Diritto commerciale  -  Redazione P&D  -  11/07/2022

L’omologazione, l’esecuzione, la risoluzione e l’annullamento del Concordato Preventivo nel Codice della Crisi di impresa e dell’Insolvenza - Teodoro Marena

Sommario: 1. Omologazione del concordato preventivo; 2. L’esecuzione del concordato preventivo; 3. Risoluzione e annullamento del concordato

  1. 1.Omologazione del concordato preventivo.

L’art. 112, disciplina solo alcuni aspetti particolari del giudizio di omologazione: poiché il giudizio di omologazione integra prevalentemente disciplina processuale, si dovrà fare riferimento alle norme sul procedimento unitario ex art. 48.

In particolare, l’art. 48, 1°, 2° e 3° comma, sancisce che una volta conseguita l’approvazione dei creditori, il tribunale fissi l’udienza in camera di consiglio per l’omologazione disponendo la pubblicazione del decreto presso il registro delle imprese, sia quello della sede legale sia quello della sede effettiva (se diversa), sia presso quello dell’ufficio del luogo ove è stata aperta la procedura, onerando poi il debitore di provvedere alla notifica al commissario ed ai creditori dissenzienti.

Successivamente, i creditori dissenzienti possono proporre opposizione con memoria da depositare fino a dieci giorni prima dell’udienza, mentre il commissario dovrà depositare propria memoria fino a cinque giorni prima ed il debitore, a sua volta sino a due giorni prima: in tal modo la riforma risolve la discrasia odierna che pone a tutte e tre le parti identifico termina, con limitazione del diritto di difesa del debitore.

In seguito, valutate nuovamente l’ammissibilità, la fattibilità economica, nonché la regolarità della procedura e l’esito del voto, il tribunale, sentito il parere del commissario, ed assunti eventualmente mezzi di prova, emette sentenza sulla domanda di omologazione.

Oggetto del giudizio di omologazione, più in particolare, in coerenza con la previgente disciplina, è la verifica ad ampio raggio da parte del tribunale del rispetto delle regole di procedura che abbiano condotto alla approvazione del concordato, nonché alla permanenza di tutti i requisiti di ammissibilità (nello specifico verifica ai sensi dell’art. 48, 3°comma, “la regolarità giuridica della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”).

 Risulta essere ben noto come, successivamente alla riforma, sul ruolo del controllo del tribunale in sede di omologa si sia aperto un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sostanzialmente sviluppandosi intorno alle tesi che attribuiscono al concordato una prerogativa, l'una, maggiormente pubblicistica e, l'altra, più aderente alle finalità della riforma, tesa a connotare il concordato in senso privatistico.

Il dibattito si incentra sul potere del Tribunale di verificare la fattibilità del piano concordatario.

Un primo orientamento ritiene che, in sede di giudizio di ammissibilità, il tribunale deve limitarsi ad un controllo meramente formale della completezza e regolarità della documentazione allegata alla domanda. 

Altro orientamento ritiene invece che il Tribunale, in tale sede, è tenuto ad accertare anche la fattibilità del piano, attraverso un controllo della regolarità e della completezza dei dati aziendali esposti ed attraverso una puntuale verifica dell'iter logico attraverso il quale il professionista è giunto ad affermare la fattibilità del piano, attraverso un controllo della regolarità e della completezza dei dati aziendali esposti ed attraverso il quale il professionista è giunto ad affermare la fattibilità del piano, e ciò al fine di verificare la serietà delle garanzie offerte dal debitore o la sufficienza dei beni ceduti per la realizzazione del piano.

Stante il persistente contrasto fra i predetti orientamenti, a seguito della sentenza 15 dicembre 2011, n. 2703 della Suprema Corte, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte che ha composto il contrasto con la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521, statuendo che sia in sede di ammissione, sia in sede di revoca od omologa del concordato, il Tribunale deve verificare la fattibilità giuridica del concordato, ossia la conformità a legge delle modalità indicate nel piano per la realizzazione della proposta. Tale fattibilità giuridica si estrinseca nel verificare: a) l'idoneità della documentazione prodotta dal debitore a fornire al giudice ed ai creditori l'informazione chiara ed esaustiva sulla sua situazione patrimoniale e sul paino concordatario elaborato per la soluzione della crisi, così da consentire loro di esprimere in sede di adunanza un voto cosciente e meditato; b) l'idoneità della proposta a consentire, attraverso le modalità indicate nel piano, la realizzazione della "causa" del concordato, consistente per il debitore nel superamento della crisi e per il creditore nel loro soddisfacimento in misura anche minimale ed in tempo ragionevolmente contenuto.

