L’ INTRECCIO TRA MEDICINA DI GENERE E I DANNI DA VIOLENZA SULLA SALUTE
Il referto psicologico fa il suo ingresso in Italia nel patrimonio del contrasto alla violenza di genere contro le donne, attraverso un percorso specifico che interconnette le esperienze nazionali con la ricerca internazionale.
Passa sia attraverso le determinazioni internazionali dei massimi organismi deputati alla difesa della salute, sia dall’ esperienza del movimento delle donne sia nazionale sia internazionale. L’esperienza del self help nell’ambito della salute rifluisce in Italia nella costruzione di servizi dedicati alle donne, negli anni 70-80, come i consultori autogestiti e le case ed i centri per le donne maltrattate, ma anche in alcuni servizi di salute mentale dedicati alle donne (esperienze di Napoli e Trieste all’esito della chiusura del manicomi).
La pratica del self help nell’ambito della cura della salute costituisce la prima affermazione, nei nostri tempi, dell’autonomia delle donne nei confronti della medicina e dei suoi pregiudizi. Il libro che ha fatto la storia di questa presa di posizione del movimento delle donne è “ Noi e il nostro corpo” che raccoglie il punto di vista delle donne sulla salute e sessualità femminile, attraverso uno scambio di esperienze trasversali senza la presenza di tecnici. Accanto al self help, come metodo di autocura, vi sono altre esperienze che mettono al centro il principio di una cura condivisa con tecnici donne, ovvero il principio di ‘donne che curano donne’. Questa modifica del principio del self help riguarda appunto la costruzione dei servizi consultoriali, inizialmente autogestiti, e anche dei centri anti-violenza che si sviluppano come luoghi al servizio delle donne maltrattate, luoghi in cui prevale una gestione mista tra associazionismo e istituzioni locali. In Italia, rispondono al principio di ‘donne che curano donne’ negli anni 80 anche alcuni servizi di salute mentale. Questi servizi sono luoghi di riflessione critica sulla psichiatria pervasa da uno sguardo maschile sul disagio femminile; essi prospettano un altro punto di vista per delineare le ragioni del disagio femminile partendo dall’analisi della vita quotidiana, gravida per le donne di stressor (lavoro di cura, doppio lavoro, violenza) che pesano sulla loro salute mentale. Questa riflessione è - all’inizio degli anni 80 - contenuta in una ricerca clinica sulla malattia mentale e sulle donne che ricorrono ai servizi di salute mentale; una ricerca che mette in discussione strumenti e metodi della psichiatria.
La ricerca condotta all’interno del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) da parte di un gruppo di psicologhe e psichiatre napoletane ha dato vita al primo servizio di salute mentale per le donne a Napoli, come prototipo anche di altre esperienze successive a livello nazionale. La ricerca clinica napoletana ha avuto come suo riferimento internazionale la ricerca sociologica inglese che ha reinterpretato il disagio femminile ricorrendo alla valutazione dei fattori di rischio psico-sociali lontani dai tradizionali fattori biologico-ormonali della psichiatria.
Questo coagulo di esperienze che ha visto le donne lottare per la tutela della propria salute mettendo in campo esperienze innovative ha contributo a produrre negli anni 90 grandi trasformazioni all’interno del campo sanitario. La medicina ha raccolto le critiche delle donne nei vari contesti geografici e da più versanti ha iniziato la sua trasformazione da medicina gender blind a medicina che accoglie al proprio interno la differenza di genere come principio e metodo della sua attività clinica e di ricerca. La medicina fino all’inizio degli anni ‘90 aveva sempre visto le donne portatrici di un’unica specificità, la salute riproduttiva, senza soffermarsi su tutte le altre differenze fisiche e psicologiche che intercorrevano tra i due sessi.
