Monique e Maurice sono una coppia di mezz’età sposata da più di vent’anni; hanno due figlie grandi che ormai vivono fuori casa, una quotidianità nella quale condividono cibi, sonni, veglie, musica, libri. La donna avverte però da un po’ di tempo, forse dall’ultima vacanza fatta insieme, un certo distacco da parte di Maurice, una nuova e reiterata ossessione per il lavoro. Così una sera, dopo un rientro a casa particolarmente tardivo, pone al marito la fatidica domanda; se ci sia un’altra donna. Maurice risponde semplicemente di sì, c’è una donna, da diversi mesi ormai, si chiama Noellie. Il racconto della Beauvoir ha inizio in questo preciso momento, e segue passo dopo passo la discesa agli inferi della donna, raccontata in prima persona, sotto forma di diario:
Ho camminato a caso per le strade, ossessionata da questa frase: « Mi ha mentito ». Non ho mai avuto la minima indulgenza per l’ipocrisia. Le prime bugie di Lucienne e di Colette, ricordo, mi segarono braccia e gambe. Non volevo saperne di ammettere che tutti i bambini dicono bugie alla madre. A me, mai! Non ero una madre a cui si dicono bugie; non ero una moglie a ci si dicono bugie. Orgoglio imbecille. Tutte le donne si credono diverse; tutte pensano che certe cose, a loro, non possono succedere. E si sbagliano tutte.
In prima istanza, scelgono di comune accordo di accettare la relazione di Maurice; sono sposati da più di vent’anni, una sbandata può capitare, impossibile che il desiderio si arresti per tutta la vita sul corpo di un’unica donna. Ma intanto, quasi inconsapevolmente, inizia un’ossessione che porta la donna ad immaginare la vita del marito con l’altra.
Sono in pigiama, prendono il caffè, si sorridono … Questa visione mi fa male. Quando si urta contro una pietra, lì per lì si sente il colpo, ma il dolore viene dopo; con una settimana di ritardo, comincio a soffrire. Prima, più che altro ero istupidita. Razionalizzavo, cercavo di allontanare questo dolore che stamattina mi si è rovesciato addosso. Le immagini. Vado girando per casa e ad ogni passo me ne sorge una nuova. Ho aperto il suo armadio. Ho guardato i suoi pigiami, le sue camicie, i suoi slip, le sue magliette, e mi sono messa a piangere. Che un’altra possa accostare la sua guancia alla dolcezza di queste seta, alla morbidezza di questi pullover, è una cosa che non sopporto. Svegliandosi, coccolerà anche lei entro il cavo della spalla chiamandola la mia gazzella, il mio uccellino dei boschi? O avrà inventato per lei altri nomi, che pronuncerà con quella stessa voce? O avrà inventato addirittura un’altra voce? Mi sento segare nel cuore con una sega dai denti finissimi.
Improvvisamente, tutto il matrimonio viene visto sotto la luce di quel tradimento, e Monique, implacabilmente, cerca nel passato le avvisaglie di questo presente:
Ricordi implacabili. Come avevo fatto ad annullarli, a neutralizzarli? Un certo sguardo, due anni fa, a Mykonos, quando mi disse: « Dovresti comprarti un costume da bagno a un pezzo ». Lo so, lo sapevo: un po’ di cellulite sulle cosce, il ventre non più perfettamente piatto. Ma pensavo che lui se ne infischiasse. A me piaceva prendere aria e sole, e ciò non dava fastidio a nessuno. Pure – forse a causa delle bellissime ragazze di cui era piena la spiaggia – lui mi disse quella frase: « Comprati un costume a un pezzo ».
Poi, la solitudine. Inizialmente il percepire l’assenza del compagno, immaginarlo con l’amante, attenderne con disperazione il ritorno a casa; sino a giungere, quasi paradossalmente, ad averne in odio la presenza, al momento del rientro:
Le notti che Maurice passa da Noellie, ho paura di non dormire e ho paura di dormire. Quel letto vuoto accanto al mio, quella coperta liscia e fredda … Ho un bel prendere dei sonniferi: sogno. Spesso, in sogno, mi sento morire dall’infelicità. Resto lì, sotto gli occhi di Maurice, paralizzata, il viso contratto da tutto il dolore del mondo. Aspetto che mi corra incontro. Lui mi getta uno sguardo indifferente e si allontana. Mi sono svegliata, era ancora notte; sentivo il peso delle tenebre; m’inoltravo per un corridoio che diventava sempre più stretto, e respiravo a fatica, presto avrei dovuto mettermi carponi e alla fine sarei rimasta incastrata, e sarei morta per soffocamento. Ho urlato. E tra le lacrime ho cominciato a chiamarlo sommessamente. Tutte le notti lo chiamo; non lui: l’altro, quello che mi amava. Tutta la mia vita è sprofondata dietro di me, come in quei terremoti in cui la terra si divora da sé; sprofonda dietro di voi man mano che fuggite. Il ritorno non è più possibile. La casa è scomparsa, così pure il villaggio e l’intera valle. Anche se vi salvate, non resta niente, nemmeno il posto che avevate occupato sulla terra.