Quindi il Tribunale deve arrestare la procedura, quando è evidente e fondatamente prevedibile che al termine della stessa i creditori non saranno soddisfatti neppure in misura minimale.

Spetta, invece, esclusivamente ai creditori valutare la c.d. fattibilità economica del concordato ossia effettuare una prognosi sull'idoneità del piano a realizzare la proposta nei termini indicati, sotto il profilo del conseguimento della percentuale promessa o preventivata, nei tempi indicati nella proposta stessa e ciò perché compete ai creditori l'assunzione del relativo rischio, con la votazione, purché preventivamente ed esaustivamente informati attraverso la relazione dell'esperto e, soprattutto, attraverso il motivato parere del commissario.

Quindi, in tutti i casi in cui il giudice è chiamato a pronunciarsi, il suo sindacato deve limitarsi esclusivamente alla verifica della fattibilità giuridica del concordato, sotto il duplice aspetto del controllo di legalità: a) sui singoli atti in cui si articola la procedura; b) sulla correttezza del procedimento seguito, senza trasbordare nell'esame del merito e della convenienza della proposta per i creditori.

La strada per conciliare le opposte critiche e la necessità di dover comunque assicurare, anche in assenza di opposizioni, un controllo giurisdizionale minimo che vada al di là del mero controllo; sulla regolarità della procedura e dell'esito delle votazioni, sembra potersi ravvisare nel collegamento sussistente tra l'art. 180 l. f. e l'art. 173 l.f.. 

E' infatti pacifico che la procedura ex art. 173 l.f., potendo essere instaurata nel corso di tutto il procedimento di concordato e, quindi, fino alla sua conclusione ex art. 181 l.f., possa costituire oggetto di indagine anche nel giudizio di omologa.

Ed è altresì evidente, in quanto espressamente previsto dal legislatore, che il procedimento ex art. 173 l. f. abbia anche ad oggetto il caso in cui "in qualunque momento risulta che manchino le condizioni prescritte per l'ammissibilità del concordato".

La norma in esame attribuisce al tribunale, in conformità a quanto previsto dall’art. 180, 4° comma, l. fall., il potere di omologare il concordato nonostante il dissenso di una parte dei creditori, ora ravvisi che tali creditori possono conseguire dall’esecuzione del concordato un soddisfacimento non inferiore a quello che otterrebbero se si accedesse all’alternativa procedura di liquidazione giudiziale (c.d. cram down).

Come già sopra rilevato, la pronunzia delle Sezioni Unite estende al concordato preventivo categorie di stretta derivazione privatistica, quali l’autonomia contrattuale e la causa negoziale in concreto.

Sotto il primo profilo, come già precisato, la valutazione circa la convenienza economica del contratto rimane affidata all’autonomia dei privati, prima della sua stipula, e ciò vale anche in relazione all’adesione che i creditori concordatari sono chiamati a prestare o a negare alla proposta esdebitativa dell’imprenditore.

Sul punto, va aggiunto che il perimetro del riscontro dovrà essere ancorato – oltre alla valutazione della fattibilità giuridica della proposta – anche la deliberazione della causa in concreto del contratto di concordato.

Di sicuro, la categoria della causa in concreto non è sconosciuta alla giurisprudenza della Suprema Corte. È noto, infatti, che “la causa del contratto si identifica con la funzione economico-sociale che il negozio obiettivamente persegue e il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata” ovvero con la funzione economico-sociale dell’atto di autonomia privata “nella sintesi dei suoi elementi essenziali”.

Sul punto, va precisato che sovente il richiamo pretorio alla funzione che il negozio astrattamente persegue è finalizzato alla distinzione “ontologica” rispetto allo scopo particolare, che ciascuna delle due parti si propone di realizzare, sicché l’illiceità della causa consegue sia all’ipotesi di utilizzazione dello strumento negoziale, ancorché tipico, per frodare la legge, qualora entrambe le parte parti attribuiscono ha contratto una funzione obiettiva volta al raggiungimento di una comune finalità contrario valigie contrario alla legge. 

Invero, la discussione dottrinaria ha condotto, negli ultimi anni, al graduale superamento della ricostruzione della causa in termini di astratta funzione economico sociale del negozio, per approdare al concetto della causa come funzione economico individuale del negozio medesimo, rappresentativa del programma contrattuale concretamente voluto costruito dalle parti, con la conseguenza che il giudizio sulla liceità deve svolgersi anche per i contratti tipici ed ha ad oggetto la legittimità dell’ operazione economica concretamente posta in essere.