Nasce in America dal settore della cardiologia, la ufficializzazione di una Medicina che guarda alla differenza di genere. La medicina di genere ha come finalità il comprendere in che modo le malattie di tutti gli organi e sistemi si manifestino nei due sessi e, soprattutto, valutare le differenze di genere rispetto ai sintomi delle malattie, alla necessità di differenti percorsi diagnostici e interpretazioni dei risultati, alle differenze nella risposta ai farmaci, e ancora alle differenze rispetto alla prevenzione, andando a inquadrare, con appropriatezza per i due generi, i fattori di rischio psico-sociali. Nella medicina gender-oriented, sesso e genere sono due concetti che si integrano: il sesso riguarda le differenze biologiche; il genere le differenze derivate dai diversi ruoli sociali attribuiti in modo diverso (e molto spesso ingabbiante il desiderio personale) al maschile e al femminile. Nascere donna ad esempio significa avere un apparato osseo diverso, un sistema cardiocircolatorio non sussumibile sotto la conoscenza di quello maschile e così via, ma anche vuol dire avere tradizionalmente attribuiti ruoli sociali che incombono come pesanti e gravosi stressor sulla sua vita, ad esempio il doppio carico di lavoro non riconosciuto e la violenza di coppia e familiare. La medicina di genere man mano si afferma nel mondo, coinvolgendo tutti i suoi settori e portando il contesto sanitario a parlare di specifici fattori di rischio per la salute mentale e fisica delle donne, come in primis la violenza.
Se all’inizio degli anni 90 la medicina di genere irrompe sulla scena internazionale, alla fine degli anni 90, la medicina di genere arriva in Italia portata proprio da quel gruppo di psicologhe e psichiatre napoletane che, come antesignane, avevano esplorato la strada della differenza di genere nel campo della salute mentale riconoscendo, grazie all’esperienza clinica del servizio dedicato alle donne, la violenza come fattore eziologico e di rischio per molte patologie tra cui in primis la depressione. Di questa nascita della medicina di genere che ha contribuito a introdurre e consolidare nel contesto sanitario una lettura della salute della donna aperta ai temi della violenza, percorreremo in breve le tappe internazionali e nazionali.
1.1 Il percorso internazionale della medicina di genere
Il percorso internazionale della Medicina di genere inizia con un famoso editoriale di Bernardine Healy, cardiologa, sulla rivista New England Journal of Medicine in cui parlò di “Yentl Syndrome” a commento di due articoli pubblicati nella rivista (John Z. Ayanian: Differences in the Use of Procedures between Women and Men Hospitalized for Coronary Heart Disease; R.M. Steingart: Sex Differences in the Management of Coronary Artery Disease,). Il suo editoriale parlava di Yentl, l’eroina di una storia del Premio Nobel I.B. Singer, che dovette rasarsi i capelli e vestirsi da uomo per poter accedere alla scuola ebraica e studiare il Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, ma si riferiva alla discriminazione delle donne nel settore cardiologico. Denunciò quindi come le donne fossero meno ospedalizzate, meno sottoposte a indagini diagnostiche e terapeutiche (trombolisi, stent, bypass) rispetto agli uomini; inoltre sottolineava come le donne fossero per nulla o poco rappresentate nelle sperimentazioni farmacologiche. Da quell’articolo che ebbe la forza di imporsi nel mondo scientifico prende le mosse la medicina di genere che divide l’uno, il neutro maschile, in due.
Accanto alla critica della medicina, cieca al genere, sul versante della cardiologia, compare anche la critica sul versante delle malattie mentali la cui prevalenza nelle donne veniva attribuita ai fattori genetici e biologico-ormonali misconoscendo l’impatto degli stressor psico-sociali e ambientali, per altro utili alla prevenzione. In particolare costituiscono pietre miliari di questa critica che si afferma sul piano internazionale, il rapporto di Piccinelli e Gomez, studiosi dell’Organizzazione mondiale della sanità, che asseriscono che i fattori psico-sociali sono quelli che raccolgono le maggiori evidenze nell’eziologia dei disturbi affettivi delle donne; e lo studio della Campbell che porta in primo piano la depressione nel suo collegamento alla violenza.
Di seguito le tappe dell’affermazione della medicina di genere a livello internazionale e a seguire le pronunce internazionali sulla necessità per il contesto sanitario, in un’ottica di genere, di scendere in campo contro la violenza sulle donne imparando a riconoscerne la presenza attraverso i segnali patologici sia fisici, sia psichici.
