infine ripristinata e il Governatore, preceduto dalle sue insegne ufficiali, fece ingresso nella sala. I primi ad avanzarsi furono due nutriti gruppi di persone, nel complesso silenziosi ma, s’intuiva, arrabbiatissimi. «Domando giustizia per mia figlia, Eccellenza» esordì un uomo sulla quarantina: giaccone di cuoio, baffi spioventi, sguardo corrucciato, non lo si sarebbe incrociato volentieri di notte in una strada deserta. «Quest’uomo – disse, accennando a un giovane cui facevano corona le persone dell’altro gruppo, quasi volessero proteggerlo – si rifiuta di sposare mia figlia!». «Chi siete voi e chi è vostra figlia? – replicò il buon Sancho – e perché mai volete sposarla a chi non la vuole? E comunque, siete poi sicuro che tra i poteri del Governatore ci sia quello di obbligare qualcuno a prender moglie? Siniscalco – disse rivolgendosi a uno degli ufficiali presenti – che ne dite? Ho io questo potere?». Questa l’ultima domanda, ma il tono scherzoso della voce rendeva palese la celia. 

«Domando scusa all’Eccellenza vostra per non essermi presentato. Non l’ho fatto perché non mi ritengo tanto importante da dovervi essere presentato. Comunque, mi chiamo Antonio Benares fu Pablo, di Baratteria, e questa è mia figlia, Maria Dolores», disse, accennando a una giovane donna, bianca come il latte e nera di capelli, che si teneva nascosta dietro una donna corpulenta: donna, che s’indovinava esser la madre già per la straordinaria somiglianza. «Questo mascalzone – riprese, accennando al giovane di cui sopra – ha sedotto mia figlia promettendole di sposarla, e ora rifiuta di tener fede alla promessa!». 

«Giovanotto! – esclamò il giudice corrucciato in volto – Cos’è questo che sento dire di te? Perché ti rifiuti di sposare questa bellissima giovane? T’è piaciuta quando hai voluto fare il comodo tuo ed ora non ti piace più? O magari speravi, e magari ancora speri – insinuò – in una dote più sostanziosa?» S’indovinava, nelle parole e nel tono aspro del giudice, una sua partecipazione personale al dramma della giovane sedotta: e non a torto. Chi l’avesse conosciuto ben avrebbe potuto testimoniare che simile vicenda, e analoghe angosce di padre, gli era capitato di vivere sulla sua pelle a proposito di una sua figlia, Sanchita, che gli era poi rimasta in casa, essendosi il seduttore dato alla macchia pur di sottrarsi alle nozze riparatrici. 

Palese l’imbarazzo del giovane, che, spinto avanti dai familiari, non si decideva a parlare. Apriva la bocca e poi la richiudeva, senza articolare alcun suono, tanto che finì con l’assomigliare a un pesce: insomma non sapeva decidersi a parlare. «Tacere non vi sottrarrà al castigo che vi aspetta...» sibilò il giudice, ormai palesemente irritato e deciso a vendicare su quel gaglioffo lo sgarro subito dalla sua figliola. Fu allora che si fece avanti un prelato, grasso al punto da essere obeso, che si qualificò per don Sisto Gomez de la Ruta, canonico anziano della locale matrice e abate commendatario del monastero di S. Isidro, nonché zio materno del giovane. 

«Intervengo, Eccellenza, a difesa di questo mio nipote, calunniato dai parenti di quella già sedicente pulzella, e intervengo come esperto di diritto canonico, avendo conseguito, a Magonza, il baccellierato in utroque iure». Tacque, don Sisto, per vedere se e quanto l’improvvisato giudice, notoriamente ignorante e bifolco, fosse rimasto impressionato dalla sua laurea e dalle sue qualifiche. Il buon Sancho non fece una piega, se non altro perché si era confuso tra tante parole per lui nuove: a parte Magonza, aveva compreso solo pulzella e baccello, ma la prima gli richiamava alla mente una pulce, il secondo una fava. Capiva però che fave e pulci non dovevano avere nulla a che fare con la questione sul tappeto. Tenne perciò la bocca chiusa con fare indifferente. 