Ne discende che, nel diritto vivente, e frequente l'affermazione per la quale nell’ interpretazione del contratto occorre considerarne la causa in concreto, quale scopo pratico del negozio, ovvero sintesi degli interessi che lo stesso e concretamente volto a realizzare. 

Pertanto, la nozione di causa del negozio deve essere colta nella funzione individuale nello specifico contratto posto in essere.

Orbene, l'indagine relativa alla liceità della causa quale obiettiva funzione economico sociale del contratto deve essere svolta non in astratto ma in concreto, onde verificare la conformità a legge delle attività negoziale posta in essere dalle parti, e dunque la riconoscibilità della specie della tutela apprestata dall' ordinamento giuridico. 

Siffatta indagine non può prescindere dall’ apprezzamento degli interessi che il negozio è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione), secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito.

Invero, qualora emerga che le parti abbiamo utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva, che non sia solo diversa da quella per cui tale strumento giuridico è previsto dalla legge, ma anche in contrasto con norme imperative, il giudice non può accordare al negozio in questione la tutela apprestata dall’ordinamento. 

Deve dirsi, con ancora più precisione, che il giudice, nel procedere all’identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed a l'individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione in concreto della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento, per l'interprete, della generale conformità a legge dell’ attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell'art. 1343 c.c.  (causa illecita) e 1322, comma 2, c.c. (e cioè, meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l'ordinamento giuridico). 

Se così è, allora deve ritenersi che, anche sotto quest’ultimo peculiare profilo, non si può sostenere che il sindacato giudiziale sia stato limitato dalle Sezioni Unite al solo controllo di fattibilità giuridica della proposta, dovendo il tribunale essere chiamato a valutare l’idoneità della stessa non soltanto ad assicurare il soddisfacimento, sia pur modesto e parziale, dei creditori, ma perfino il superamento della situazione di crisi dell'imprenditore. 

Poiché dalla crisi si può uscire con la liquidazione dell'attivo, ma anche con la prosecuzione dell'attività d'impresa, dovrà essere, da un lato, il debitore ad indicare la modalità all’uopo prescelta (concordato con cessione dei beni, piuttosto che concordato in prosecuzione), e, dall'altro lato, il tribunale a valutare latitudine della proposta (e dei mezzi con essa messo in campo) ad inverarla. 

Ne discende che siffatto percorso valutativo non può avere le caratteristiche di un tipico sindacato “di merito”, che - per restare sul piano del diritto dei contratti - ingloba in sé una fase interpretativa ed una fase valutativa: l'interpretazione della proposta concordataria (e delle eventuali modifiche introdotte dal debitore in corso di procedura), e la valutazione della legittimità della proposta e dell’idoneità a perseguire la sua causa in concreto. 

L’art.112, 2°comma, ripropone testualmente la previsione dell’art.180, 6°comma, l. fall., sancendo che “le somme spettanti ai creditori contestanti, condizionali o irreperibili sono depositati nei modi stabiliti dal tribunale, che fissa altresì le condizioni e le modalità per la liquidazione”.

È importante segnalare, in quanto rappresenta una novità assai significativa del nostro ordinamento di ampio dibattito dottrinale sviluppatosi sull’argomento, che ai sensi dell’art.116, 1°comma, “se il piano prevede il compimento, durante la procedura oppure dopo la sua omologazione, di operazioni di trasformazione, fusione o scissione della società debitrice, la validità di queste può essere contestata dai creditori solo con l’opposizione all’omologazione”.

Al fine di realizzare un miglior coordinamento con la normativa societaria, è previsto che il tribunale, nel provvedimento di fissazione dell’udienza di omologa ex art. 48, disponga che la pubblicazione del piano nel registro delle imprese del luogo ove hanno sede le società interessate dalle operazioni di trasformazione, fusione o scissione. Tra la data della pubblicazione e l’udienza devono intercorrere almeno trenta giorni. In tal modo, coloro che volessero opporsi possono certamente farlo nell’ambito del giudizio di omologazione, cui è legittimato a partecipare ogni interessato.  

Per quanto riguarda gli aspetti processualistici del giudizio di omologazione, trattasi di procedimento avente natura camerale e contenziosa.

La natura camerale del procedimento è immediatamente desumibile dalla previsione di cui all’art. 180, primo comma, l. fall., secondo cui, riferendo il giudice delegato del raggiungimento delle maggioranze, il collegio fissa l’udienza avanti a sé in camera di consiglio. Se la natura camerale è indubbia, la eventuale complessità del giudizio non sembra coordinarsi facilmente con tale connotazione.