Negli stessi anni, la medicina si interessa di aprire la ricerca e gli studi clinici sul collegamento tra salute delle donne (affrancata dalla visione maschile e neutra della medicina tradizionale) e violenza come uno dei principali fattori di rischio responsabili dell’insorgenza o della cronicizzazione di molte patologie, tra cui ampio riferimento viene fatto alle patologie mentali, tra cui la depressione, riconosciuta a alto impatto sulla popolazione femminile, ma fino a quel momento, sempre interpretata dalla psichiatra tradizionale, con criteri endogeni (apparato riproduttivo e ciclo ormonale) risalenti alla proto psichiatria di Charcot.
1.2 Il percorso internazionale del riconoscimento della violenza in medicina
A lanciare nel 1992 il mea culpa della medicina sulla cecità dimostrata nel non aver saputo leggere dietro la morbilità femminile la violenza è l’Associazione dei medici americani. L’AMA scende in campo con un documento pubblicato sulla rivista “JAMA (Journal of American Medical Association)”, che recita il mea culpa della categoria contro la propria miopia nell’individuare e diagnosticare i danni della violenza e del maltrattamento sulle donne, contribuendo al proliferare di una cattiva prassi medica. “Elementi di prova raccolti nel corso degli ultimi 20 anni indicano che la violenza fisica e sessuale contro le donne è un problema enorme. Gran parte di questa violenza è perpetrata dal partner (Intimate Partner Violence) e avviene all’interno di rapporti presumibilmente protettivi (ad esempio padre-figlia, ecc.). Questa violenza porta con sé, sia a breve che a lungo termine, conseguenze che riguardano il benessere fisico e psicologico delle donne” .
Di seguito, le tappe successive che coniugano il nuovo punto di vista di genere in medicina con l’approfondimento della violenza come principale fattore eziologico e di rischio per la salute delle donne.
1.3 I primi passi della medicina di genere in Italia con l’esito dell’introduzione di sportelli per la violenza nel contesto sanitario
La medicina di genere nuove in Italia i primi passi nel 1998, quando si costituisce, su input del team napoletano impegnato da circa 15 anni sul fronte della tutela della salute mentale delle donne, un primo gruppo di donne – mediche, psicologhe e sociologhe delle istituzioni sanitarie su scala nazionale - che collabora ad un progetto con l’allora ministra per le Pari Opportunità, Laura Balbo.
In queste due ultime iniziative, e nel solco dell’applicazione della medicina di genere, si riconoscono le differenze tra uomini e donne nei percorsi di malattia, cura e prevenzione, e si dà ampio risalto al tema dell’approccio alla violenza nel contesto sanitario.
“ L’approccio di genere alla salute: una innovazione necessaria. Rilevante è ancora la sottovalutazione dei bisogni di salute delle donne all’interno di una ricerca medica centrata sull’uomo e sulla sua realtà biologica e sociale, il pregiudizio scientifico che considera i processi morbosi delle donne con una prevalente derivazione biologistica-ormonale e quelli degli uomini con una prevalente derivazione socio-ambientale e lavorativa. Studiare e capire le differenze di genere è quindi elemento essenziale per il raggiungimento delle finalità stesse del nostro sistema sanitario, per garantire che vengano identificati gli indicatori di equità di genere, fino ad oggi non riconosciuti o sottostimati” ( Min. Salute, 2008, pag. 22)
In questo contesto di salute pubblica si inserisce il progetto di un intervento pratico e di una discesa in campo della sanità italiana con l’apertura di sportelli dedicati alle vittime di violenza nei Pronto Soccorso ospedalieri.
Il progetto è la risultante di una presa d’atto:
La proposta di aprire sportelli per le vittime nei pronto soccorso si ispira al fatto che: “Ai consultori, ai centri dell’associazionismo femminile e del volontariato sociale arrivano donne che hanno già deciso di chiedere aiuto per uscire da un legame violento, mentre al pronto soccorso di un ospedale arrivano donne diverse, non meno sofferenti, ma ancora incapaci di dare un nome a ciò che è avvenuto….Ambito privilegiato per l’apertura di sportelli “dedicati” è sicuramente quello ospedaliero, con particolare attenzione al Pronto Soccorso, per offrire accoglienza, ascolto e informazione alle donne che vi afferiscono e che presentano caratteristiche direttamente o indirettamente collegabili ad una storia di maltrattamento e abuso. Tali sportelli diventeranno punto di riferimento nonché preziosa risorsa anche per il personale sanitario impegnato nei vari reparti. Ipotizzare l’apertura di sportelli dislocati sul territorio nazionale significa individuare le realtà e gli operatori più sensibili da cui partire per un primo livello di sperimentazione” ( Min. Salute, 2007, pag.34).