Verso l’una, la chiave ha girato nella serratura, e ho sentito in bocca quel gusto orribile, il gusto della paura. (Esattamente lo stesso di quando andavo in clinica a trovare mio padre agonizzante). Questa presenza familiare come la mia propria immagine, la mia ragione di vivere, la mia gioia, è diventata ora questo estraneo, questo giudice, questo nemico: il cuore mi batte di sgomento quando spinge la porta.
Infine, la quotidianità rotta, spezzata, mancante della sua parte essenziale:
Mi sembra di non aver più niente da fare. Avevo sempre delle cose da fare; adesso, lavorare a maglia, cucinare, leggere, ascoltare un disco, tutto mi sembra inutile. L’amore di Maurice dava un’importanza a ogni momento della mia vita. Adesso è vuota. Tutto è vuoto: gli oggetti, i momenti. Io stessa.
Sono io che ho deciso di seppellirmi nella mia tana; non conosco più né il giorno né la notte; quando non ne posso più, quando non riesco più a farcela, butto giù dell’alcool, dei tranquillanti, o dei sonniferi. Quando va un po’ meglio, prendo degli eccitanti e mi butto a leggere un giallo: me ne sono fatta una provvista. Quando il silenzio mi soffoca, apro la radio, e da un pianeta lontano mi arrivano voci che comprendo appena: quel mondo ha un suo tempo, delle sue ore, sue leggi, una sua lingua, occupazioni, divertimenti, che mi sono totalmente estranei. Fino a che punto di noncuranza si può giungere quando si è completamente soli, separati da tutto! La stanza puzza di tabacco freddo e di alcool, vi è cenere dappertutto, io sono sporca, le lenzuola sono sporche, dietro i vetri sporchi il cielo è sporco, questa sporcizia è come un guscio che mi protegge, non ne uscirò mai più. Sarebbe facile scivolare un po’ più avanti, nel nulla, fino al punto del non ritorno.
Che coraggio inutile, per le cose più semplici, quando il gusto di vivere è perduto! La sera, preparo la teiera, la tazza, il bricco, dispongo ogni cosa al suo posto perché il mattino dopo la vita riprenda con la minor fatica possibile. E tuttavia mi riesce lo stesso quasi insormontabile lo sforzo di uscire dalle lenzuola, di risvegliare la giornata. Perché non vedo i miei amici? Perché non sono andata al cinema? È impossibile. Una volta potevo andare al cinema, e perfino a teatro, da sola. Perché non ero sola. C’era la sua presenza in me, e tutt’intorno a me. Adesso, quando sono sola, mi dico: « Sono sola ». E ho paura.
Maurice le comunica l’allontanamento definitivo, sceglie di andare via di casa, di iniziare una nuova vita. Monique, per non affrontare direttamente lo strazio dell’abbandono, decide di andare alcuni giorni a New York a trovare la figlia. Cambia lo scenario ma l’immobilismo apatico delle sue giornate rimane identico:
Prima, non uscivo granché dal mio guscio, ma quando ne uscivo, tutto m’interessava: i paesaggi, la gente, i musei, le strade. Adesso sono una morta. Una morta che dovrà tirare avanti ancora per quanti anni? Già una giornata mi sembra tanto: quando apro un occhio, al mattino, mi sembra impossibile arrivare sino alla sera. Ieri, mentre facevo il bagno, il solo fatto di sollevare un braccio mi poneva un problema; perché sollevare un braccio? Perché mettere un piede davanti all’altro? Quando sono sola, resto immobile sull’orlo del marciapiede, per parecchi minuti di seguito, totalmente paralizzata.
Il racconto della Beauvoir, perfetto per la sottigliezza e lo scandaglio che attua nell’animo della protagonista, si conclude con il ritorno a casa di Monique, consapevole dell’abbandono definitivo del marito. L’alcova coniugale trasformata in una grotta solitaria.
Concludo questo breve scorcio sugli effetti del tradimento con le parole stesse dell’autrice, che non necessitano di alcun commento:
La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamar nessuno in aiuto.
Ho paura.