Il procedimento ha altresì natura contenziosa in quanto esso si conclude con un provvedimento che accoglie o rigetta istanza di omologazione, e che incide sui diritti soggettivi, si pensi all’effetto esdebitatorio e all’effetto obbligatorio. 

La natura contenziosa non è esclusa dalla circostanza che la legge prevede che debbano costituirsi il debitore ed il commissario ed, eventualmente, eventuali opponenti, di talché non è detto che sorga un vero e proprio contraddittorio, soprattutto alla luce del fatto che l'unico soggetto che debba necessariamente costituirsi è il debitore.

La natura contenziosa del procedimento importa che, ove intervenga la costituzione di una delle parti, sia essa il debitore, sia essa il commissario, sia infine un creditore dissenziente o un opponente, il patrocinio di un difensore è necessario. La sua nomina per altro rientra nell'ambito dell'ordinaria amministrazione e non necessita dell'autorizzazione di cui all'articolo 167 legge fallimentare.

L'articolo 180, primo comma, parte finale, legge fallimentare dispone che, intervenuta l'approvazione del concordato, il giudice delegato ne riferisce al tribunale il quale fissa l'udienza di comparizione delle parti e del commissario giudiziale per la discussione in camera di consiglio; il provvedimento viene pubblicato ai sensi dell’articolo 17 legge fallimentare e deve essere notificato, a cura del debitore, al commissario giudiziale e agli eventuali creditori dissenzienti.

Detta notificazione è finalizzata andare loro compiuta informazione e a consentire che possano proporre opposizione; la sua omissione non può considerarsi alla stregua di un vizio del procedimento che determina la nullità dello stesso. 

Rilevata l'omessa notificazione il tribunale, secondo orientamento assolutamente prevalente, fissa nuovamente la data dell'udienza, onorando il commissario giudiziale ovvero una parte costituita a provvedere per la notificazione. 

Alla notificazione deve far seguito di iscrizione a ruolo; si deve ritenere che a tale adempimento possano provvedere indifferentemente il debitore o il commissario giudiziale.

quanto agli effetti della mancata iscrizione, gli stessi possono ritenersi analoghi a quelli della mancata notificazione; il tribunale provvederà per la fissazione di una nuova udienza, disponendo affinché sia accurato all'adempimento dell'incombente.

  1. 2.L’esecuzione del concordato preventivo.

La fase esecutiva del concordato omologato è contenuta negli art. 114 -118, con una collocazione sistematica che lascia qualche perplessità, giacché la disciplina della esecuzione in generale è contenuta agli artt. 117-118, mentre talune specifiche previsioni che la possono caratterizzare sono rispettivamente contenute agli artt. 114 -116 con una apparente inversione logica.

L’art.117, con previsione che ricalca letteralmente quella contenuta all’art. 184 l. fall., statuisce che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese della domanda di accesso. Tuttavia, essi conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”; “salvo patto contrario, il concordato della società ha efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”.

Più precisamente, nel caso in cui il concordato venga omologato, tutti i "creditori anteriori" alla data di tale pubblicazione, anche nel caso in cui non si fossero pronunciati sulla proposta del debitore o si fossero espressi con un voto contrario, sono obbligati a sottostare a quanto prevede il piano.

Si tratta di quello che, tradizionalmente, era stato definito il c.d. effetto esdebitatorio del concordato.

Tuttavia, oggi che il piano concordatario può avere anche un contenuto diverso dalla mera riduzione dei crediti, si ritiene che parlare di "effetto esdebitatorio" sia improprio, soprattutto avuto riguardo a quei concordati che, in concreto, prevedono una mera dilazione o altre forme di soddisfazione dei creditori diverse da un mero stralcio in termini monetari.

La ratio di tale effetto è da ricercare nei principi economici "che impongono che anche in presenza di grave crisi d'impresa si attui il rapido reinserimento del debitore nel contesto socioeconomico a tutto vantaggio della produttività e nel rispetto delle regole del mercato”.

Per quanto riguarda la natura giuridica di tale effetto, fermo il fatto che la parte di debito eccedente la percentuale non viene estinta dal concordato, è invece in discussione a quale istituto debba essere assimilata la riduzione operata in sede concordataria: vi è infatti chi la riconduce all'istituto della remissione del debito ex art. 1236 c.c., operante solo tra creditore e debitore concordatario, oppure chi la accomuna ad un'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c, oppure ancora chi ritiene che tra creditore e debitore intervenga un pactum de non petendo per la parte eccedente la percentuale o, ancora, chi riconduce l'effetto estintivo del decreto di omologa al venir meno dell'azione in senso sostanziale che alcuni ritengono operata dal provvedimento di omologazione, che estinguerebbe parzialmente il credito, non con efficacia erga omnes, bensì solo nei confronti del debitore.

