Caterina Arcidiacono, Antonella Bozzaotra, Gabriella Ferrari Bravo, Elvira Reale, Ester Ricciardelli (CTS del Centro studi e Ricerche ‘Protocollo Napoli’)
Abbiamo scritto nel 2019, come Centro studi Protocollo Napoli, le prime linee guida nazionali per le consulenze tecniche (CTU e CTP) in caso di violenza domestica nel quadro della Convenzione di Istanbul (https://aps-psycom.com/protocollo-napoli/), e le abbiamo scritte come baluardo e critica al cosiddetto ‘protocollo Milano’, quando era in auge nei tribunali e tra i consulenti il criterio dell’accesso (censurato in ultimo nel 2022 dalla Commissione Femminicidio della XVIII legislatura), della bigenitorialità senza limitazioni, del pregiudizio sulla madre “ostativa”, della prassi abituale di negare la violenza interpretandola e trasformandola in conflitto di coppia e modificando in tal modo il piano inclinato della valutazione della genitorialità in un piano fittiziamente orizzontale di sostanziale parità tra i due genitori.
In seguito, ordinanze di Corte di cassazione - tra cui l’ultima di particolare incisività, la n.4595/25, dichiarazioni di organismi internazionali come il Grevio, il Parlamento europeo, le Nazioni Unite, hanno individuato prassi distorte anche dei nostri tribunali, ossia procedure scorrette nel confrontarsi con i temi della violenza, negati e occultati sotto l’etichetta di pratiche “friendly”, vale a dire benevolenti nei confronti dei padri anche se violenti. Da ultimo citiamo il Libro bianco sulla formazione, a cura del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica - pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento Pari Opportunità, novembre 2024 - che da pag. 136 a pag. 142 detta le linee e regole di ingaggio dei consulenti, chiarendo che i tribunali devono rifuggire dai quei tecnici che non abbiano un’approfondita conoscenza della Convenzione di Istanbul o che siano noti per aver frequentato e/o organizzato corsi ed eventi di formazione sull’alienazione parentale, accreditando di fatto tale teoria, già a più riprese espunta dal novero delle teorie scientifiche a livello internazionale.
Ebbene, il protocollo di Roma si mostra ‘fuori tempo’, non registra alcun cambiamento, non si riscontrano diversità rispetto al protocollo di Milano del 2012, e, per di più, è anche sottoscritto da alcuni esperti di alienazione parentale. Con una differenza: il protocollo romano, in un impianto complessivo che possiamo definire ‘generalista’, ha inserito alcuni paragrafi sulla violenza, in modo da poter essere preso in considerazione come una guideline che garantisca, ai consulenti che vi aderiscono, il mantenimento di posizioni consolidate nella loro attività presso i tribunali, malgrado si siano espressi a favore dei costrutti PAS (e dei relativi trattamenti da essa derivati) facendone anche oggetto di formazione.
Partiamo dall’elemento specifico introdotto in caso di violenza, cioè il quesito, che viene considerato come parte integrante delle “buone prassi”. Si constata, purtroppo, che il quesito così come è presentato non rispetta l’articolo 31 della Convenzione, quando rimette alla decisione del consulente, nel caso di allegazioni di violenza, se esaminare il rapporto padre-figlio per valutare il tipo di affidamento; oppure quando vorrebbe mettere a confronto le competenze genitoriali degli ex partner, considerando come vulnus della competenza dell’uomo la violenza agita ma, come contraltare per la donna, anche la violenza subita; oppure quando presume di poter trovare, nel caso del bambino esposto a maltrattamento assistito, varchi per stabilire un buon rapporto con il maltrattante. E così il consulente dovrebbe precisare: “se eventuali incontri con il genitore A (maltrattante, ndr) siano compatibili con il suo interesse e, in caso di risposta affermativa, suggerisca elementi per consentire al Giudice di determinarne le modalità più idonee, anche al fine di evitare contatti diretti tra i genitori e ogni forma di vittimizzazione secondaria”. Quest’ultima precisazione è da considerarsi irricevibile perché si rivela per quello che è, cioè come una scarsa conoscenza da parte di chi ha steso il protocollo di cosa sia e che caratteristiche abbia il fenomeno - oggetto di numerosi studi scientifici - del maltrattamento assistito, nonché di quali accertati effetti negativi esso produca sul minore, limitandosi a suggerire che il problema possa considerarsi risolto qualora il bambino possa essere accompagnato presso il padre da persona terza, con ciò non esponendo la donna al contatto diretto con il violento. Un tale suggerimento dimostra che gli estensori non hanno dimestichezza con le numerose sfaccettature psicologiche del rapporto che si instaura tra figli e genitori che esercitano violenza. Si tralascia così tutta la gamma di comportamenti messi in essere, attraverso racconti, atteggiamenti, giudizi etc. nei confronti dell’altro genitore, che costituiscono delle vere e proprie aggressioni nei confronti del minore, indirette ma non meno dolorose e nocive.
