Cultura, società  -  Paolo Cendon  -  29/11/2023

Jean Gabin non parla più

Per decenni si è negato che il “tradimento” potesse dar luogo, fra marito e moglie, a un risarcimento pecuniario. “Ci sono all’uopo i rimedi familiari – si diceva – tipo separazione e divorzio: quello lo sbocco tecnico per le violazioni del dovere di fedeltà; una responsabilità in senso stretto non trova posto, qui”.

La svolta si è avuta, dopo qualche precedente, con una sentenza che un Tribunale italiano del Nord ha emesso, all’inizio di questo secolo.

Credo proprio che i nostri giudici avessero visto un film francese, in bianco e nero, di trent’anni prima, tratto da un noto libro di G. Simenon, “Le chat”. Film che bisogna adesso raccontare.

Dunque: Parigi, anni ’50, grigia casetta monofamiliare a Saint-Germain-des-Prés, prossima alla demolizione. Ad abitarci è una coppia di coniugi anziani, lui (Julien, Jean Gabin) tipografo in pensione, con un archivio di quotidiani ingialliti in cantina; lei (Clémence, Simone Signoret) un‘ex trapezista cui è toccata a suo tempo una brutta caduta nel circo, zoppica.

 Logoro ormai fra i due il rapporto, si erano amati un tempo, oggi soprattutto noia e stanchezza; lui in particolare. Fuori le ruspe si avvicinano sempre più; i vecchi edifici del quartiere, ancora in piedi, condannati alla demolizione tutti quanti.

 Una mattina Julien trova fuori della porta, in strada, un gattino randagio e lo porta dentro; nasce un grande amore tra i due. Clémence all’inizio é d’accordo, dà anche lei il latte alla bestiola, poi comincia a ingelosirsi. Appena l’ex tipografo ritorna da fuori ecco il micio accorrere, gli si strofina contro le caviglie, ogni cosa viene divisa; un idillio, non si staccano mezzo secondo l’uno dall’altro. Così per un po’ di tempo.

Un brutto giorno  l’uomo entra in casa, chiama il gatto, nessuna risposta; lo cerca in giro per le stanze, niente: scende in cantina, guarda ovunque, il felino non c’è. Mai era successo un fatto del genere, da sola la bestiola usciva raramente. Quando Clémence arriva con la spesa, la fissa accigliato: “Dov’è il gatto?”. Lei nega dapprima, poi finisce per ammettere: “Basta, ero stufa, ti occupavi solo di lui. Non ne potevo più: stamattina l’ho afferrato, sono salita sul metrò, l’ho portato dalla parte opposta di Parigi, lasciato per strada. Non lo rivedrai”.

Julien: “Vado a cercarlo; se non lo trovo sappi che non ti parlerò più”.

È quanto accadrà in effetti; il gatto non ricompare, Julien mantiene fede alla parola. I vecchi sposi iniziano a vivere come separati in casa: ognuno cucinando le proprie cose, a distanza di un metro in cucina, seduti poi uno di fronte all’altra,  su due poltrone in tinello, senza dirsi niente. Se lei fa una domanda lui non risponde: hanno messo a punto un codice tutto loro, per comunicare, si passano quando occorre dei bigliettini; la casa è piena di piccoli fogli bianchi, a mucchietti, quando devono dirsi qualcosa ne prendono uno, ci scrivono sopra, se lo porgono o lo buttano al volo, piegato in quattro. L’altro apre, scorre, risponde magari; suoni con la bocca mai, al massimo sguardi.

 Lei sembra pentita oscuramente, verga ogni tanto qualcosa, confidando nel riavvio di un dialogo; Julien riceve, legge corrucciato, afferra un altro quadratino bianco, ci scrive sopra un rigo, lo richiude, lo lancia alla moglie; lei apre speranzosa, la risposta è sempre: “Il gatto”.

 Passa del tempo, i due invecchiano di stagione in stagione; niente verrà più a cambiare. Quando un giorno Clémence muore di infarto, lui va a sedersi accanto alla finestra, verso la strada, guardando le ruspe a pochi metri ormai; un’ora dopo un colpo al cuore, improvviso, anche per lui.

 




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