È altresì dubbio se il momento al quale collegare l'effetto "esdebitatorio" previsto dall'art. 184 l.f. sia da identificarsi nell'emissione del decreto di omologa provvisoriamente esecutivo, oppure nel momento in cui tale decreto, decorsi i termini per la relativa impugnazione, diventa definitivo.

Al riguardo, si è affermato che "ex latere debitoris, deve ritenersi che l'effetto esdebitativo si verifichi con l'omologazione, ma la liberazione dalle obbligazioni residue, una volta cioè scontato l'effetto esdebitativo, sarà configurabile, ad eccezione della forma di cessione c.d. traslativa e del concordato con l'intervento dell'assuntore, soltanto una volta intervenuto l'adempimento delle obbligazioni contenute nella proposta o, se si preferisce, nel momento in cui il piano concordatario è integralmente attuato".

Come si è visto, sempre ai sensi dell'art.117, con previsione che ricalca letteralmente quella contenuta all’art. 184 l. fall, i creditori anteriori alla data di pubblicazione del ricorso ex art. 161 nel registro delle imprese, se non possono pretendere dal debitore soggetto alla procedura un soddisfacimento maggiore rispetto a quello previsto dal piano approvato ed omologato, tuttavia conservano impregiudicati i loro diritti, per l'intero, nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori e degli obbligati in via di regresso.

Tale disposizione si pone quale deroga in sede concorsuale, ai principi di diritto comune stabiliti dagli artt. 1301 e 1941 c.c., norme queste che, basandosi sul brocardo accessorìum sequìtur principale, stabiliscono, il primo, che la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori e, il secondo, che la fideiussione non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore.

Sulla scorta della disposizione in esame, quindi, i creditori muniti di "garanzie collaterali" potranno pretendere il pagamento dell'intero loro credito nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori e degli obbligati in via di regresso, mentre questi ultimi soggetti potranno rivalersi nei confronti del debitore solo nei limiti della percentuale concordataria.

E' controverso se il terzo datore di ipoteca ed il terzo, acquirente di un bene gravato da ipoteca, rientrino nella categoria dei coobbligati ex art. 184 l.f..

Chi propende per la soluzione negativa, ritiene che il terzo non assuma un'obbligazione personale, ma realizzi un'ipotesi di responsabilità limitata senza debito proprio e che, di conseguenza, l'ipoteca si estingua quando il creditore abbia ricevuto il pagamento nella percentuale concordataria e che il creditore ipotecario non possa quindi far valere nei confronti del terzo il suo diritto di credito nella parte non soddisfatta.

L'opinione contraria ritiene invece che il credito, assistito da ipoteca su immobile che il debitore abbia già alienato al momento dell'ammissione al concordato preventivo, si estingue, per effetto dell'esecuzione del concordato, solo nei limiti della percentuale concordataria, non anche per la porzione residua, la quale continua a godere della garanzia ipotecaria nei confronti del terzo acquirente, soggetto all'azione esecutiva, laddove non si avvalga della facoltà di rilasciare il bene o di liberarlo dall'ipoteca.

Con particolare riferimento, poi, agli amministratori, la loro configurabilità (o meno) quali coobbligati ai sensi dell'art. 184 l.f., condiziona anche l'instaurazione, nei loro confronti, dell'azione di responsabilità nell'ambito concordatario (a tale riguardo si veda anche quanto detto supra, nell'ambito del commento all'art. 168 l.f., a proposito dell'esperibilità dell'azione di responsabilità).

L'opinione negativa ritiene che, non potendosi configurare gli amministratori quali coobbligati e non potendo, pertanto, i creditori agire contro gli stessi per la parte residua del loro credito rimasta insoddisfatta a seguito del pagamento della percentuale concordataria, l'azione di responsabilità nei loro confronti non sarebbe esperibile.

La tesi positiva, invece, ritiene che rientrino tra i coobbligati ai sensi dell'art. 184 l.f. gli amministratori che abbiano intrapreso nuove operazioni successivamente al verificarsi di una causa di scioglimento della società, i quali non possono giovarsi dell'effetto esdebitatorio del concordato e divengono, invece, solidalmente ed illimitatamente responsabili per le obbligazioni contratte. 

Al fine di mantenere in essere il proprio diritto nei confronti del fideiussore, tendenzialmente si ritiene che il creditore dovrà agire nei confronti del debitore concordatario, con una normale azione di cognizione, al fine di non incorrere nella decadenza prevista dall'art. 1957 c.c..

