Deboli, svantaggiati  -  Elvira Reale  -  30/08/2023

La giustizia ‘ignorante’: tribunali civili e minorili contro l’autodeterminazione nella cura della propria salute.

Elvira Reale e Gabriella Ferrari Bravo, Centro studi’ Protocollo Napoli’

L’Ordinanza di Cassazione n. 17903 del 22.6.2023 apre nuovamente ad una riflessione, per altro già avviata su queste pagine, sul rapporto tra l’autorità giudiziaria e il diritto dei cittadini e delle cittadine ad accedere liberamente alla cura del proprio benessere psicofisico.  Quest’ordinanza ribadisce un principio costituzionale di grande impatto sulla vita delle persone e la tutela dei loro diritti, in particolare del diritto a non essere conculcati nella loro scelta di libertà per la cura della propria salute.

Infatti, non si tratta della prima pronuncia del Supremo Giudice in materia di libertà delle cure, eppure i tribunali italiani da nord a sud (come messo in evidenza dall’inchiesta sulla vittimizzazione secondaria ad opera della Commissione femminicidio della scorsa legislatura) continuano imperterriti ad assumere comportamenti contrari all’ordinamento giuridico per quando attiene il tema della salute e dell’autodeterminazione.

L’ordinanza citata fa seguito ad altre due pronunce dello stesso tenore: la sentenza della Sez. I Civile, 01/07/2015, n. 13506 e l’Ordinanza, sez. I Civile, 5 luglio 2019, n. 18222.

Con la prima era stato affermato: “La prescrizione ai genitori di sottoporsi a un percorso psicoterapeutico individuale e a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l'imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque, le condiziona a effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l'art. 32 Cost.” “… la prescrizione di un percorso psicoterapeutico individuale e di sostegno alla genitorialità da seguire in coppia esula dai poteri del giudice investito della controversia sull'affidamento dei minori, anche se viene disposta con la finalità del superamento di una condizione, rilevata dal CTU, di immaturità della coppia genitoriale che impedisce un reciproco rispetto dei rispettivi ruoli. Mentre, infatti, la previsione del mandato conferito al Servizio Sociale resta collegata alla possibilità di adottare e modificare i provvedimenti che concernono il minore, la prescrizione di un percorso terapeutico ai genitori è connotata da una finalità estranea al giudizio, come quella di realizzare una maturazione personale dei genitori che non può che rimanere affidata al loro diritto di auto-determinazione”.

Su questa deviazione del potere dei giudici si è espressa ampiamente la Commissione d’inchiesta sul femminicidio della XVIII legislatura, quando ha analizzato, nei casi emblematici, le molteplici indicazioni di trattamenti psicoterapici per adulti contenute nei provvedimenti dei giudici dei tribunali civili e minorili a valle delle decisioni per l’affidamento dei minori.

Dalla relazione d’inchiesta leggiamo infatti:

“Nei provvedimenti giudiziari si trovano inoltre le seguenti indicazioni:

– interventi di stampo psicologico (supporto psicologico individuale, alla genitorialità) per entrambi i genitori;

– sostegno alla genitorialità per i padri inteso come supporto alla ripresa di frequentazione dei figli;

–interventi di supporto psicologico/psicoterapie individuali alle madri finalizzati in genere a modificare i comportamenti personali che hanno indotto i giudici a emettere provvedimenti sanzionatori nei confronti della loro relazione con i figli;

– interventi di psicoterapia/supporto psicologico per la maggior parte dei minori a fronte dei traumi indotti dal cambio di contesto di vita e per riavvicinarli al padre che rifiutano;

– provvedimenti che prevedono nella maggioranza dei casi la presa in carico dei servizi socio-sanitari (anche senza affidamento) per monitorare la situazione;

– richieste tassative di visite psichiatriche per alcune madri, mentre tale richiesta non ha mai riguardato i padri”.

È di tutta evidenza che le pronunce della Cassazione non abbiano fatto breccia nel tessuto giurisdizionale almeno fino alla pubblicazione della relazione d’inchiesta sui tribunali civili e minorili (maggio 2022).

È chiaro che i giudici della famiglia (per intendere l’ambito in cui si svolge la loro azione) ritengono di essere esenti da regole che valgono per altri decisori. Essi quindi continuano dal 2015 ad oggi a non voler comprendere che: 

1. la prescrizione di un trattamento psicoterapico (cioè  sanitario) esula dal potere del giudice in quanto introduce una finalità di cura estranea al giudizio;

2. la prescrizione di un trattamento in campo giudiziario ha un valore che, se non è strettamente impositivo, è certamente condizionante. Come tale è in ogni modo lesivo del diritto alla libertà ed autodeterminazione e viola pertanto la disposizione che vieta l'imposizione (se non nei casi previsti dalla legge) di trattamenti sanitari obbligatori.

