<Magnanima menzogna, or quand’è il vero / sì bello che si possa a te preporre?” si chiede Torquato Tasso nella Gerusalemme Liberata (cap.22, 22, 3-4): la citazione si trova in un piccolo libro pubblicato da Sellerio nel 1992, Elogio della menzogna, che raccoglie quattro scritti di autori diversi, tre dei quali seicenteschi ed uno cinquecentesco; in particolare il titolo fa riferimento all’Apologia della menzogna di Giuseppe Battista, illuminante e dotta dissertazione sull’opportunità e logicità del ben mentire: la sottile paradossalità dell’assunto di base trova del resto antenati illustri nei latini, dove già un grammatico, Nigidio Figulo, introduce la distinzione fra mentiri e mendacium dicere, attribuendo alla prima delle due formule un significato sostanzialmente negativo perché volto con intenzione al danno altrui, ed alla seconda, all’opposto, un valore di innocuità, dando origine in tal modo a tutta una nutrita serie di scritti orientati a dimostrare, o a contrastare, la validità di questa distinzione.
Innanzi tutto, l’intenzionalità degli obiettivi: “Perciochè a le volte è onesta anche la bugia, quando giovando a chi la dice, non nuoce a chi l’ascolta” ribadisce Torquato Accetto in Della dissimulazione onesta, (ed. Marco Valerio 2005) trattatello pubblicato nel 1641 che destò la curiosità di Benedetto Croce, citato nel libro Sellerio del 1992; nel medesimo troviamo una Notizia che ci informa sull’origine di questa particolare raccolta: si tratta di Oscar Wilde, autore di un saggio sul tema Decadenza della menzogna (in: Opere, ed. Mondadori 1997) nel quale con pungente snobismo definisce la menzogna il “fondamento delle relazioni sociali”, ciò che dà sapore a un pranzo altrimenti destinato ad essere “insipido come una conferenza alla Royal Society”.
Acuto come Ulisse oppure candido come Pinocchio, colui che mente è simile al narratore: così per esempio ser Cepparello nella prima novella della prima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio, dove menzogna e vita malvagia si coniugano indissolubilmente: notaio, Cepparello pronunziava con sommo diletto falsa testimonianza e si prestava con analoga disponibilità ad essere spergiuro, omicida, bestemmiatore, baro ed altre piacevolezze; nel momento della finta confessione finale per la quale verrà venerato come santo, nella figura del protagonista, vero re dei bugiardi, si duplica il ruolo di affabulatore-scrittore, che crea menzogne per mestiere. E’ vero, Boccaccio qui sembra far trionfare Cepparello e la sua menzogna ordita ai danni nientemeno che della divinità; ma per i fedeli creduli, che di lui e della sua santità fasulla evidentemente si fidano, i miracoli avvengono realmente grazie all’integrità della loro fede in Dio, indipendentemente dalla fonte (Cepparello, il bugiardo santificato). Parrebbe dunque che la bugia sia estremamente redditizia: e sin’ora chi mente ha sempre avuto un tornaconto notevole, non solo: non è quasi mai stato punito, anzi, da Odisseo in poi i bugiardi sono i vincenti per definizione.
Si arriva così al Cinquecento, allorché Erasmo da Rotterdam (il cui vero nome era Geer Gerrit) nel suo Elogio della pazzia, scritto nel 1511, (ed. Einaudi 1964) esprime senza mezzi termini il concetto per il quale solo ai folli è concesso dire la verità, e in Shakespeare il giullare (il fool = pazzo) eredita direttamente dalla tragedia classica il ruolo del coro, il quale commentava o raccontava gli eventi nella loro interezza e veridicità: emblematici in questo senso sono il lutto e la malinconia di Amleto, ”cose che sembrano, perché si possono recitare”: menzogna nella menzogna, teatro nel teatro, la recita messa in scena dal principe di Danimarca, che crea disagio per ciò che sottintende ma non dà a vedere in maniera diretta, gli è consentita proprio per l’impunibilità legata alla sua condizione di folle, grazie alla quale può permettersi di dire verità scomode senza correre i rischi relativi.>
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