Infatti, è stato al riguardo affermato che l'ammissione del debitore alla procedura non sia idonea ad interrompere il predetto termine di decadenza. 

E' stato rilevato che, oggi, data la varietà delle forme di estrinsecazione della proposta concordataria, che può avere ad oggetto anche forme di soddisfazione diverse dal pagamento in danaro, può essere difficile quantificare la misura della falcidia e, quindi, la parte di responsabilità del coobbligato.

In quest'ottica si ritiene che la proposta, al fine di evidenziare la convenienza della soluzione concordataria, indichi già la rilevanza che per i creditori potrebbe assumere "una corretta risposta dei coobbligati rispetto al debito residuo rimasto insoddisfatto".

L’art. 118, invece, richiama in parte l’art.185 l. fall., con alcune modificazione di contenuto che – come precisato dalla relazione illustrativa – mirano a risolvere “i dubbi che si sono manifestati con l ‘attuale disciplina circa gli strumenti di controllo e di intervento del tribunale nella fase esecutiva del concordato mutuandoli dall’intervento operato con l’art. 3, d. l. 27 giugno 2015, n.83 convertito dalla legge 6 agosto 2015, n.132 relativamente all’esecuzione delle proposte concorrenti”. 

La norma in commento ribadisce il concetto (già presente nell’art, 185) che (i) il debitore è obbligato a dare esecuzione alla proposta omologata, anche se formulata da uno dei creditori e che (ii) è compito del commissario giudiziale sorvegliare l’adempimento del concordato e riferire, oltre a ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio per i creditori, anche condotte inerti o ritardi del debitore nel dare esecuzione alla proposta concorrente.

In tale eventualità, il tribunale può attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a porre in atto le condotte omesse dal debitore, in violazione dell’obbligo che su di lui incombe di compiere tutto ciò che è necessario per dare esecuzione alla proposta approvata e omologata.

È infatti possibile che, in caso di approvazione di una proposta concorrente, il debitore non sia particolarmente motivato a dare esecuzione alla stessa.

Ritardi ed omissioni nella esecuzione della proposta concorrente possono essere denunciati anche dai creditori.

In caso di inerzia del debitore nel dare attuazione del piano, il tribunale può attribuire al commissario “ i poteri necessari a darvi corretta esecuzione oppure di revoca dell’organo amministrativo, se si tratta di società, e di nomina di un amministratore giudiziario, fatti salvi i diritti di informazione e di voto dei soci di minoranza” ovvero nominare un amministratore  giudiziario, determinando la durata dell’incarico ed “i poteri che possono essere particolarmente ampi, comprendendo, se il piano prevede un aumento del capitale sociale o altra deliberazione di competenza dell’assemblea, quello di convocare l’assemblea e l’esercizio nella stessa del diritto di voto per le azioni o quote facenti capo al socio di maggioranza”.

Come già previsto dall’art. 185 l. fall., per effetto delle modifiche prodotte dall’art. 2, 2° comma, d. l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito dalla l. 6 agosto 2015, n. 132, alla cancellazione delle formalità iscritte sui beni trasferiti provvede, su richiesta del commissario giudiziale, il tribunale, eventualmente delegando il notaio rogante, con l’innovativa precisazione secondo cui il tribunale opera in composizione monocratica.

La norma, infine, conferma il principio, già presente nell’attuale disciplina, secondo cui in deroga all’art. 2560 cod. civ., l’acquirente cessionario dell’azienda non risponde dei debiti pregressi, salvo diversa previsione del piano di concordato.

L’art. 115 richiama quanto al suo contenuto in maniera pressoché pedissequa (fatti salvi i necessari adeguamenti lessicali per il riferimento alle norme oggetto di richiamo) l’art. 182 l. fall..

È stata persa l’occasione per chiarire se la designazione del liquidatore, ove oggetto della proposta di concordato, sia vincolante per il tribunale .

Di grande impatto e novità è la previsione contenuta all’art. 115, a mente del quale: a) compete sempre al liquidatore giudiziale l’esercizio di “ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti”; b) Compete al liquidatore giudiziale l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, essendo ogni patto contrario o ogni diversa previsione contenuti nella proposta o nel piano inopponibili al liquidatore e ai creditori sociali .