I magistrati della famiglia ritengono che in nome del best interest del minore possono ignorare i diritti degli adulti in quanto genitori e imporre le cure, le visite psichiatriche, ecc. ecc. al di fuori di quanto la Costituzione e la stessa legge consentano.

La Cassazione ribadisce quindi, essenzialmente, che i trattamenti psicoterapici, come ogni altro tipo di trattamento sanitario, non possono essere consigliati né indicati dall'AG come risolutivi di questioni che hanno a che fare con i diritti delle persone - ad esempio quello alla bigenitorialità - in quanto assumerebbero un valore di costrizione. Tale costrizione è consentita, nel sistema sanitario, solo nel rispetto della legge sui trattamenti sanitari obbligatori (L. 833/89 art. 33-35).

Guardando all’Ordinanza di questo aprile si riafferma la preminenza del diritto del genitore, nelle vertenze sull’affido dei figli minori, a disporre del proprio corpo psicofisico in rapporto ad eventuali cure che non possono essere prescritte o consigliate dall’autorità giudiziaria, ma solo dall’operatore sanitario. Ricordiamo qui che persino in corso di infarto una persona è libera di farsi curare o meno in un pronto soccorso o in ospedale. Afferma l’Ordinanza: “Questa Corte ha già statuito che, in tema di affidamento dei figli minori, la prescrizione ai genitori di un percorso psicoterapeutico individuale e di un altro, da seguire insieme, di sostegno alla genitorialità, comporta, comunque, anche se ritenuto non vincolante, un condizionamento, per cui è in contrasto con l'art. 13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2, atteso che, mentre l'intervento per diminuire la conflittualità, richiesto dal giudice al servizio sociale, è collegato alla possibile modifica dei provvedimenti adottati nell'interesse del minore, quella prescrizione è connotata dalla finalità, estranea al giudizio, di realizzare la maturazione personale delle parti, rimessa esclusivamente al loro diritto di autodeterminazione (Cass. n. 13506 del 01/ 07/ 2015). Analogamente, nel caso di specie, se è pur vero che il decreto impugnato non ha imposto un vero e proprio obbligo alla ricorrente di intraprendere un percorso psicoterapico per superare le criticità del suo rapporto madre - figlia, avendo esplicitato che si tratta di un invito giudiziale, è indubbio che tale statuizione integri una forma di condizionamento idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione alla cura della propria salute, garantita dall'art. 32 Cost.”

Attingendo ancora ai dati dell’inchiesta della Commissione Femminicidio sulle procedure dei tribunali, troviamo anche i consulenti tecnici allineati alle posizioni interventistiche dei giudici; non si astengono, infatti, dal riversare nei loro pareri tecnici indicazioni di trattamento per tutti: genitori e figli. “In conclusione, i giudici nella maggioranza dei casi si sono attenuti alle indicazioni delle consulenze tecniche e di quelle dei servizi e quando le hanno assunte parzialmente, tuttavia non ne hanno mai messo in discussione l’impianto”.

Sempre dall’inchiesta della Commissione si legge anche altro: consulenti e giudici che, invadendo la sfera sanitaria, raccomandano o costringono maggiormente le donne, le madri, ad accettare - obtorto collo - interventi sanitari, adombrando quasi sempre pseudo patologie gravi, disfunzionalità border, a monte dei loro comportamenti di tutela verso i minori. Si tratta, infatti, di donne che denunciando la violenza del partner si pongono in posizione di difesa di se stesse e dei figli e  per questo  vengono segnalate come madri simbiotiche, alienanti, pericolose e inadatte al ruolo genitoriale.

Dalla relazione: “Si rileva quindi una differenza sostanziale tra i percorsi indicati per i padri e quelli indicati per le madri: quelli indicati per i padri non riflettono quasi mai il problema di modifiche di tratti personali, vissuti ecc., ma essenzialmente sono diretti al sostegno nel nuovo corso del rapporto con i figli; per le madri, invece, si interviene sempre sul piano della modifica degli atteggiamenti finalizzata al superamento di modi di essere considerati distonici rispetto alla bigenitorialità. Anche i provvedimenti dei giudici, così come le relazioni delle consulenze tecniche d’ufficio, non indagano in via prioritaria la violenza segnalata dalle madri, ma si riferiscono esclusivamente alla conflittualità relazionale della coppia che normalmente colpisce il minore, per opera della madre sulla quale ricade il provvedimento punitivo dell’allontanamento”.

Un esempio di quanto sia diverso l’approccio alle madri che denunciano la violenza, responsabili dell’allontanamento del figlio dal padre, e pertanto considerate in via pregiudiziale (senza alcuna prova desunta dalla storia del rapporto madre figlio)  patologiche e bisognose di necessari interventi sanitari, lo troviamo in alcuni provvedimenti del Tribunale civile di Napoli  oggi sotto osservazione (per una serie di inottemperanze relative alla violenza contro donne e minori) nell’ambito dell’attività parlamentare, con  un’interpellanza al ministro della giustizia in un caso e nell’altro con una segnalazione al CSM. 