Assorbita la delusione, il prelato riprese: «È ben noto, a chi abbia dimestichezza con codici e codicilli, pandette e bolle papali, come il diritto canonico, e cioè il diritto della Chiesa – così si cautelò l’oratore, a scanso di fraintendimenti –, sancisce una serie di regole per la valida stipulazione del matrimonio. Ora, a beneficio del pubblico che qui è concorso a godere delle opere di giustizia che in questo consesso con inusitata larghezza si praticano, ometterò di citare in latino i sacri canoni che soccorrono alla bisogna. Li citerò pertanto in lingua volgare, ma non per questo con terminologia meno pertinente e accurata. Ebbene, il canone appropriato alla materia che ne occupa – canone confermato e convalidato dal recentissimo, sacrosanto Concilio di Trento – decreta, statuisce e dispone circa la necessaria libertà, purezza e integrità del consenso dei nubendi. Alla cui confezione o effettuazione abbisogna una esatta rappresentazione della realtà». 

Anche qui il prelato fece una breve pausa, ma, avendo rinunciato all’illusione di farsi comprendere, confidava piuttosto che, smarrito nella confusione generata dai suoi discorsi, il giudice stesse a quanto da lui affermato. «E dunque, tanto per semplificare e al contempo esemplificare – proseguì – la Chiesa bolla come non valido, e perciò affetto da nullità e radicale inesistenza, il matrimonio che sia contratto in presenza di un errore. Errore, beninteso, che sia essenziale riguardo alle qualità dell’altro coniuge. Ecco perché mio nipote si rifiuta alle nozze. Perché dunque, e come, contrarre un matrimonio che si sa esser nullo fin dall’origine? E in questo caso – concluse – ben due sarebbero i motivi di nullità. Il primo è costituito dal fatto che la donna non è più pulzella, e cioè vergine; il secondo dalla circostanza che il giovane si rifiuta alle nozze: e dunque se fosse costretto a sposarla, verrebbe meno la libertà e spontaneità del suo consenso». 

Il mormorio del pubblico e le tante risatine sornione che accolsero le sue parole fecero comprendere all’improvvisato difensore di averla fatta grossa. E anche il Governatore, che certo non tutto aveva compreso, s’era messo a ridere: «Monsignore – disse – se la sposa dovesse essere necessariamente vergine, mi creda, i matrimoni validi sarebbero da cercare col lanternino!». «Beh, beh – replicò Monsignore palesemente imbarazzato per la figuraccia e per non essere riuscito a mettere nel sacco il giudice – una prassi irregolare non priva certo di validità e di efficacia una norma di diritto... E comunque, rimane il fatto che nessuno può essere costretto a nozze se non vuole». «Su quest’ultimo punto, almeno, avete ragione – osservò il giudice –. Sentiamo allora l’interessato. Ancora non gli abbiamo sentito dir nulla. Non ha negato di aver fatto la promessa ma non l’ha neppure ammesso, e comunque non ha detto perché non vuole mantenerla». 

Si fece avanti malvolentieri, il giovane chiamato in causa. E parlò sol perché non poteva più evitarlo. «Signor giudice, – disse sottovoce, in modo che il pubblico non potesse udire – quando si prende moglie, ognuno ha i suoi desideri: chi vuole la sposa bella, chi la vuole robusta e massara, chi con una ricca dote, e così via. Io, io..., vorrei un’altra dote: la verginità!». Solo a stento i parenti riuscirono a fermare il padre dell’aspirante sposa: schiumante di rabbia, cercava di liberarsi per dare una lezione a quello sfrontato. «Ma sbaglio – intervenne il giudice – o la ragazza era vergine quando tu l’hai spulzellata?». «E che c’entra? – replicò lo spudorato –. Questo era prima. Adesso non è più vergine. Anch’io, come tutti, voglio una moglie vergine. Perché io non devo averla?». E stavolta gli sforzi per fermare il padre furono veramente enormi.