Come chiarito anche dalla relazione, la norma risolve esplicitamente la questione dibattuta circa la legittimazione in capo al liquidatore all’esperimento, successivamente all’omologazione, delle azioni restitutorie, recuperatorie e dell’azione sociale di responsabilità attribuendole al liquidatore, sia che queste debbano essere iniziate in corso di procedura sia che siano già pendenti. Il legislatore ha correttamente concluso, in coerenza con l’art. 2740 cod. civ., che il liquidatore sociale ha il diritto e l’obbligo di realizzare tutte le poste attive comprese nel patrimonio del debitore ivi compresi dunque i contenziosi attivi.

La previsione appare particolarmente risolutiva per ciò che concerne l’azione di responsabilità, sancendo che essa non può essere esclusa da parte della società proponente dal patrimonio offerto in cessione e non necessita per la sua proposizione di una delibera assembleare o di una decisione del collegio sindacale.

Risoluzione e annullamento del concordato.

  1. 3.L’art. 119, in tema di risoluzione del concordato, richiama il corrispondente art.186 l. fall. con alcune importanti novità.

Con riferimento all’attuale disciplina, preme sottolineare come il secondo comma dell’art. 186 l.f. introduca, innovando con il passato, il principio contrattuale dell’importanza dell’inadempimento, ed all’interprete spetti il compito di individuare i limiti entro cui le teorie elaborate da dottrina e giurisprudenza nel terreno civilistico, possano essere applicate e recepite nel diritto concorsuale concordatario.

Sembra preferibile, al riguardo, l'interpretazione per cui la non scarsa importanza vada considerata in termini generali, cioè per il concordato complessivamente considerato, non per il singolo creditore istante; diversamente, essendo la non scarsa importanza un concetto relativo, si dovrebbe mettere la risoluzione del concordato anche nel caso in cui vi fosse un solo creditore istante, rispetto al quale il inadempimento possa assumere rilievo non infimo, mentre, nell'ottica complessiva del concordato, tutto il resto risulta imputato e non sia dunque possibile affermare un inadempimento di una qualche effettiva importanza. 

L'orientamento della giurisprudenza è nel senso che va dichiarata la risoluzione di un concordato quando, contrariamente alle previsioni contenute nel piano e nella proposta accettata dai creditori, risulti certo che non sia possibile nemmeno soddisfare per intero i creditori privilegiati. 

L’inadempimento, anche nella procedura di concordato preventivo, così come nello specifico contesto del rapporto contrattuale litigioso, può presentarsi con mille volti diversi: in relazione alle circostanze di questo, alla natura della prestazione inadempiuta, alle modalità di condotta dell’inadempiente, alla situazione di controparte; può essere inadempimento radicale e definitivo, adempimento parziale, ritardo nell’adempiere, adempimento qualitativamente difettoso. 

Mentre è pacifico che i presupposti per la revoca dell' ammissione al concordato, nel procedimento ai sensi dell’articolo 173 legge fallimentare, si riferiscono a fatti che si collocano cronologicamente in data anteriore rispetto al procedimento di omologazioni, i fatti che costituiscono titolo per la risoluzione del concordato, sia esso preventivo o fallimentare, sono necessariamente fatti posteriori rispetto all’omologazione; e non potrebbe essere diversamente dal momento che la risoluzione non trova titolo in un vizio genetico del contratto, bensì, per regola generale, nella sua in esecuzione.

L’art. 186 tace circa l’oggetto dell’adempimento. È di ausilio, tuttavia, il rinvio all’art. 137 l.f., che espressamente individua quale causa di risoluzione la condotta del debitore, consistente nell’inosservanza degli obblighi assunti nel piano concordatario. 

Rilevano in proposito: a) la mancata esecuzione delle azioni programmate per il soddisfacimento dei creditori (come ad esempio le operazioni di riorganizzazione della società concordataria o l’emissione delle obbligazioni destinate ad essere attribuite ai creditori a titolo solutorio); b) l’inosservanza delle modalità esecutive previste dal piano (come, ad esempio, la mancata consegna al liquidatore giudiziale dei beni oggetto di cessione) o dal tribunale nel decreto di omologazione, quando la violazione possa ripercuotersi sul soddisfacimento dei creditori (così è per la mancata costituzione dei depositi per i creditori contestati) o, ancor prima, impedisca l’esercizio della sorveglianza sull’attività esecutiva; c) la mancata realizzazione dei risultati satisfattori indicati nel piano in modo vincolante, con riferimento sia ai creditori privilegiati sia a quelli chirografari, ed ai differenti trattamenti previsti in caso di formazione delle classi; d) il mancato rispetto dei termini di pagamento stabiliti nel piano; e) la mancata costituzione delle garanzie promesse, unica ipotesi tipica contemplata nell’art. 137 l.f.71, a cui rinvia l’ultimo comma dell’art. 186 l.f. 