Riportiamo alcuni stralci dei provvedimenti riferiti ai due casi, solo per la valutazione, oggetto della nostra riflessione in questa sede, dell’imposizione del trattamento e della discriminazione di genere verso le madri, considerate sempre come le maggiori colpevoli della così detta conflittualità di coppia (concetto con cui si tende a tradure e derubricare nei tribunali, ancora oggi, le violenze domestiche).

Caso 1.

“ …disposto l’affido esclusivo della minore al padre, soprattutto in relazione alle inesistenti capacità di cooperazione che i due adulti mantengono, alla impossibilità di valide forme di comunicazione, e in relazione anche alle gravi carenze genitoriali mostrate dalla madre, non tanto sul versante dell’accudimento, quanto sulla necessità di accesso alla vita della minore dell’altro genitore (caratteristica necessaria per la condivisione dell’affido, del tutto carente nella XXX con conseguente pregiudizio per la figlia);…. rilevato che debba darsi riscontro ai suggerimenti del CTU circa i percorsi da seguire, e nella specie per entrambi gli adulti un percorso di psicoterapia individuale e di sostegno alla genitorialità che, soprattutto in relazione alla figura della madre, si concentri la risoluzione delle problematiche emerse in corso di CTU , nonché un percorso di psicoterapia per la minore…sollecita le parti ad intraprendere un percorso psicoterapeutico e di sostegno alla genitorialità, invitandoli a fornire per la prossima udienza, relazioni sull’andamento di tali percorsi…”

Caso 2

Il tribunale: “dispone che il Centro di salute Mentale competente per territorio prenda in carico la sig. XXX per avviarla ad un percorso di diagnosi ed eventuale sostegno psichiatrico-terapeutico”, sulla base delle richieste di un curatore del minore (n.d.r.: non medico ma avvocato) di un approfondimento diagnostico sulla personalità e sulle condizioni psichiche e psicologiche della sig.ra XXX.” 

Questa richiesta viene fatta perché si assume l’ipotesi di una patologia, desunta dai soli comportamenti di tutela della madre nei confronti del minore che ha accusato il padre di abusi sessuali, accuse archiviate non perché il fatto non sussista, ma perché raccolti elementi insufficienti a sostenere l’accusa in giudizio: “il PM formulava richiesta di archiviazione non ravvisando elementi idonei a sostenere l’accusa di abusi sessuali del padre nei confronti del figlio”. Inoltre l’archiviazione procedeva da una consulenza in cui si affermava: “I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sè come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sè l’abuso”.  La consulente affermava, cioè, che i sintomi clinici presenti potevano anche riferirsi ad altre cause senza escludere però, in radice, l’abuso sessuale. Questo giudizio non può ovviamente essere rassicurante per una madre che ha raccolto in primis le confidenze di un bambino e di cui deve farsi necessariamente portavoce in un mondo adulto. Riteniamo che questa affermazione ‘dubbiosa’ della consulente se può motivare, secondo legge, l’archiviazione in un procedimento penale (che è costruito a garanzia dell’imputato e la prova deve essere ‘oltre ogni ragionevole dubbio’) non possa, invece, transitare senza  ulteriori indagini e valutazioni  nel procedimento civile quando in questo contesto cambiano le regole (vige cioè la regola del più probabile che non)  e l’obiettivo centrale non è la garanzia per il reo, ma la tutela del minore. In questo diverso scenario appare immotivato, oltre che anticostituzionale, ‘prescrivere’ (alias imporre) alla madre una visita psichiatrica per giudicarne la capacità genitoriale di fronte allo strenuo comportamento avuto, compatibile con la difesa dell’interesse del minore, comportamento invece non assunto dal tribunale, anche solo a titolo precauzionale. 

Ma andando oltre la questione centrale - dell’imposizione del trattamento ad adulti come anticostituzionale, ma ugualmente praticato nei nostri tribunali - abbiamo verificato collateralmente, sempre nel caso 2, anche un passo in avanti in quella invasione del campo sanitario da parte della magistratura, nell’ambito dell’imposizione al servizio sanitario delle modalità di un trattamento per i minori. 

Lasciando da parte la questione del consenso di un minore che è rappresentato di norma da un adulto (genitore, tutore o curatore), si tratta però, da parte del magistrato di dare una precisa indicazione tecnica rivolta al servizio destinatario dell’incarico di trattare il minore.  Troviamo infatti nel decreto in questione dettami specifici che riguardano l’inquadramento della valutazione psicologica di un minore (la diagnosi sottesa di una qualche disfunzionalità/patologia) e addirittura le indicazioni sul come e in che direzione affrontare il trattamento. 

