Non serve parlare di “alienazione parentale” per ottenere il risarcimento del danno
Un’espressione che si è diffusa in vari settori, da un ventennio a questa parte, è quella di alienazione parentale: utilizzata - in ambito di separazione coniugale - per denominare gli effetti che si produrrebbero su un minore, affidato in prevalenza ad un coniuge (di solito la madre), nei casi in cui il minore stesso venga bombardato/martellato di notizie e commenti sfavorevoli sul conto dell’altro coniuge: evenienza al termine della quale accadrebbe che il minore stesso finisca per provare sentimenti di aggressione e di forte ostilità nei confronti per l’appunto del coniuge “diffamato”.
Sostanzialmente negli ultimi tempi si è assistito ad una rinuncia progressiva all’idea di concepire l’alienazione parentale come una vera e propria sindrome psichiatrica.
Ciò che interessa però in sede di responsabilità civile non è tanto il fatto che i sintomi di avversione contro il coniuge non primo affidatario rientrino formalmente sotto l’etichetta tecnico/manualistica di una patologia specifica: ciò è semplicemente al massimo oggetto di una disputa di carattere scientifico tra esperti del settore.
In sede di risarcimento del danno, ciò che sarà di per sè sufficiente ai fini della condanna è che
(a) vi sia stato effettivamente un comportamento distruttivo da parte del coniuge primo affidatario, con riguardo all’immagine dell’altro coniuge, presso il minore in questione (b) a seguito di tale martellamento il figlio stesso abbia per l’appunto assunto atteggiamenti di fastidio, di ripulsa, di intolleranza, nei confronti del coniuge “diffamato”.
Tanto basterà, tecnicamente, a prescindere dai nomi, perché un risarcimento debba essere concesso: ed è appena il caso di aggiungere che i profili risarcitori destinati a venire in evidenza saranno essenzialmente quelli del danno morale, del danno esistenziale, eventualmente del danno psichico a carico del minore in questione.
Tendenzialmente avremmo sempre due vittime/attori in giudizio, ciascuno pe ri suoi profili dannosi: il minore stesso e il genitore “diffamato”. I giuristi possono continuare a parlare di alienazione parentale se vogliono, ma come tramite lessicale, senza ricadute tecniche significative.
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