Quanto poi al momento a partire dal quale i creditori possono ottenere la risoluzione, la formulazione dell’art. 186 rende manifesta la necessaria sussistenza di un inadempimento già in essere all’epoca in cui viene radicata l’azione, non essendo sufficiente la probabilità, neppure se alquanto elevata, che gli obblighi concordatari non vengano onorati. 

In linea di principio, pertanto, non è configurabile la risoluzione del concordato preventivo ante tempus rispetto alla scadenza stabilita per l’adempimento. Solo nell’ipotesi, piuttosto rara nella pratica, di conclamata e irreversibile impossibilità di adempiere da parte del debitore (si pensi alla distruzione dei beni aziendali per caso fortuito e all’assenza di adeguate coperture assicurative) una domanda di risoluzione anticipata potrebbe essere considerata ammissibile e meritevole di accoglimento. 

Senza dire che il debitore o un terzo potrebbero pur sempre apportare, in limine, risorse esterne tali da scongiurare l’inadempimento. Fatto salvo il caso, naturalmente, in cui il protrarsi della fase esecutiva del concordato comporti un danno per i creditori e che esso risulti evitabile, appunto, con l’anticipata “conversione” in fallimento. 

Quanto infine al dies ad quem dell’azione, la norma è altrettanto chiara nell’individuarlo nell’anno dal termine fissato (nella proposta del debitore) per l’ultimo adempimento previsto dal concordato. E non è evidentemente in alcun modo possibile sostenere che l’azione sia proponibile fino a quando non sia stato posto in essere l’ultimo adempimento: diversamente opinando, infatti, il termine decadenziale verrebbe fatto decorrere non in base a quanto stabilito dalla norma, bensì, contra rationtem legis, da quando sia posto in essere il tardivo adempimento, che oltre tutto potrebbe non verificarsi mai. 

Alla legittimazione dei creditori, per la proposizione dell’azione di risoluzione, si associa quella del “commissario giudiziale ove richiesto da un creditore”: come chiarisce la Relazione, questa opzione espressamente prevista dalla legge delega (art.6, 1° comma, lett. m), “è finalizzata ad evitare che ci siano procedure concordatarie che si prolungano per anni ineseguite in quanto i creditori, spesso scoraggiati dall’andamento della procedura e preoccupati dei costi per l’avvio di un procedimento giudiziale, non si vogliono assumere l’onere di chiederne giudizialmente la risoluzione”. 

La previsione appare importante in un contesto in cui la giurisprudenza della Suprema Corte ha tradizionalmente affermato il principio in base al quale “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”.

Al procedimento di risoluzione, cui si applica il rito uniforme, è chiamato a partecipare l’eventuale garante.

L’art.120 richiama in maniera pedissequa l’art. 138 l. fall., in materia di annullamento del concordato fallimentare, norma la cui applicazione è estesa al concordato preventivo in virtù del richiamo contenuto all’art. 186, 5° comma, l. fall..

Sicché il concordato preventivo “può essere annullato su istanza del commissario o di qualunque creditore, in contraddittorio con il debitore, quando si scopre che è stato dolosamente esagerato il passivo ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo. Non è ammessa altra azione di nullità”.

I termini per l’esercizio dell’azione sono estremamente ristretti: sei mesi dalla scoperta del dolo e, in ogni caso, non oltre due anni dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto nel concordato.

Nel caso in cui venga disposto l'annullamento del concordato preventivo e contestualmente sia dichiarano il fallimento, avesse il provvedimento di annullamento non è dato autonomo reclamo. 

La inammissibilità di questo è affermata in via di interpretazione analogica del disposto dell'articolo 162, terzo comma, legge fallimentare, a tenore del quale, in caso di pronuncia di non ammissibilità della domanda il concordato e contestuale o consequenziale dichiarazione di fallimento, è proponibile unicamente il reclamo ex articolo 18 legge fallimentare, con tale unico mezzo potendo essere fatti valere anche i motivi attinenti allora possibilità della proposta concordataria. 

A tal proposito è stato esattamente osservato che il richiamo dell'articolo 186 legge fallimentare agli articoli 137 - 138 legge fallimentare, relativi alla risoluzione e all’annullamento del concordato preventivo, trova il limite nell’esito dei provvedimenti, giacché, a differenza di quanto avviene per il concordato preventivo, alla risoluzione o all’annullamento del concordato fallimentare non segue la dichiarazione di fornimento piccola posto che questa già è intervenuta. 

In allegato il testo integrale dell'articolo con note.


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