“XX, inoltre, dovrà svolgere un percorso psicoterapeutico individuale incentrato sulle problematiche di natura emotiva riscontrate e sul miglioramento della gestione delle pulsioni di rifiuto del padre, nonché sull’elaborazione del sentimento di paura emerso nei confronti della figura paterna nel corso degli incontri protetti; ciò potrà favorire nel minore un miglioramento della tendenza a somatizzare il vissuto traumatico a cui è stato esposto, focalizzando il lavoro terapeutico sui forti sentimenti di insicurezza e di inadeguatezza che potrebbero portare il minore, una volta cristallizzati, ad avere notevoli difficoltà nella dimensione sociale. Inoltre, si ritiene necessario tale percorso per favorire nel minore un atteggiamento fiducioso nel recupero delle competenze genitoriali della figura paterna, poiché, ad oggi, il minore esclude completamente un possibile riavvicinamento futuro al padre. Le presenti statuizioni hanno lo scopo di garantire il riavvicinamento del minore alla figura paterna”.

È evidente come ci si trovi davanti ad una abnormità giuridica: un indirizzamento da parte di un’autorità giudiziaria nei confronti di un operatore sanitario su come deve agire e approcciarsi al minore. Si indirizza il sanitario, autonomo del tutto nella sua professionalità e responsabilità, sancita dalle leggi, dai codici deontologici, dalla costituzione nonché dalle regole scientifiche, a valutare come patologico il rifiuto verso il padre e a trattare il minore per modificarne i comportamenti e i vissuti di paura, tanto da raggiungere l’obiettivo richiesto di un “riavvicinamento del minore alla figura paterna ”. 

Troviamo tali comportamenti della magistratura altamente inquinanti il contesto delle cure e della salute anche al di là (in pejus) di quanto individuato dalla Cassazione: non c’è solo in campo l’ignorare l’essenzialità della scelta libera del cittadino nell’ambito delle cure, ma anche il conculcare diritti e prerogative della libera professione e scelta tecnica del sanitario che ha la responsabilità dell’intervento, dalla A alla Zeta, nella parte sia diagnostica sia trattamentale. 

Ribadiamo ancora una volta: la salute e la sanità non sono il campo per le invasioni di potere da parte della magistratura: vi sono in gioco la salute e la vita delle persone, compresi i minori, che vanno rispettate nei loro diritti.  È  bene una volta per tutte che i magistrati non si erigano al di sopra  di leggi, costituzione e convenzioni e, in caso contrario, intervenga  il Consiglio superiore della magistratura, preposto anche ad arginare condotte  di sconfinamento della magistratura dal proprio campo.  

La giustizia ‘ignorante’, perché ignora i diritti, è comunque accompagnata anche da una psicologia ‘ignorante’, quando gli operatori sanitari, e gli psicologi in particolare, continuano ad operare come longa manus  del potere giudiziario, non rivendicando a sé quella autonomia professionale che il codice deontologico della professione prevede ed impone. 

Il codice deontologico degli psicologi e psicologhe nella nuova versione del 23 aprile 2023, (da sottoporre ancora a referendum) indica con chiarezza l’autonomia della professione e il suo riferimento costante all’interesse dell’utenza prima che al committente.

“Articolo 6 – Autonomia professionale 

“La psicologa e lo psicologo accettano unicamente condizioni di lavoro che non compromettano la loro autonomia professionale”

Articolo 22 – Condotte non lesive

La psicologa e lo psicologo adottano condotte non lesive per le persone di cui si occupano professionalmente, e nelle attività sanitarie si attengono alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali.

Articolo 24 – Consenso informato sanitario nei confronti di persone adulte capaci

Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. L’acquisizione del consenso informato è un atto di specifica ed esclusiva responsabilità della psicologa e dello psicologo

Articolo 32 – Prestazione richiesta da un committente

Quando la psicologa e lo psicologo acconsentono a fornire una prestazione professionale su richiesta di un committente diverso dalla persona destinataria della prestazione stessa, sono tenuti a chiarire con le parti in causa la natura e la finalità dell’intervento.

In tutti i casi in cui la persona destinataria ed il committente non coincidano, la psicologa e lo psicologo tutelano prioritariamente la persona destinataria dell’intervento stesso”.

Da questa raccolta di articoli del nuovo codice deontologico appare evidente che le richieste dell’Autorità giudiziaria non solo  cozzano con il principio della libera scelta dei trattamenti e delle cure sugli adulti capaci, ma contrastano con gli imperativi deontologici che non prevedono che un trattamento possa essere disposto da terzi nel ruolo di committente ed effettuato senza il consenso libero della persona e non può, ad adiuvandum, assolutamente seguire gli interessi del committente piuttosto che gli interessi dell’utente.


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