Dal 2008 quindi, sulla scia delle trasformazioni operate dalla medicina di genere nel contesto sanitario, si apre la sperimentazione di sportelli nei pronto soccorso che verranno attivati nei luoghi dove già si erano distinte sensibilità clinico- organizzative nei confronti delle donne e della loro salute.
2. Il referto psicologico, un modo per attestare la violenza ‘invisibile’ contro le donne
Napoli, abbiamo visto, è stata la sede in cui da anni era stata avviata l’esperienza di un centro di salute mentale per le donne, che aveva messo in campo una lettura del disagio psichico correlato allo stress della vita quotidiana femminile rappresentato dal lavoro di cura, dal doppio carico di lavoro, dalla violenza nelle relazioni familiari. Quella esperienza aveva messo in evidenza, in ambito clinico, l’impatto distruttivo della violenza sulla salute della donna, ma anche aveva permesso di decifrare la violenza psicologica come strumento utilizzato nella relazione di coppia per ottenere, senza contatto fisico, la compliance della vittima ad uno stato di soggezione e privazione di libertà, con scarsa consapevolezza della donna dei meccanismi di azione dell’uomo violento che portavano alla comparsa di vissuti di disistima e colpa. Si trattava di focalizzare l’attenzione sugli aspetti psicologici della violenza di coppia e del percorso della violenza verso uno stato nelle donne di depauperamento di risorse, energie e salute.
Si è iniziato quindi il lavoro ospedaliero nel 2008 con la formazione istituzionale degli operatori medici nel Pronto Soccorso dell’Ospedale San Paolo di Napoli e successivamente si è aperto il primo “percorso rosa” dedicato alle donne vittime di violenza nel 2009, caratterizzato da subito dall’essere finalizzato a cogliere sia la violenza fisica che quella psicologica nella consapevolezza che la violenza psicologica e gli effetti psicologici della violenza, rischiavano di rimanere nell’ombra se non si fossero attivati servizi e competenze capaci di intervenire su di essi.
L’importanza di un servizio psicologico in Pronto Soccorso si deduce dal fatto che il danno fisico non è l’effetto più frequente della violenza di genere (degli uomini sulle donne). Gli effetti più comuni sono quelli psicologici. Molte donne vengono al Pronto Soccorso, ma il legame tra la lesione psichica e la violenza domestica spesso non è riconosciuto e le donne non ricevono una diagnosi e un trattamento adeguati. In più le donne non vanno in Pronto Soccorso se subiscono solo violenze verbali, che spesso, contenendo minacce o propositi omicidiari a scopo di vendetta, nascondono anche maggiori rischi rispetto ad attacchi fisici occasionali.
La consulenza e il supporto psicologico in PS sono poi consigliati perché qualificano l’assistenza sanitaria in modo globale in quanto colgono l’unità psico-fisica delle donne vittime di violenza e dei loro figli minori.
Anche le linee guida nazionali indicano come la visita in PS “ sia importante per la donna costituendo un’occasione unica di disvelamento della violenza e di assistenza sia sanitaria sia psicologica. L’assistenza psicologica deve essere fornita da una psicologa (si considera preferibile in questo ruolo l’intervento professionale di una operatrice donna) su richiesta/consenso della donna, qualora presente in ospedale o fornita dalla rete territoriale anti-violenza. La violenza può essere stata vissuta come una aggressione mortale o può essere solo l’ultimo di una lunga serie di episodi, per cui la donna ha sviluppato nel tempo una sorta di anestesia dei sentimenti. La visita medica è un’occasione irripetibile per garantire un’assistenza adeguata alle necessità psicologiche e sanitarie della donna. Al contempo sarà assicurata una successiva assistenza psicologica, qualora la donna lo desideri, che potrà essere effettuata dalla psicologa dell’ospedale, se presente, o da una professionista della rete territoriale anti-violenza”.