Nel silenzio che era calato nella sala, il frate si fece avanti e chiese il permesso di prendere nuovamente la parola. Permesso accordato, se non altro perché il buon Sancho non sapeva che pesci pigliare e gradiva perciò un rinvio, sia pur breve, della decisione. «Non creda l’Eccellenza vostra che vi sia una qualche sfrontatezza o spudorataggine in quanto testé detto da mio nipote, circa il fatto che oggi la giovane più vergine non è. Soltanto una valutazione del tutto superficiale e totalmente digiuna dei sacri canoni, nonché dei più elementari criteri ermeneutici di lettura delle giuridiche normative, può ignorare la sostanziale differenza tra ciò che avviene o si compie prima di un contratto, o di altro atto formale, e ciò che si compie successivamente ad esso. Non voglio dilungarmi, e perciò mi limito a un esempio tratto dalla materia della quale stiamo oggi trattando: e cioè la disciplina relativa alle nozze. Tutti sanno che il sacro vincolo del matrimonio costituisce un sacramento – e sacramento grande, assicura S. Paolo – e che i sacramenti non son certo qualcosa da prendere alla leggera: né si può far finta che un sacramento non si sia dato. Eppure, si faccia il caso di due fidanzati che si siano congiunti carnalmente prima delle nozze. Che succede se, celebrato il matrimonio, non segua poi la consumazione, vuoi per volontà dei coniugi, vuoi per un accidente: ad es., perché uno dei due muoia immantinente? Si dirà: Pazienza, il matrimonio è stato comunque consumato? No! Cento volte: no! Al punto che quello appena evocato è uno dei due, dico: due!, casi in cui la santa madre Chiesa ammette lo scioglimento del vincolo: è il caso del cd. matrimonio rato e non consumato. Ecco perciò che l’unione carnale avvenuta prima delle nozze, e pur tra gli stessi nubendi, non incide in alcun modo sulla circostanza della mancanza di verginità nella sposa: il difetto rimane e rimane perciò legittimo il rifiuto alle nozze per siffatto motivo».

Il buon Sancho non credeva alle sue orecchie e si fece forza per riuscire a frenare il suo impeto: era pur sempre un giudice, non doveva dare in escandescenze e doveva piuttosto dare l’esempio, “parlando” solo attraverso le sentenze. Gli venne però una curiosità e chiese alla giovane: «Ma tu sei proprio certa di voler sposare un gaglioffo del genere? Perché lo vuoi?». La giovane mantenne il viso basso ma disse distintamente: «Perché lo amo!». «Già – commentò fra sé il nostro Sancho – È sempre così. Le donne scelgono sempre e soltanto i mascalzoni! E poi si lamentano se vengono pestate...». Il nostro giudice però non riusciva a risolversi. Capiva soltanto una cosa. Per le nozze ci voleva il consenso del giovane. Alla fine, dopo un’ultima ponderazione, si decise ed emise la sentenza. 

«Giusta mi sembra la richiesta del giovane di sposare una donna vergine: è un desiderio legittimo e grandemente diffuso – esclamò –, pur se poi largamente deluso, oltre che di fatto eluso dalla furbizia femminile». I parenti del renitente promesso sposo annuivano convinti, tra le rimostranze dei parenti della giovane, mentre il giudice aggiungeva «Ma converrete tutti con me che anche le donne ben possono nutrire legittimi desideri. Tra questi il più importante mi sembra quello di unirsi per la vita a un galantuomo, non certo a un disonesto e che viola la parola data. Ora nei contratti ben può succedere che le prestazioni delle due parti mostrino qualche difetto o mancanza, ma non per questo il contratto va a rotoli. Quand’è possibile, il difetto dell’una è compensato dal difetto dell’altra. Cosa che nel presente caso è perfettamente possibile, oltre che auspicabile, visto che la ragazza ha confermato la sua volontà di sposare il giovane in questione. Se anche costui facendo emenda della precedente condotta dà il suo consenso, non vedo ostacoli alle nozze».

Detto questo, chiamò a sé il padre della ragazza e disse: «Vedo sotto la vostra giubba un significativo rigonfiamento: è certo la dote che intendete offerire a questo bravo giovine. Accostatevi a lui e, in modo discreto, fategli sbirciare dentro la giacca e fategli apprezzare la generosa consistenza di questa dote...». Solo un attimo durò la perplessità di Antonio Benares, fu Pablo, di Baratteria. Avvicinatosi al giovane, scostò un lembo della casacca, mentre il giudice si girava verso il suo segretario in modo da non poter scorgere la tradizionale navaja, munita di una lama lunga due spanne abbondanti, custodita sotto la giacca. 

«Siete dunque soddisfatto della dote offerta dal vostro futuro suocero?» chiese beffardamente al giovane il Governatore. «Ampiamente, Eccellenza» rispose l’interpellato. «Dunque – concluse il giudice – a fronte di una pubblica, solenne promessa come quella che abbiamo ascoltato, niente ripensamenti o avrete a pentirvene. Auguri ai due sposi!». 

Un applauso scrosciante salutò i due giovani che uscivano insieme, mentre lui accoglieva nella sua la mano che lei timidamente gli porgeva.

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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