Infine, sempre in un quesito che dovrebbe essere tarato sull’ipotesi della violenza, troviamo che il consulente [punto d.] “Proponga i tempi di permanenza presso ciascuno dei genitori, solo qualora ciò sia conforme all'interesse del figlio, in assenza di condotte pregiudizievoli dei genitori”. Sembra qui di capire che la violenza assistita non sia valutata di per sé pregiudizievole, ma occorra altro (cosa?) per evitare la permanenza di bambini e adolescenti presso un genitore a cui carico vi siano allegazioni di violenza. Se non fosse già sufficientemente chiaro, il contenuto di questo sottoparagrafo fa comprendere che gli estensori del protocollo Roma pur parlando di violenza familiare, girano intorno al tema ma non ritengono di doverlo tenere in considerazione, quando ipotizzano che la violenza sul genitore (padre o madre che sia, ma sappiamo che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta della madre) possa non costituire una condotta pregiudizievole per il minore.
Ancora, al punto g): [il consulente] “Suggerisca gli eventuali percorsi di sostegno che risultino necessari individuando, altresì, le strutture alle quali i genitori potrebbero fare riferimento”
Anche qui, di cosa si discute? I genitori che finora dovevano essere separati nelle visite ora sono rimessi insieme per essere affidati a strutture di sostegno? E quale sarebbe il percorso di sostegno per la coppia genitoriale o per i due genitori, per uno dei quali vi siano allegazioni di violenza? Tutto è lasciato nell’ambiguità di chi, nella migliore delle ipotesi, non ha compreso appieno cosa sia la violenza domestica e il suo contesto, fatto di comportamenti ostili e dannosi mirati a ledere l’integrità psico-fisica di donne e minori.
Il quesito proposto, in definitiva, appare formulato in modo contraddittorio e scarsamente aderente a quella che è la realtà della violenza domestica, il suo contrasto e la difesa dei diritti delle sue vittime.
Se passiamo al successivo paragrafo 17) , che riguarda le procedure innovative raccomandate ai consulenti, ci limitiamo a osservare che vengono accolte indicazioni che sono già rese obbligatorie per legge, come ad esempio i limiti posti all’ascolto della coppia o i limiti posti alla mediazione, ma nessuna specifica metodologia viene indicata nei casi di violenza, mentre viene lasciato immodificato l’impianto ‘generalista’ dell’intero testo.
Basta leggere il sottoparagrafo 8., sul punto dirimente per l’affido che riguarda le competenze genitoriali, per capire che nessuna attenzione viene spesa a favore della madre vittima, ma si ha cura di far comprendere che un padre maltrattante (soffermiamoci anche sul linguaggio usato e sulla cura nell’adoperare l’aggettivo “presunto” quando si parla di maltrattante e violento) può anche essere un buon padre, se posto al di fuori della relazione con la madre: “8) valuterà le competenze genitoriali, tenendo conto del necessario bilanciamento - anche in termini prognostici - tra i fattori protettivi e di rischio, della capacità del genitore presumibilmente maltrattante di prendere coscienza della disfunzionalità dei propri comportamenti, di rapportarsi in modo funzionale con l'altro genitore, di svolgere adeguatamente i compiti di cura, accudimento e di educazione del minore, di comprendere e sintonizzarsi sui bisogni del figlio e di offrire a quest'ultimo un contesto anche ambientale adeguato, di svolgere una valida funzione genitoriale al di fuori del contesto relazionare con l'ex partner”.
Inoltre, nel sotto paragrafo dedicato all’ascolto del minore si individuano i “paletti” necessari a non raccogliere in quanto tali le dichiarazioni del minore: si indica così una strada aperta all’interpretazione, alla possibile mistificazione e non rispetto di quanto il minore esprime, mettendo insieme confusamente: capacità di discernimento, età, maturità, vissuto verbalizzato e osservato; un mare magnum di variabili di osservazione, la classica notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui non è possibile distinguere il pensiero del bambino dall’interpretazione soggettiva del tecnico. Tutto il contenuto di questo sotto-paragrafo appare contorto, e possiamo considerarlo come la finestra da cui far rientrare concetti e interpretazioni (già cacciati dalla porta attraverso norme e sentenze), come condizionamento e alienazione, che non vengono mai nominati, nel testo, nemmeno per ribadire che costituiscono cattive prassi da eliminare, come è stato ricordato all’Italia in ogni sede europea e internazionale
E per concludere, a nostro avviso, questo protocollo racchiude dichiarazioni, indicazioni e rappresentazioni dei rapporti familiari, da un lato inadeguati e dall’altro fuori dal contesto e dalla realtà della violenza domestica, che donne e bambini subiscono da anni anche per responsabilità di istituzioni e tecnici che continuano a re-vittimizzarli. E questa volta, facendo anche credere agli sprovveduti di stare applicando la Convenzione.
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