Quindi, dopo l’intervento medico in PS il percorso di tutela delle donne che subiscono violenza (percorso ‘rosa’) può proseguire con la consulenza e l’assistenza psicologica (l’intervento psicologico è successivo all’intervento medico, è consigliato e raccomandato come prosieguo e approfondimento dell’osservazione medica, ma può essere differito ed è una libera scelta della donna che decide se usufruirne o meno).
Il servizio di prima assistenza psicologica ha la finalità di mettere al centro quegli aspetti subdoli della violenza cd. invisibile, di dettagliarne le forme e le modalità con cui si inserisce nella vita della donna abbassandone il livello di autonomia e di autodeterminazione. Al centro dell’intervento psicologico è infatti la visualizzazione del controllo coercitivo, considerato il cuore della violenza di coppia perché è l’espressione tipica del rapporto di potere uomo donna; esso incide sulla limitazione della libertà personale attraverso le minacce sulla vita della donna e di altri familiari, sulla perdita di beni economici, sulla perdita della relazione con i figli.
Tra i vari autori, Evan Stark ha portato la critica più pertinente a quella posizione che vedeva nella violenza psicologica una violenza lieve non paragonabile alla violenza fisica con le sue tracce evidenti. Stark ha opposto quindi al modello della violenza come aggressione e lesione fisica il modello del controllo coercitivo come modello più esaustivo della condizione della donna maltrattata e dei rischi che corre per la sua salute psico-fisica. Conoscere il livello di controllo che un abusante esercita su una vittima è più utile nell’approccio di tutela e nell’erogazione di servizi. “La violenza fisica e sessuale, tuttavia, è praticamente sempre accompagnata da violenza psicologica, il che implica che gli effetti sulla salute della violenza fisica o sessuale senza violenza psicologica non possono essere determinati. Il controllo del comportamento è spesso la prima espressione di maltrattamenti in una relazione. Il controllo pone le basi per la violenza grave e la ricerca ha dimostrato che la vulnerabilità delle donne agli abusi fisici e sessuali è in genere un sottoprodotto di un modello di dominio precedentemente stabilito che ha disabilitato la loro capacità di mobilitare risorse personali, materiali e sociali per resistere o scappare”. Ancora: “Il risultato primario della violenza domestica è una condizione di intrappolamento (paragonabile alla condizione di una persona presa in ostaggio o sequestro) che infligge danni alla dignità, alla libertà, all’autonomia, in modo da compromettere le capacità di reazioni protettive”.
Quando c’è il controllo coercitivo, c’è anche: deprivazione materiale, isolamento, degrado, sfruttamento e regolamentazione delle attività in aggiunta anche a livelli cronicamente elevati di paura e sofferenza psico-fisica. Stabilire un approccio competente sulla violenza psicologica ed il controllo coercitivo consente agli operatori sanitari una valutazione corretta anche di quelle violenze che non lasciano tracce fisiche. Di ciò è stato ben convinto il governo inglese che ha varato nel 2015 una legge che penalizza proprio il controllo coercitivo.
La definizione del Governo inglese, riferita alla legge del 2015 riguarda la violenza domestica comprendente il controllo e la coercizione: “Il comportamento di controllo coercitivo non si riferisce a un singolo incidente, è un modello di comportamento intenzionale che si svolge nel tempo affinché un individuo eserciti potere, controllo o coercizione su un altro.
– Il comportamento di controllo è: una serie di atti progettati per rendere una persona subordinata e/o dipendente isolandola da fonti di supporto, sfruttando le sue risorse e capacità di guadagno personale, privandola dei mezzi necessari per l’indipendenza, la resistenza e la fuga e regolando il suo comportamento quotidiano.
– Il comportamento coercitivo è: un atto continuo o un modello di atti di aggressione, minacce, umiliazione e intimidazione o altri abusi che viene utilizzato per danneggiare, punire o spaventare la vittima.
La valutazione della responsabilità si concentra sull’autore che ha scelto di attuare questi comportamenti”.
Il controllo coercitivo è descritto anche come “terrorismo intimo” , riferendosi a un modello di comportamento che stabilisce il dominio su un’altra persona attraverso sistematiche restrizioni alla libertà e all’indipendenza; le persone che sperimentano un controllo coercitivo sono spesso isolate da amici, familiari o da altri gruppi di supporto; sono intrappolate nella relazione a causa di ostacoli economici, logistici, sociali o emotivi che non consentono la fuga o che rendono le persone timorose non solo per la propria sicurezza, ma anche per quella dei membri della famiglia, dei figli e delle altre persone nella loro rete relazionale. Il controllo coercitivo può infondere paura, attraverso un sistema di minacce e intimidazioni, anche senza ricorso alla violenza fisica, e può continuare dopo la fine della relazione.
Nel quadro complesso dei significati spesso nascosti di questa violenza, inserire uno sportello di ascolto e di prima assistenza psicologica nel percorso ospedaliero del Pronto Soccorso divine essenziale per la tutela delle donne e significa:
- sia avere la possibilità di rendere visibile questa violenza che parla di minacce, di intimidazioni, di limitazioni senza ricorso alla violenza fisica;
- sia di misurare gli effetti psicologici di ogni altro tipo di violenza fisica, sessuale, economica per mostrare l’ampio ventaglio di danni che producono nella vita della donna.
Lo sportello di prima assistenza psicologica per le vittime di violenza ha una doppia finalità:
- sostenere psicologicamente le donne e fare luce sul loro ruolo di vittime ‘incolpevoli’ nei primi momenti in cui si recano in ospedale, quando sono preda di sentimenti contrastanti, di incertezze, di uno stato di confusione in cui non mettono a fuoco le responsabilità del violento spesso addossandosi tutte le sue colpe;
- documentare quello stato particolare in cui si trovano attestando (nel referto) una condizione post traumatica, che fa luce sul loro stato emotivo e psicologico , senza creare equivoci circa la loro attendibilità nel fornire gli elementi della violenza subita.
Sostenere
Il trauma di cui ci occupiamo, è un trauma relazionale, il trauma che ha maggiori effetti negativi sulla stabilità psichica di una persona: quello relativo ad una relazione intima (Intimate partner violence). Questo trauma, che affonda le sue radici nel legame affettivo, ha tre effetti immediatamente evidenziabili in un intervento in emergenza:
– il senso di responsabilità/colpa personale che la vittima porta con sé;
– il senso di incapacità personale e di disperazione per il futuro;
– la sottovalutazione del trauma e dei suoi effetti sulla salute e sulla vita;
La percezione di una responsabilità personale in un fatto traumatico relazionale (quale è la violenza maschile contro le donne) negativo per sé, la propria vita o la vita degli altri è molto ampia e si associa immediatamente al senso di incapacità e inadeguatezza. L’incapacità personale è rappresentata nella percezione di non aver saputo fronteggiare l’evento, nell’averlo fatto precipitare; poi, come effetto della violenza, la vittima focalizza l’attenzione sulle ragioni portate avanti dall’autore della violenza che minimizza o nega la violenza da lui perpetrata e ingrandisce le responsabilità della vittima nel non saper fare, nel non saper essere, nel non….ecc. ecc. acuendo il suo senso di incapacità a essere una buona compagna, una buona madre, una buona lavoratrice.
Ecco queste percezioni della violenza che accompagnano la vittima – responsabilità personale, alias senso di colpa, inadeguatezza personale e sotto-rappresentazione della gravità della violenza subita– sono gli elementi che vanno prontamente identificati nell’osservazione in Pronto Soccorso, sia perché, come abbiamo visto, sono i segni traumatici più vistosi che ci permettono di fare una diagnosi appropriata, sia perché nel dare le prime cure devono essere rapidamente destrutturati.
Così che il primo risultato da conseguire nell’assistenza psicologica alle vittime è la deresponsabilizzazione rispetto alla violenza subìta e la riduzione del senso di colpa e di vergogna per quanto subito .
L’intervento psicologico in emergenza si dispiega in 3 fasi.
La prima fase poggia su una attività osservazionale che punta a cristallizzare la condizione traumatica con cui la donna si presenta attraverso:
la raccolta del riferito;
La seconda fase punta ad aiutare la donna a posizionarsi diversamente nei confronti del trauma, e cioè:
La terza fase è centrata sul recupero delle risorse personali e sulla riattivazione della capacità di autotutela e tutela dei minori:
Questo intervento di destrutturazione della condizione di stress traumatico accompagna l’attività di osservazione e di refertazione costituendo un background indispensabile al percorso successivo di uscita della donna dalla violenza attraverso la rete extra-ospedaliera di sostegno.
Documentare
Il referto, con la documentazione di quello specifico stato emotivo, colto nelle vicinanze temporali dell’accaduto, costituisce un potente alleato della vittima anche nelle successive sequele giudiziarie: raccoglie i dati della violenza e ne attesta gli esiti e tutto questo da parte di coloro che svolgono funzioni di pubblici ufficiali, la cui “fede è data fino a querela di falso” (così come definito dall’art. 2700 c.c.).
Il referto con l’osservazione psicologica della persona non necessita di ‘contraddittorio’, ovvero di ascolto di una presunta controparte, come a volte si pretende da parte degli autori di violenza che sia fatto in Pronto Soccorso. Si potrebbe forse immaginare che un operatore sanitario che raccoglie le evidenze di un malessere e quanto la persona riferisce sulle sue cause, chieda anche a terzi la versione dei fatti? È ovvio che no, per cui è risibile voler disconoscere l’importanza di un referto sanitario, valido fino a querela di falso, dicendo che è in atto di parte.
Dal punto di vista psicologico, la donna porta all’osservazione una condizione traumatica (il trauma da violenza di cui si è parlato). La condizione traumatica è una condizione che può intralciare la memoria e la ricostruzione dei fatti; così come le reazioni al trauma possono essere molteplici (su un asse che va dalla fuga all’immobilizzazione, dall’urlare al mutismo, dall’agitazione al congelamento delle emozioni) e non si limitano a reazioni univoche “sponsorizzate” dal contesto giudiziario.
Se poi ci concentriamo sugli aspetti del trauma, ne possiamo dedurre che un soggetto traumatizzato non è il migliore testimone degli eventi a lui accaduti. Questi può presentare una ricostruzione dei fatti viziata da lacune e interferenze emotive: queste rischiano di limitare la possibilità di una comprensione adeguata da parte di altri del narrato della vittima e dei suoi stati emotivi.
Questo è il motivo principale per cui un’attestazione, un referto di Pronto Soccorso, di quanto accaduto che raccolga il riferito della persona, sostenuto dalla competenza psicologica, ha un valore molto speciale.
La donna vittima di violenza può dire quello che è successo, se sostenuta nel racconto da un esperto che la stimola a rappresentare il più compiutamente possibile la violenza; la vittima può parlare della sua reazione (fuga o immobilizzazione) e il tecnico può esplorare in dettaglio i pensieri e i vissuti in quel momento e spiegare ad esempio che essersi appiattita in una sorta di immobilità è di fatto, non solo una possibile reazione al trauma, ma anche la reazione migliore in quel contesto in rapporto alle esigenze di sopravvivenza; può soprattutto allontanare il sospetto che quel comportamento possa significare accettazione, compliance o mancanza di dissenso.
Per questo è necessario nei casi di violenza avere l’apporto di chi per professione ed esperienza è capace di rappresentare il ruolo giocato dal trauma nel modo con cui una vittima di violenza domestica in particolare rappresenta se stessa e i fatti accaduti; nonché di cogliere e descrivere le relazioni tra i fatti di violenza (e soprattutto raffigurare i fatti di violenza domestica, che sono, “a statuto speciale” perché si fondano su una relazione intima tra vittima e carnefice) e le reazioni individuali, comprensive dei meccanismi di difesa messi in atto per sopravvivere alla violenza stessa.
L’intervento psicologico come difesa della vittima nasce proprio dall’esigenza di rappresentare i fatti traumatici, i loro effetti e, attraverso di essi, ricostruire gli eventi di violenza e il ruolo assunto dalla donna; ruolo che rischia di essere considerato collusivo quando non rappresentato nella cornice corretta delle possibili reazioni di autotutela o tutela della prole.
Questo intervento serve anche a orientare chi deve giudicare i reati di violenza, illuminando il significato degli stati emotivi altalenanti, che la maggioranza delle donne, vissute a lungo in relazioni violente, presenta: da un lato, paura del carnefice, dall’altro amore e rifiuto delle conseguenze afflittive per il violento (molte donne non tollerano l’idea che il partner possa andare in carcere). Amore e paura si mescolano nel seguente modo: paura dei comportamenti violenti, amore per il violento, in un’alternanza che prevede alla base un meccanismo di separazione tra i comportamenti violenti e la persona violenta, come se quei comportamenti non appartenessero alla stessa persona. Ricordiamoci che questa percezione è facilitata da una storia pregressa di scelta del partner per amore o da ripensamenti ciclici in cui il partner si pente e chiede scusa per la violenza inflitta, mostrandosi come il più amorevole compagno/marito.
Questo dualismo (tipico è il ricorso, nella percezione che la donna ha dell’uomo, alla figura letteraria del dott. Jekyll e mister Hyde) coinvolge non solo le donne adulte ma anche i minori. Le bambine e i bambini maltrattati e abusati esprimono frequentemente questa dicotomia: paura del genitore maltrattante, in genere il padre, ma anche affetto per il padre. Più lungo è l’abuso, più il legame traumatico con la dipendenza affettiva dal genitore abusante è stretto.
Questi problemi, definiti da altri come “ambivalenza”, possono arrecare danno alla testimonianza della parte offesa, che, nei reati di maltrattamento e abuso in particolare, può apparire confusa, incoerente e contraddittoria agli occhi di chi, ad esempio un giudice, non ha conoscenza specifica dei meccanismi di soggezione alla violenza.
In sintesi, la donna traumatizzata, con gli esiti il più delle volte di un trauma complesso come quello relativo alla relazione con un partner intimo, può trarre giovamento da una attività di refertazione psicologica che partendo dal suo narrato e correlandolo con lo stato emotivo attesta nei fatti la coerenza delle sue dichiarazioni.
Il referto psicologico, oltre a documentare hic et nunc uno stato emotivo correlato agli eventi di violenza riferiti, consegna poi quello stato emotivo anche a valutazioni successive quando le condizioni psicologiche della donna saranno diverse. Il referto costituisce, così, un modo per cristallizzare un contenuto emotivo (che poi potrà andare disperso in condizioni diverse e successive) attraverso un racconto dettagliato dell’evento traumatico. Sottolineiamo poi un altro aspetto di questo documento, come messo in luce dal Dipartimento della Giustizia americano : (un referto in generale) non solo cristallizza un racconto e gli aspetti emotivi correlati, ma in questa correlazione attesta, se c’è, anche la coerenza tra quanto narrato e quanto risperimentato e rivissuto emotivamente durante il racconto, cosa che fonda un giudizio di attendibilità psicologica di quanto riferito dalla donna.
Il referto psicologico diviene uno strumento utile per rendere visibile ad occhi non esperti, compresi gli occhi della vittima, la lesione psichica che ha comportano in termini di svalutazione di sé, di compressione della libertà personale.
Il referto psicologico è stato asseverato dalla Procura di Napoli come strumento utilizzabile processualmente, di seguito la sua posizione sull’inquadramento giuridico del referto psicologico.
“Traslando questi principi al caso che ci occupa, si può ritenere che in forza della duplice articolazione del referto psicologico (parte dichiarativa della vittima; parte valutativa da parte del sanitario) non si può escludere un carattere documentale al referto nella parte in cui esso ha a oggetto l’osservazione diretta, a cura del sanitario, in ordine allo stato emotivo, cognitivo e comportamentale della vittima, nonché alle deduzioni effettuate dallo stesso sanitario in ordine all’attendibilità psicologica della persona e alla diagnosi complessiva che – partendo dal narrato – fornisce indicazioni sulle condizioni psicologiche della vittima. In questi termini al referto psicologico può essere riconosciuta valenza documentale e conseguentemente può esserne richiesta l’acquisizione in di-battimento e l’utilizzazione in parte qua, fatta salva naturalmente la facoltà per il giudice di disporre l’audizione del firmatario” (Documento della Pro-cura presso il Tribunale di Napoli dell’1.2.2014).
Il referto psicologico dal gennaio 2020 è entrato nelle linee guida regionali della Campania ad integrazione di quelle nazionali sul percorso in PS delle donne che subiscono violenza ed e stato oggetto di una pubblicazione ad hoc.
In allegato l'articolo integrale con note
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